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Autore: Aphasia_    28/10/2014    1 recensioni
Con "Ricordi" la protagonista della fiction definisce se stessa e le altre persone come lei: i fantasmi. A differenza però dei suoi simili, possiede una capacità incredibile: ha la capacità di viaggiare, cosa che generalmente è vietata ai fantasmi (specialmente ai condannati, ovvero a quelli che hanno ancora delle faccende in sospeso con la propria vita umana). Tuttavia a tutti è concessa la capacità di sognare, anche se si tratta più che altro di immagini, memorie della propria vita, qualunque cosa possa confortarli o al contrario ricordar loro dei propri peccati, delle proprie azioni commesse quando erano in vita. Ma al "ricordo" protagonista accade qualcosa di inaspettato, sogna un ragazzo misterioso che le dichiara il suo amore. Decisa così a seguire quel sogno, e per abbattere quella solitudine fatta delle solite conversazioni tra "ricordi" (ovvero fantasmi), e convinta che sarà proprio l'amore il suo riscatto, la sua salvezza, partirà per un viaggio difficile. Scopo: trovare il ragazzo del sogno.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non amo sottolinearlo, ma mi sembra necessario. Io sono morta, e per addolcire il concetto conoscerete forse il termine più comune, "fantasma", e, anche se preferisco come ormai saprete la parola "ricordo", accetterò questa accezione così comune. Sono un fantasma, allora. Ho accettato di fare questo viaggio a qualunque costo, nonostante i rischi, nonostante le delusioni. E sapevo perfettamente quali sarebbero stati: il rischio di non trovare il ragazzo del sogno, il rischio che non ricambiasse quell'amore, o che quell'amore non esistesse proprio, che fosse davvero soltanto un sogno, il rischio di non incontrare persone capaci di vedermi (sono davvero poche, ed è raro incontrarle, eppure esistono), la delusione di aver compiuto un viaggio che, per quanto produttivo, necessario, sarebbe potuto essere debilitante, avrei potuto non ottenere nulla. Ma sono morta, cos'altro avrei mai potuto perdere? Non avevo la vita, un caldo respiro nei miei freddi polmoni, cosa avevo realmente da perdere? Nulla. Avevo soltanto da guadagnare, avevo un bisogno terribile di sentire quel "ti amo". E forse, e dico forse, sarebbe stato quello il mio respiro, uno soltanto, ma sufficientemente caldo da farmi dimenticare che non potevo vivere. 

Pregai. Camminando per strada, all'inizio del mio viaggio, pregai. E non mi riferisco a quelle dottrine ricche di dogmi, leggi, codici di comportamento, quelle dottrine occidentali severe ed estremiste. Non mi riferisco a Dio, quello che intendono tutti. Pregai e basta, nel senso linguistico della parola. Insomma, intendo, "sperai". Che il mio istinto mi guidasse correttamente, dal momento che, ovviamente, non avevo una meta precisa, vagavo, mi affidavo al caso, alla speranza, alla forte convinzione che quel ragazzo era da qualche parte nel mondo, chissà dove. Il mio raggio d'azione era il mondo intero, e come potevo fallire, se viaggiare era il mio dono? Di tempo ne avevo, così come di pazienza. Invisibilità (limitata, escludendo appunto quelle persone aventi anche loro un dono), velocità, obliquità, vantaggi di non-vivere. Perché quando non sei qualcuno, quando sei qualcosa, il mondo è semplicemente un insieme di luoghi senza legami, distanze, ostacoli. Per noi "ricordi" il mondo è nostro, senza nemmeno possederlo, intoccabile. Accessibile nella sua totalità. Nostro, ma senza possederlo.
