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Autore: Sundy    25/01/2005    6 recensioni
Il primo specchio. L’illusione della perfezione si infrange davanti ai segni innegabili del vero, impressi nella carne, incancellabili
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sesshomaru guardò nell’acqua verdastra dello stagno il riflesso scolorito dal sole di mezzogiorno della sua virilità. Nello specchio vide la sua sagoma monca disegnarsi come una nuvola distorta dall’acqua che si piegava in onde rotonde come la risata di una ragazza sciocca.

E provò rabbia, e vergogna di sé….

Non si era mai soffermato a guardare il suo corpo nel dettaglio, e l’immagine che la fonte gli restituì finì per turbarlo. La pelle chiara come latte assumeva, nella luce tagliente verde e azzurra, maculata dell’ombra degli alberi, un colorito alieno, come di corpo dissanguato. La ripugnanza che provò a quella vista suonò nuova al suo orecchio, e sconosciuta alla sua lingua. La vista di ciò che negli uomini e nelle bestie lo disgustava non gli aveva mai provocato dolore; di fronte al riflesso della sua persona pallida, martoriata dalle cicatrici e storpiata dalla mutilazione un brivido denso come un sussulto della terra gli assalì il corpo e l’anima, risalendo a morsi impietosi su per le caviglie e scendendo lungo la schiena, attanagliandogli il ventre in una stretta formidabile. Come a proteggersi da quei colpi sferrati dal suo interno si piegò su se stesso, e inavvertitamente poggiò le dita sulla pelle raggrinzita attorno al braccio mozzato poco sopra al gomito, il braccio mutilato che ogni tanto sentiva muoversi con un riflesso incondizionato sotto la seta del kimono, nello slancio di seguire i movimenti del suo speculare destro. Reprimeva quegli scatti muscolari con disgusto, e nella sua mente si formava, subdola, l’immagine di un parassita, un verme a forma di moncherino che pendeva dalla sua spalla, un’ospite scomodo di cui non riusciva a liberarsi. Solo toccandolo davanti alla veridicità innegabile del suo riflesso nell’acqua che lo toccava, arrivò per la prima volta a concepire davvero quel cilindro livido di carne e di ossa come una parte del suo corpo, al pari del suo braccio sinistro intatto.

E per la prima volta nei suoi cento e più anni di impeccabili silenzi, l’annientamento del suo orgoglio gli restituì l’immagine più nitida di se stesso che poteva sperare di ottenere, spoglia di aspettative, di opinioni stagnanti e trabocchetti di menzogne preconcette. Guardandosi nel riflesso impietoso delle acque, turbate solo dalle gocce che cadevano dai suoi capelli bagnati, vide la nuvola amorfa schiarirsi e ricomporsi nel mosaico delle sue cento e più cicatrici di guerra, una rete indistricabile di colpi e contraccolpi, in cui il suo corpo non era avvolto, no, ma su quella rete si stendeva come una tenda, come le mura di una casa sulle sue fondamenta. E nella lucidità asettica di quell’istante, comprese come solo i segni delle percosse e delle umiliazioni subite posso misurare la vita realmente vissuta, e che senza quella misura non poteva affermare di aver vissuto uno solo dei suoi cento e ancora cento anni, o di conoscere la sua stessa natura. Con una lentezza amara, si raccolse nella carezza umida dell’acqua e dei capelli chiari che lo coprivano come un velo, con il braccio ripudiato stretto sopra il petto, a proteggere l’embrione di quella sua nuova consapevolezza.

Uscì dall’acqua a passi lenti, ignorando le onde che ridevano del passaggio delle sue gambe di gesso, i pesanti armamenti appoggiati sulla riva, le fasce colorate…. Lentamente si avvolse nella seta bianca e rossa, e si nascose come una bestia ferita tra le fronde della riva. Da lì poteva vedere chiaramente la superficie del laghetto incresparsi in onde leggere con ogni  soffio della brezza.

  
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