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Autore: mormic    29/10/2014    6 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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CAPITOLO 13
 
Mi sveglio ancora abbracciata al petto nudo di Haymitch, i polpastrelli solleticati dai suoi pochi peli grigi del petto.
Mi avvolgo nelle coperte e strofino la guancia sulla sua spalla, accomodandomi meglio, avvicinandomi più a lui, posando la mia gamba sulle sue, avvolgendolo.
Quelle lacrime trattenute ieri sera e poi le risa, hanno avuto su di me un effetto calmante.
Guardarlo quasi cedere sotto il peso della colpa che sente, sotto la montagna che credo porti sulle spalle, ha svelato l’uomo che ho sempre creduto di riconoscere dietro la sua imposizione di fingersi disinteressato, cinico e volgare. Stranamente mi sento meno spaesata questa mattina. Come se il suo lato umano fosse servito a scacciare il mio senso di solitudine. Ora so che posso condividere, anche senza utilizzare le parole, tutte le torture dell’animo che non so combattere e che anche io celo sotto l’immagine di donna leggera, nascondendo la vera me stessa come lui maschera il suo.
Haymitch ha vissuto una vita completamente diversa da quella che è spettata a me qui a Capitol City, eppure siamo due anime sole. Essere rimasti gli unici superstiti di una famiglia ci accomuna e tutto ciò che ci è possibile donare non possiamo e non riusciamo a regalarlo ad altri se non ai nostri simili. Perché tra me e lui non è necessario dover spiegare ciò  l’altro con lo sguardo di un solo occhio sa cogliere e capire.
Ed ora, avvinghiata al suo corpo, mentre sento il suo respiro ancora pesante del sonno, dimentico, per un attimo, tutti i meccanismi in cui siamo coinvolti, le bugie, i sotterfugi, le macchinazioni politiche, e il dovere di salvare i nostri due ragazzi.
Ora ci siamo solo noi, in un enorme letto di una suite del centro di addestramento, le mie mani che lo accarezzano e la sua, che per tutta la notte, non si è mai scostata dal cingermi il fianco, coperto solo da una sua maglietta.
Non sono neanche tornata nella mia stanza a prendere un pigiama.
Non mi alzerò prima di lui per sistemare i capelli o per truccarmi. Non gli rivelerò di prima mattina la falsa me che conosce bene, non dopo avermi dato la possibilità di abbracciare il vero lui.
Lui così vittima, così fragile, così sfacciato da cercare il contatto con i miei seni mentre cercavo di dormire.
Lui, a cui ieri sera ho regalato il conforto delle mie braccia.
Mi vedrà per quella che sono, non come tante altre mattine in cui ha fatto finta di non guardare, infilando lo sguardo nella sua tazza da tè piena di liquore.
Non voglio svegliarlo, ma respirare l’odore della sua pelle mentre ancora dorme, strofinando ancora la testa sulla sua spalla e strusciando la punta del naso sul suo collo.
Sorrido.
Avevo dieci anni quando lui ha vinto i suoi giochi.
E mi faceva una paura cane.
Ora invece è qui, che dorme come un bambino, mentre tutto il mio corpo è adiacente al suo.
Sorrido per un istante felice e meravigliata di come la vita sia sempre pronta a sorprendermi.
È il silenzio con cui ho sorriso e mi sono mossa che lo sveglia.
“Se strofini ancora un po’ quella gamba sul mio uccello, ci sarà poco che io possa fare per trattenermi e non diventare un animale” biascica ad occhi ancora chiusi.
“Conosco la tua versione animale. Ma devo dire che il tuo essere uomo mi piace di più” gli dico racchiudendo in una frase tutti i pensieri del mio risveglio.
“Siamo nudi. Mi sono ubriacato e non ricordo di averti strapazzata?” domanda.
Sembra stia scherzando, ma c’è un tono di allarme nel modo in cui lo chiede.
“Bè, non proprio nudi. Io ho la maglietta e tu le mutande” gli dico raggomitolandomi su di lui. Se posso stare altri due minuti così senza che lui si alzi, ne approfitto, cercando di afferrare di nuovo la pienezza di quell’istante di felicità che mi ha fatto sorridere.
“E per quale dannato motivo tu invece sei senza?” chiede riuscendo a fatica a trattenere le risa. Lo sento dal vibrare del suo petto sotto il palmo della mano.
“Se non lo ricordi allora eri ubriaco davvero e non me ne sono accorta. Eppure credo di saper riconoscere, ormai, quando perdi il contatto con la realtà. Di solito svieni sul pavimento stringendo un coltello” lo canzono con leggerezza.
“Non credo di averti mai vista tanto bella come quando sei uscita dalla doccia ieri sera, bocca di baci” dice stringendomi improvvisamente il fianco e attirandomi a lui.