Aprii gli occhi, ero in una casa. Era piccola, molto accogliente, c'erano cose molto antiche e cose molto moderne, convivevano in un piccolo salotto vissuto. C'era una storia, lo sentivo. Le cose antiche erano costituite dal mobilio, da alcuni oggetti appesi alle pareti, pentole, terrine di ceramica, setacci, piatti decorati e firmati (un lavoretto scolastico firmato da una persona di genere femminile), arnesi da cucina, impolverati, come reliquie. Le cose moderne, invece, erano il televisore piatto, telefoni fissi con numeri enormi, telefoni cellulari quasi sempre scarichi ma ricchi di credito telefonico, robot da cucina ancora inscatolati, come se i proprietari avessero rinunciato ad utilizzarli per la complessità delle loro componenti, ventilatori, sistemi di riscaldamento e raffreddamento (eppure c'era un camino, elemento facente parte delle cose antiche), entrambi molto utilizzati, una cucina restaurata da non molto, vissuta, aveva prodotto pasti per molte persone, spesso moltissime, il forno era sporco, ma era come se fosse tutto nella norma, doveva esserlo o sarebbe apparso strano. Oltre il salotto, un corridoio e tre stanze: una matrimoniale con un solo lato del letto sfatto, due comodini, anche qui cose antiche e moderne, nel secondo comodino, immacolato, solo una foto e un vaso di fiori, orchidee, nel primo altrettante decorazioni, ma non floreali, piuttosto chimiche, medicinali, tanti medicinali, una vecchia radio, il telecomando di una cosa moderna, un mini-televisore altrettanto piatto. La seconda stanza era piena di giocattoli e libri, un magazzino di due generazioni diverse, due strati di cose, infanzia e adolescenza insieme, i giocattoli erano usurati e vissuti, alcuni erano pasticciati, i libri erano rovinati in alcune parti della copertina, i titoli erano antichi e moderni. Al muro foto di tanti bambini diventati poi adulti, grandi, o semplicemente cresciuti, foto di bambine vestite da damigelle che sorridono all'obiettivo, alcune in modo naturale, altre in modo un po' forzato, non abituato. Questi bambini li chiamano "nipoti". Nella terza stanza c'erano due letti separati da un comodino, e i colori dominanti erano il rosso e il blu, colori di una squadra di calcio. Soltanto un letto era utilizzato, era una stanza solitaria, riuscivo quasi a percepirne la routine quotidiana, come se quella stanza mi parlasse raccontandomi la sua giornata. Anche qui c'erano tante foto, le foto erano essenziali in ogni stanza, anche qui dei ricordi, ragazzi ad un matrimonio, felici e spensierati, gite del gruppo della chiesa, gite in barca. Tutto nella norma. C'era anche un esterno, immenso, nonostante la casa così piccola. Un terreno enorme ricco di orti, una volta ospitava persino cani, galline e galli, oche e anatre. Ora era trascurato, abbandonato almeno quanto una casa stregata. Le vecchie biciclette appese nel capanno sapevano di nostalgia, nessuno le avrebbe più inforcate, ma chissà per quale motivo le tenevano comunque lì, come se fossero sacre e intoccabili. Bici rosa, bici "serie", bici "da maschietto", altre con quei buffi animaletti di gomma che se li schiacci producono buffi rumori. Inizia a sentirmi a disagio, in mezzo a quelle cose intime, persino gli alberi da frutto aveva conservato dei ricordi, di bambini che rubano ciliege e olive, limoni e altri frutti, li mangiano con gusto e poi scappano, e quella scintilla di felicità è la cosa più bella di tutta la giornata, di una bambina che raccoglie dei fiori gialli dal terreno, che ne era sempre ricco, e li regala alla nonna, sono tagliati in modo grossolano, non li lega nemmeno, li regge semplicemente tra le mani, come una sposina improvvisata, e anche quella è una scintilla di felicità, un giallo accecante e profumato che regala un sorriso alla donna a cui sono destinati i fiori, che li mette in una bottiglia, anche se sa che appassiranno il giorno dopo, ma il giallo durerà, ed è questa la cosa più importante. Mi girai e nella vecchia recinzione, in un'altra zona del terreno, tre bambine raccoglievano delle uova, uno ciascuna, le mangeranno subito, nei loro personali porta-uovo di metallo. Era la cosa più buona del mondo, mangiare le uova semi sode nel porta uovo. Una di loro inizia a temere le galline, ma ne mangerà l'uovo, cucinato dalla nonna, con le altre due bambine, e forse quella fobia si argina, ma solo per quell'altra scintilla di felicità. Tornai dentro la casa. C'erano delle persone, sedute un po' sul divano e un po' sulle sedie attorno al grande tavolo del salotto. Ascoltavano tutti un signore anziano, seduto nella poltrona principale. Raccontava aneddoti ridendo, ma non era felice, lo sapevo. Lo ascoltai anche io, e risi persino. Nessuno lo notò e capii che non potevano vedermi. Non so perché, ma sospirai. Mi sentivo un'intrusa, in tutti quei bei ricordi ai quali avevo assistito, e li invidiavo, avrei voluto che fossero stati miei. Sono un "ricordo" meschino. Sorrisi teneramente, ma ancora mi sfuggiva qualcosa, sentivo che mancava qualcosa a quella scena. O forse qualcuno?