Sotto la mia gamba, qualcosa si tende. Tra le mie qualcosa si schiude.
“Neanche io, quando mi hai chiesto di non allontanarti”.
Alzo il viso dalla sua spalla e lo guardo, dritta in quegli occhi che stamattina sono quasi azzurri, cristallini.
Osservo il suo labbro sbieco e imbronciato e lo bacio con delicatezza.
Un altro nuovo modo di baciarlo.
“Questa dinamica, tra noi due, sta diventando pericolosa” mi dice, portandomi su di lui e mettendo entrambe le mani sulle mie natiche.
Non c’è niente in quello che facciamo che mi sembri strano, innaturale o inaspettato.
È semplicemente così. Senza altro.
“Non è tra le cose che al momento mi preoccupano di più” gli rispondo, le mani poggiate sul suo petto, i gomiti sul materasso, come se stessi prendendo il sole.
“Invece dovrebbe, bocca di baci. Non sono una persona facile” ammette, i nostri sguardi incatenati.
“Niente è facile Haymitch” piazzo lì, senza pensare troppo.
“Sarebbe molto facile prendermi quello di cui ho voglia, invece” ammette sorridendo.
“Potrebbe essere facile, se te lo lasciassi fare” lo provoco.
“Non mi piacciono le donne accondiscendenti”.
“E a me gli uomini troppo delicati”.
Per questo mi ritrovo una sua mano sulla nuca che mi attira a lui e che non mi libera mentre la sua bocca mi divora, mentre l’altra si avvinghia al mio sedere.
Non c’è una sola parte di lui che non sento contro il mio corpo.
Il bacio è famelico, assetato, tormentato. Ma si ferma.
I suoi occhi di nuovo nei miei.
“Levati di torno, rifatti il tuo trucco e va’ a fare il tuo lavoro, bocca di baci, perché altrimenti davvero non rispondo di me” mi avverte, mordendomi un’ultima volta il collo.
“Come sei integerrimo. Nudo tutte le tue solite prerogative scompaiono come i vestiti” lo provoco di nuovo.
Ma perché lo faccio?
È che adoro guardare mentre finge di essere uno stronzo.
“Vai a vestirti, non ti darò quello che vuoi” minaccia con finta autorità.
“Questo – dico baciandolo sul petto, all’altezza del cuore – è quello che volevo. Niente altro” dico scivolando via da lui ed alzandomi dal letto.
“Non cercare dove è tutto morto. È più in basso che sono vivo” scherza.
“Certo, ho sentito. E se lo lasciamo lì, così rimarrà!”
Ho girato contro di lui il suo stesso umorismo.
È divertente!
È divertente vedere che si alza di scatto, mi acchiappa per la vita mentre cerco di allontanarmi e si avvicina per mordermi il sedere.
Mi lascio sfuggire un gridolino di sorpresa, e mi divincolo, ma ovviamente Haymitch e mille volte più forte di me.
“Decido io cosa lasciare in vita, bocca di baci. È il mio mestiere”.
Ricado seduta sul letto, stretta tra le due braccia.
“E il mio quello di assistere il distretto fino alla fine dei giochi. Non te! Vado a vestirmi” taglio corto e mi alzo.
Lui mi guarda ancora sdraiato sul letto.
“Ancora non ho capito perché sei senza mutande…” ribadisce lui, grattando vistosamente nelle sue.
“Dormo sempre senza biancheria” gli dico afferrando un paio dei suoi pantaloni dal borsone rovesciato a terra.
“Tu mi farai diventare pazzo, zucchero” dice mordendo un cuscino.
“Neanche io sono una persona facile, Haymitch”.
E detto questo raccolgo le mie cose e sparisco nella mia suite.
 
Il trucco, i capelli, l’abbigliamento e le scarpe sono comparse di nuovo.
La mia divisa per affrontare Capitol City e la settantacinquesima edizione della memoria è tornata. La maschera di nuovo su.
Esco dalla stanza pronta per tornare un momento a casa e disfare quella valigia che ho lasciato lì, sentendomi colpevole per non averlo fatto prima.
Non so perché per Haymitch sia tanto importante, ma ha cominciato a dare un po’ di sintomi di ansia anche a me. Non è più tornato sull’argomento, dopo ieri, ma il discorso mi è sembrato si trattenesse nell’aria. Una specie di nuvola che proiettava la sua ombra come un monito.
Devo assolutamente rientrare e disfarmi di questo impiccio. Non ho nessuna intenzione di commettere errori. Non ho mai sbagliato sul lavoro. E seppure questo ultimamente più che un lavoro sembri una follia globale, che esula da qualsiasi schema io abbia mai seguito, sento ugualmente la necessità di essere impeccabile.
Sono la tipa che quando le viene affidato un compito, lo porta a termine, solitamente in maniera perfetta.
Non sarò da meno ora, figuriamoci, con Plutarch come leader.
Esco dal centro di addestramento tirata a lucido come ogni giorno. Talmente tanto in tiro che, visti gli sguardi carichi di attenzione, mi viene da pensare di aver esagerato.
Prendo un taxi alla stazione sul viale alberato ed in pochi minuti sono a casa.
Striscio la mia carta ed abbandono la vettura, posando con lentezza il tacco delle mie scarpe gialle.
Il giallo è un colore che mi diverte e si intona con l’oro dei miei capelli.
Mi fermo sul marciapiede e fisso la porta di casa.
Mi soffermo per qualche minuto.
Qualcosa non va.
Eppure ho difficoltà a capire cosa.
Sento il taxi ripartire e lasciarmi lì impalata.
Ed ecco il dettaglio.
Il vaso accanto al portone, che di solito è inclinato sulla differenza di livello tra il vialetto e l’aiuola, è improvvisamente dritto. Ci tengo che rimanga sbieco, perché scola l’acqua con cui lo annaffio verso l’aiuola e non bagna il vialetto, facendomi portare lo sporco in casa. È stato spostato tutto sul cemento. E deve essere caduto e poi rimesso lì, perché la terra sotto la pianta sembra completamente rimestata.
O ho una talpa nel vaso, e in tutta Capitol gli unici animali sono i canarini del presidente Snow, oppure qualcuno è stato sui miei gradini di ingresso e ha urtato la pianta.
Apro casa come se nulla fosse, perché nessuno mi noti, ma in realtà credo di avere il cuore fermo e il cervello annacquato.
Appena apro la porta osservo con cautela tutto quello che ho sistemato qui io stessa.
Sembra tutto in ordine.
Il mio modesto angolo cottura è ancora in ordine.
Il divano tirato e senza una piega.
La finestra quadrata ed enorme che illumina il salotto perfettamente cristallina.
La porta del bagno ancora chiusa.
Il libro con tutti i nomi delle edizioni passate degli Hunger Games ancora aperto sulla lettera A, lì dove l’ho lasciato.
Ma continuo ad avere la sensazione che qualcuno si sia avvicinato troppe alle mie cose.
In camera da letto ogni cosa ordinatamente al suo posto.
Potrebbero fare delle foto per un dépliant, qui.
Tutto in ordine, sì, tranne il telefono retrò che ho sul comodino.
Quello ha un’inclinazione diversa da come io l’ho sistemato.
Osservo la piccola cassettiera e noto un’assenza.
Ora ho capito.
La mia valigia non c’è più.
 
Panico.
Il mio nuovo completo di pizzo!
Effie! Qualcuno è stato qui. Hai qualcosa di peggio a cui pensare!
Qualcuno è stato qui e mi ha anche rovesciato il vaso, caspita.
Effie, fregatene del vaso. Tra poco più di dodici ore questa non sarà neanche più casa tua.
Non sarà più casa mia.
Improvvisamente mi sento come se il treno che attraversa Panem da un capo all’altro si fosse schiantato sopra di me, vagone per vagone.
L’enormità di quello che sto per affrontare mi schiaccia fino a togliermi il respiro.
Mi siedo lentamente sul bordo del letto, le mani tremanti sulle ginocchia e smetto di parlare con me stessa, iniziando invece a domandarmi freneticamente cosa dovrei fare.
Chiamare Haymitch?
Non se ne parla, come gliela dico una cosa del genere al telefono?
Suonerebbe tipo “Sai, la valigia che avevo preparato per fuggire nel 13 con voi ribelli? Me l’hanno appena fatta sparire da casa”.
Non se ne parla.
Dovrei inventarmi tutta una conversazione in codice su due piedi e sperare che lui ne afferri il vero significato.
È troppo complicato.
Soprattutto ora che il mio cervello ha deciso di sdoppiarsi in due personalità diverse.
Rimango ferma e immobile seduta sul letto, le ginocchia unite, le mani fredde sopra il bordo della gonna, gli occhi vacui.
Mentre dentro un uragano di indecisioni è in tempesta.
Torno al centro di addestramento.
Scappo da Capitol City.
Mi costituisco.
Chiedo udienza al presidente e spiffero tutto.
Mi faccio deportare nell’arena.
Chiamo un’amica e parlo con lei al telefono come se nulla fosse mai accaduto.
Quale amica?
Non ho amiche.
Ho solo colleghe.
E il mio parrucchiere.
Forse potrei chiamare lui.