Nella casa entrarono due persone. Due donne. Una figlia e una nipote. Le riconobbi. La ragazza più giovane, la nipote, era una delle damigelle della foto, quella che sorrideva in modo forzato. E non finse nulla, stavolta, fu immediata a diretta. Riusciva a vedermi, e non lo nascose. Mi fissò in modo intenso e consapevole, senza spaventarsi, come se mi aspettasse, o come se fosse perfettamente consapevole del mio e del suo dono. Partecipò alla conversazione e all'ascolto dell'anziano quasi totalmente naturale, ogni tanto mi guardava, poi abbassava gli occhi, afflitta. Non diceva una sola parola, ma ascoltava tutto, sia le cose in italiano che quelle in dialetto. Ascoltava, capiva, sorrideva, poi era triste. Mi guardò di nuovo e stavolta decise di uscire fuori, voleva che la seguissi. 
La trovai seduta sui gradini della porta esterna, quella che dava al cortile. Mi avvicinai a lei e iniziammo a parlare a voce bassa.
«Chi sei?», mi chiese. Non aveva quella curiosità spaventata, che vuole soltanto accertarsi di non essere in pericolo, ma di quella che cerca soltanto risposte, forse aiuto.
«Sono un "ricordo". Sono in viaggio e sto cercando qualcosa.» risposi. Dissi "qualcosa" e non "qualcuno". C'erano troppi rischi e troppe delusioni in gioco. 
« Posso chiederti cosa stai cercando?» mi chiese, e lo fece senza perfidia, senza sarcasmo. Come poteva riuscire a capirlo? Non avrebbe mai potuto capire il mio mondo e il mio viaggio, ma risposi ugualmente, libera di prendermi in giro o di avere paura di me, libera di credere che fosse un'impresa folle. Non avevo nulla da perdere.
«Cerco il ragazzo che ha detto di amarmi in un sogno» risposi semplicemente.
«Che tipo è?» mi chiese ancora, altrettanto semplicemente.
«So che è vivo, e questo mi spaventa» dissi «e so che mi manca, perché non so dove si trova, e questo mi distrugge»
La ragazza sospirò. Era viva e io ero morta. Ma era tutto nella norma, proprio come quel forno sporco.
«Lo troverai». Sorrise. Sorrisi. E mi sentii un po' meno intrusa.
«Come fai a saperlo?» osai chiedere.
«Perché ti manca. E la mancanza è la forma più pura d'amore». Non pianse, nonostante pensasse a qualcosa di molto triste. Era una persona. Mi concesse di vedere in lei e di capire meglio. Vidi la foto nel secondo comodino della stanza matrimoniale, vidi la donna a cui quella bambina aveva regalato i fiori, la stessa che cucinava l'uovo alle tre bambine, e la stessa che sembrava mancare nel salotto vuoto, ma pieno. Era suoi quegli utensili facenti parte delle cose antiche, era lei la cuoca per le molte persone. Era sua nonna. 
«Sono un'orfana, è come se lo fossi» mi confidò « era come se fosse la mia vice-mamma». Riprese il controllo di sé e infine mi disse:
«Lo troverai, perché ti manca. E la mancanza è il sentimento più forte che conosco»
Quando me ne andai le promisi che avrei cercato il "ricordo" di sua nonna e che le avrei consegnato un messaggio non verbale, ma materiale: un mazzolino di fiori gialli.

  
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