Alzo il telefono e faccio il primo numero che mi viene in mente.
Ma sono maldestra, le mani tormentate dai tremori dell’isterismo, e il telefono mi cade, aprendosi in due.
Dentro, visibile come uno specchio che riflette il sole, una microspia attaccata con del plastico.
Vorrei gridare, ma non oso.
Il rumore del telefono che cade a terra in pezzi è l’unico che ho prodotto.
Mi tappo la bocca con una mano e con l’altra cerco di afferrarlo e rimetterlo a posto.
Mi stanno controllando.
Da quanto?
Ho mai detto niente di compromettente al telefono?
Mi hanno seguita?
E se avessero messo delle cimici anche nelle nostre suite al centro di addestramento?
Pensa Effie, pensa.
No, il centro di addestramento è sotto la responsabilità di Plutarch. Se così fosse, lui lo saprebbe. E se lo avesse saputo, non ci avrebbe fatto fare una riunione di mezzanotte in camera di Haymitch.
Improvvisamente ripenso a lui, steso nel letto, che dorme con me abbracciata al suo corpo.
Poi la mente torna indietro, fino al momento in cui mi ha chiesto di disfarmi della valigia.
Se ero già sotto controllo, trovarla avrà dato al governo la certezza che sia invischiata in qualcosa.
Ma se non hanno registrazioni non possono collegare la valigia a niente altro se non alla mia solita vacanza post Hunger Games.
Respira Effie.
Respira e pensa.
Devi uscire in fretta a qui.
Fa finta di essere passata a prendere qualcosa che poteva servire al tuo lavoro.
Controlla in fretta che non abbiano preso altro ed esci.
Come se niente fosse accaduto, ricorda.
La mia agenda con i contatti è ancora aperto sul mio tavolo della cucina.
L’indirizzo di Tigris che avevo trovato mancava già, ce l’ho ancora nella tasca interna della mia giacca gialla.
L’ho passato da un vestito all’altro assieme alla mia carta per i pagamenti.
Almeno questa è una buona cosa.
Per il resto sembra tutto come l’avevo lasciato.
Posso prendere l’agenda e… e il libro dei tributi sopra il tavolo. Ogni accompagnatrice che si rispetti ne ha uno sempre con lei, aggiornato all’ultima edizione. Vi sono segnate interviste, abbigliamento dei tributi, sponsor e sponsorizzazioni, stralci salienti di interviste. È come un manuale da studiare e seguire per evitare che i giochi diventino ripetitivi, per non incappare nell’imbarazzante situazione di aver fatto o deciso di fare qualcosa che è già successo.
Si questo può andare.
Afferro l’agenda, rimetto all’interno tutti i miei foglietti sparsi, chiudo l’enorme tomo ed esco di casa in fretta.
Non vedo l’ora di essere di nuovo al centro di addestramento e al sicuro accanto ad Haymitch. Lui non permetterebbe mai che mi accadesse niente di male.
 
Quando entro di nuovo attraverso le enormi porte vetrate, passo l’atrio, un enorme buco scavato fino alla cima del terrazzo, al tredicesimo piano, e mi precipito nel cuore delle attività giornaliere.
Cerco di non dare a vedere quanto io sia sconvolta, ma i sorrisi e i saluti di routine mi sembrano eccessivamente tirati per apparire veritieri.
Haymitch non c’è.
E il mio mondo sprofonda.
Stringo forte a me l’enorme libro e l’agenda e le mie unghie, inavvertitamente, graffiano le copertine. Una addirittura si rompe.
La fitta di dolore mi fa sbattere gli occhi e scivolare lo sguardo.
Vedo Plutarch farsi largo tra la folla e venirmi incontro.
Si fa largo, la sua possente corporatura ondeggiante, tra le persone che affollano questo posto come se ci fosse perennemente una festa in corso, c’è chi beve cocktail di prima mattina, chi parla, chi afferra dai vassoi porti dagli avox sandwich e tartine come se non mangiasse da giorni, chi parlotta in un angolo e chi intrattiene conversazioni rumorose e plateali al centro della sala. Come se fossero ad un ricevimento.
Solo adesso mi domando cosa c’entro io qui.
Cosa ci faccia la vera me, stretta a questi due volumi, mentre il resto del mondo sembra girare improvvisamente alla rovescia.
Eppure tre giorni fa ero una di loro.
Solo tre giorni fa.
Tre giorni fa ero ignara ed inconsapevole.
E credevo di essere felice.
Ora mi sento solo devastata. Impotente. Controllata. Immobile. In pericolo.
“Signorina Trinket, la stavamo cercando” dice.
L’uso del plurale mi fa cercare qualcun altro con lo sguardo. Spero si Haymitch, ma è solo Oldage, con i suoi occhialetti finti sulla punta del naso e la sua cartellina stretta al petto.
Sembra un topo.
Mi è veramente antipatico questo tipo.
E non mi fido.
“Ditemi pure” dico con cortesia, sperando che la voce non tremi.
“Non qui signorina Trinket. Da questa parte”. Plutarch mi indica con una mano la direzione dell’uscita e Oldage mi fissa da sopra quegli occhiali inutili.
Mi avvio in silenzio e li sento entrambi dietro di me.
Adesso, oltre le mani, tremano anche le gambe.
Camminiamo in silenzio per il lunghi corridoi del pian terreno, in un ritmo di suola e tacchi che somiglia ad una marcia militare, il passo sincronizzato, l’oscillare delle spalle precisi come metronomi.
Una serie di porte si allunga verso la fine del corridoio, che appare lunghissimo alla luce delle lampade a luce fredda e per colpa degli innumerevoli pareti specchiate.
Lo sguardo mi cade sulla mia immagine riflessa.
Sono uno spettacolo orribile.
Le labbra tumefatte, quasi blu, gli occhi incavati.
È questo l’aspetto della paura?
“Eccoci, signorina Trinket – Plutarch apre una delle porte e mi invita ad entrare con un gesto della mano – qui saremo più comodi”.
La stanza si apre svelando una scrivania al centro e quattro sedie.
Anche qui sulle pareti, c’è uno specchio che corre in orizzontale da un angolo all’altro, tranne che sulla parete della porta.
La vernice è gialla.
Ma questo giallo non mi diverte affatto.
Sembra sarcasticamente ironico.
“Si accomodi – accenna alla sedia – dovremmo farle qualche domanda” dice con calma.
Il tono che usa non mi è familiare.
Non ha niente a che vedere con quello che ha usato quando ci siamo parlati nella suite di Haymitch.
Haymitch. Ma dov’è?
“Qualche domanda? A proposito di cosa?” chiedo sperando di sembrare tranquilla.
Tutto mi fa pensare che sto per infilarmi in una strada senza uscita.
O dentro un baratro.
“A proposito del suo team. Non lo prenda come un interrogatorio, per favore. Mi sembra troppo nervosa. Vogliamo solo conoscere alcuni dettagli per analizzare la situazione” aggiunge.
Le sue labbra parlano con me, ma i suoi occhi sembrano voler dire tutt’altro.
“Certo allora. Chiedete pure” dico accondiscendente.
“Bene – Oldage afferra il suo blocco dalla cartellina ed estrae una penna dall’asola di stoffa – saltiamo i preamboli formali, tutti noi abbiamo ben altro lavoro da fare. Mi dica, è vero che il signor Mellark e la signorina Everdeen dormivano insieme sul treno del tour della vittoria?” chiede Plutarch.
E Oldage fedelmente scrive.
Lo guardo perplessa.
Capitol non ha un sistema più moderno per registrare le conversazioni?
E sarebbe meglio dire interrogatori, altro che no.
Io sono seduta da un lato della scrivania, Oldage al lato del tavolo, più distante, con il blocco sulle ginocchia, e Plutarch in piedi dall’altro lato.
“Sì, è vero” dico secca. Questa so che è un’informazione che posso dare.
“E lei ha mai assistito ad atteggiamenti di intimità tra i due?” chiede ancora.
“Cosa intende per intimità? Intende se li ho colti in flagrante mentre…” inizio, ma per fortuna lui mi interrompe.
“No. Intendo semplicemente se li ha mai visti scambiarsi tenerezze anche durante la giornata, non solo la notte”
“Peeta è tenero con Katniss anche quando lei è vistosamente arrabbiata con lui. Certo che sì!” esclamo scandalizzata dalla consistenza della questione.
“Quindi è plausibile pensare che tra i due ci fosse qualcosa di evidente? Che so, una relazione” ipotizza.
Che razza di domanda.
“Direi proprio di sì! Sono fidanzati. Si sono anche sposati, voglio dire, almeno con quello strambo rito del loro distretto, che non ha nessuna validità legale” rispondo costernata.
“Signorina Trinket, se lei crede che i due siano una vera coppia, perché non si è mai assicurata che non combinassero nulla che potesse rovinare loro la carriera?” domanda ancora.
Una vera coppia?
Rovinare la carriera?
“Signor Heavensbee, tutto ciò esula dalle mie competente!” rispondo stizzita.
“Ma non esula dalle sue competenze controllare le condizioni fisiche dei suoi tributi e controllare ogni eventuale anomalia tempestivamente a noi” osserva alzando un sopracciglio.
“Ed è esattamente quello che ho fatto. Dal momento che non c’erano particolari significativi, non c’è stato bisogno di nessuna comunicazione” spiego velocemente.
“E allora perché la signorina Everdeen è incinta e il comando non ne sapeva nulla?”
“Semplicemente perché neanche io lo sapevo. Le analisi di routine erano tutte a posto” mi giustifico. Questa conversazione è surreale. Plutarch sa benissimo che Katniss non è incinta. Sta cercando di farmi capire qualcosa.
Non lo conosco bene, ma adesso so per certo che sta facendo con me quello che io volevo fare telefonando ad Haymitch. Parlare in codice.
Il telefono.
La microspia.
La valigia sparita.
Siamo tutti sotto controllo.
“Mi dispiace contraddirla, signorina Trinket, ma la vostra routine ha creato non pochi disguidi” va avanti lui.
“Oh. Mai io non ho fatto nulla per violare i regolamenti. Mi sono attenuta strettamente alle regole” dico. Ovviamente la mia frase vuole essere un ulteriore messaggio: non ho parlato con nessuno, non ho detto nulla, nessuno mi ha vista, il contatto con Tigris è sicuro.
Lo capirà?
“E di questo siamo tutti felici – fa una pausa. Ha capito, ne sono certa – ma vorremmo, se per lei non è un problema, che non abbandonasse il centro di addestramento per il resto della giornata, nel caso in cui dovessimo farle altre domande” dice.
Questo è un ordine, ma suona anche come avvertimento: “non allontanarti” dice.
Non ne ho nessuna intenzione.
“Non deve preoccuparsi di questo, signor Haevensbee. Oggi ho decisamente un mucchio di cose da fare qui. Abbiamo sempre un tributo da dover far vincere. Almeno uno dei due, intendo” sono glaciale mentre lo dico, come se questi giochi fossero esattamente come tutti i dieci che ho seguito attivamente, ma dentro mi sento morire. Le parole di Haymitch mi rimbombano nella testa. “Domani a quest’ora potremmo essere tutti morti. O peggio. Potrebbe essere morto uno dei due… e così avrò ucciso anche l’altro”
Il gelo passa dalle mie parole al mio corpo, attangliandomi in una morsa rigida e senza scampo.
“Sono contento di sentirglielo dire. Vedrà, saremo in grado di gestire perfettamente la cosa e non ci saranno problemi con nessuno. Questa edizione della memoria è la migliore che abbiamo mai avuto. Se uno dei suoi tributi vincerà, mi creda, sarà libera di prendersi una vacanza per i prossimi sei mesi. Ammesso che non sarà tanto stanca da non riuscire a fare nemmeno le valigie!” esclama ridendo.
E al suono di quella parola vorrei alzarmi dalla sedia e scappare. Ma rimango immobile, le punte delle dita ancora strette sui miei due volumi, tanto forte da essere diventate quasi blu per mancanza di sangue.
La mia valigia.
Plutarch mi sta confermando che la hanno loro.
“Mi creda, non sarò mai abbastanza stanca per preparare le mie cose e andare in vacanza!” esclamo felice.
Se solo potessi vedermi da fuori, sarei certa di non lasciar trasparire nulla.
Plutarch scoppia nuovamente a ridere e io lo assecondo, aspettando che smetta.
È Oldage ad interromperlo, con discrezione però.
“Signorina Trinket, le lasciamo una copia di ciò che ci siamo detti, è un suo diritto. La conservi, potrebbe tornare utile”e così dicendo strappa una copia dal blocco, la piega con cura e me la porge.
Io afferro il foglio, lo infilo nella mia agenda, li saluto stringendo loro le mani ed esco, ripercorrendo quell’enorme corridoio inquietantemente pieno di specchi per arrivare di fretta all’ascensore, schiacciare il tasto dodici e lasciarmi scivolare a terra scorrendo la schiena sulla parete, fino a lasciarmi andare a tutti i tremori che ho trattenuto fino adesso.
Il libro dei tributi e l’agenda mi scappano dalle mani, e il foglio che mi ha appena consegnato Oldage mi si apre davanti agli occhi. Il mio sguardo si inchioda, assieme al respiro.
Al posto della firma di Oldage, c’è uno scarabocchio che dovrebbe sembrare tale, ma c’è scritto: “Stanza 217”.
Piangendo, pulendomi il viso con il dorso delle mani congelate, mi alzo, cerco di darmi una sistemata, aspetto che l’ascensore arrivi al dodicesimo e poi, a piedi, scendo fino al secondo.
La stanza 217 è la camera di un avox al servizio del distretto 2, lo so, perché chiunque altro avrebbe una suite. Più che una camera so che mi troverò di fronte un loculo con un letto rialzato e un tavolino per una persona infilato sotto.
Non sapendo se bussare o meno, afferro la maniglia e la giro.
La penombra non mi lascia capire, ma appena la porta si apre, due braccia mi afferrano e mi attirano verso un abbraccio di ferro.
“Santo Dio, Effie. Sei viva”.
Riconosco il suo profumo prima ancora di riconoscere la sua voce.
“Hay” dico solo.
E a quel punto niente riesce a frenare il pianto che mi scuote, come fossi una bambina.
 
“Avanti. Calmati. È tutto a posto. Calmati” mi ripete strofinando le grandi mani sulla mia schiena, senza smettere di stringermi, senza smettere di bisbigliare nelle mie orecchie, mentre i miei singhiozzi sono tanto forti che temo ci sentiranno. Ma non so fermarmi.
Io non sono fatta per questa vita.
Dove sono le mie certezze? Il calore delle mie cose? Le mie frivole passioni? I miei rifugi sicuri?
Ora l’unico posto dove mi sento a casa, protetta, è tra le braccia di Haymitch, ma so che è solo una sensazione passeggera, perché potrei perdere anche questo, da un momento all’altro, e sarei sperduta in mezzo ad un oceano di squali pronto a divorarmi.
Non ho più nulla.
Non posso tornare a casa. Non ho più il mio lavoro, non ho più nessuno da cui andare senza coinvolgerlo in questa storia.
Mi sento sola.
Sola e distrutta.
Disperata.
Inadeguata.
Sprovveduta.
Piccola.
Una pedina.
Sono solo un piccolissimo elemento di un insieme che si dimenticherà facilmente di me.
“Effie, ti prego. Cerca di calmarti” mi continua a chiedere Haymitch.
Ma non so neanche rispondergli.
Non riesco a smettere di scuotermi, singhiozzando sempre più forte.
Odiandomi sempre di più, per non aver saputo trattenere una indegna crisi isterica.
Ma come posso far finta che vada tutto bene? Dove posso trovare una scusa per calmarmi, un appiglio che mi faccia credere che andrà tutto bene?
Non ho più nulla.
“Me lo dici io che faccio, se qualcosa andrà storto? Non sarò mai in grado di cavarmela, senza di te” riesco a far uscire, la frase sconnessa dai singulti, gli occhi pieni di lacrime e il viso ridotto ad un mascherone di trucco colato.
Ho sporcato anche la bellissima giacca grigia di Haymitch.
Cerco di pulirla, ma lui blocca la mia mano, alzandomi il mento e cercando il mio sguardo.
“Non sarai senza di me, zucchero. Siamo in questa cosa insieme, siamo una squadra” mi dice chinando il capo, per essere sicuro che lo guardi davvero.
“Sì” balbetto.
Non so se credergli o meno.
Ma non posso che fare affidamento sulle sue parole.
Su questo strano, nuovo Haymitch pieno di tenerezza e compassione.
“Adesso asciugati il viso e ascolta” mi chiede, porgendomi il suo fazzoletto di cotone.
Io mi soffio rumorosamente il naso e poi cerco di ascigarmi gli occhi. Devo aver peggiorato lo stato del trucco distrutto, perché Haymitch sorride.
“Devo essere un mostro” bisbiglio piena di vergogna.
“Ad essere sinceri non pensavo ti avrei mai vista ridotta così, bocca di baci”.
La sua ironia, sempre presente al richiamo, fa sorridere anche me.
“Perché siamo dentro questo postaccio?” domando voltando il capo con disgusto.
Le camere degli avox sembrano celle di un carcere a vita. Mettono i brividi.
“Perché Plutarch ha dovuto escogitare un modo di avvisarci che le nostre suite, da questa mattina, non sono più sicure. Così come il resto del centro di addestramento. E nessuno metterebbe una microspia in un posto dove un avox non è in grado di parlare neanche con sé stesso. Faremo procedere la giornata senza nessun riferimento a questa notte. Continueremo con il nostro lavoro, come se questa edizione dovesse andare avanti come tutte le altre e cercheremo, qui e lì di dare forza alla nostra copertura. D’altronde non abbiamo mai passato tutto questo tempo a lavorare fianco a fianco per i nostri tributi, negli ultimi dieci anni. Sarebbe veramente troppo sospetto. Quindi sappi che potrei strapazzarti da un momento all’altro! – esclama, e aspetta che io sorrida di nuovo, tra i singhiozzi che lentamente vanno scemando, prima di continuare – quando si avvicinerà la mezzanotte ci ritireremo con una scusa che dovrà essere plausibile, perché nel frattempo nell’arena accadrà qualcosa che nessuno si perderebbe per andare a dormire. Dopo di che, approfittando dell’attenzione di tutti fissa sui giochi, saliremo sul tetto e aspetteremo che Plutarch, dalla sala comandi, spenga il campo di forza. A quel punto dovrebbe comparire l’overcraft che ci porterà via. Impiegherà solo un paio di minuti, dopo che saremo saliti a bordo, a raggiungere l’arena, quindi non sono ammessi ritardi di nessun tipo. Se uno dei due rimane indietro, l’altro non farà niente di stupido per aiutarlo, intesi?” domanda cercando ancora la sicurezza di avere la mia totale attenzione e comprensione.
“Non posso prometterti una cosa del genere, Hay. Non vado da nessuna parte senza di te. Non posso affrontare un distretto che non conosco, senza sapere che almeno tu mi guarderesti sapendo di conoscermi davvero. Ti prego, non chiedermelo” lo imploro.
“Promettimelo, o ti assicuro che ti lascerò qui. Non possiamo permettercelo” mi dice improvvisamente duro.
“Questo vuol dire che mi lasceresti?” chiedo impaurita.
“Non dovrò farlo, ma se dovrò scegliere tra i ragazzi e… bè, lo sai” taglia corto.
Ovvio che lo so.
Io sono solo un’amica piuttosto stramba. Loro invece sono il suo tentativo di redenzione.
Non posso chiedergli tanto.
“Lo so. Però non accadrà, vero?” domando intimidita.
“No. Non accadrà. Rimani con me. Fai finta di nulla. Recita, per favore. Recita quello che vuoi. Ma per favore, abbi fiducia in questo piano. È il migliore che si sia mai fatto. E abbiamo Plutarch dalla nostra. Per favore, ora diamoci una sistemata e usciamo. Ma non toccare i capelli. Così spettinati sono perfetti” dice, scostando solo una ciocca dalla mia fronte.
“Allora anche la tua giacca” rispondo spazzolando via il mascara dalla sua spalla.
“Usciamo” dice facendo per muoversi.
“Aspetta – lo interrompo – quell’interrogatorio…” sto per chiedere, ma questa volta mi ferma lui.
“Sì, lo hanno fatto anche a me” sorride.
“Ti hanno chiesto di Katniss e Peeta?” domando preoccupata.
“No, mi hanno chiesto di me e te” dice lui, sorridendo ancor di più.
Batto un paio di volte le palpebre, prima di parlare.
“Di me e te?”.
“Sappi, che se qualcuno dovesse chiederlo, c’è un motivo ben preciso per cui ti chiamo bocca di baci”.
Lo guardo inorridita. Non può aver detto queste cose a Plutarch, sapendo che poteva ascoltarle a chiunque.
“Non avrai osato davvero…” la mia voce trema.
“Ho dovuto, zucchero. Qualcosa dovevo pur dire che sembrasse assolutamente nelle mie corde. E dovevamo parlare di te, altrimenti non avrei capito il messaggio di Plutarch” spiega. E non afferro il perché sembri ancora così divertito. Mi nasconde qualcosa.
“Io pensavo che i miei baci ti piacessero” ammetto avvampando di imbarazzo.
“Certo che mi piacciono. Ma è un altro genere di baci, quello di cui parlavo con Plutarch” dice chinando lo sguardo.
È più forte di me. La mano parte prima che io possa fermarla.
E in un attimo le mie dita lasciano il loro segno sul suo viso.
 
Questa giornata è interminabile.
Per tutto il tempo fingiamo di lavorare e alterniamo la noia a momenti in cui lavoriamo davvero. I ragazzi nell’arena sembrano cavarsela piuttosto bene. Hanno capito da quali settori devono stare lontani e non si allontanano mai dalla spiaggia, se non per fare un sopralluogo all’albero dove hanno scelto di legare il filo.
Il piano di Beete è talmente perfetto che nessuno stratega si sognerebbe di movimentare la situazione con qualche trovata geniale che costringa i tributi ad incontrarsi per forza. Sono tutti in attesa di vedere come evolverà la cosa. E noi approfittiamo della calma per continuare a studiare i punti deboli dei tributi, facendo così credere in giro che, quando arriverò il momento di sciogliere l’alleanza, saremo pronti a reagire per dare le giuste indicazioni a Katniss e Peeta. Haymitch non perde occasione per rimarcare che se dovrà essere costretto a scegliere chi aiutare, aiuterà il ragazzo.
Non so se anche questo serva o no a depistare chi nutre sospetti, ma a volte mi infastidisce l’astio con cui parla del temperamento di Katniss. Non si accorge di dipingerla come il resto del mondo vede lui.
Evito di dirgli tutte queste cose.
Ma le tengo buone per dopo, magari potranno essere utili per creare la scusa per la fuga.
D’altronde lo schiaffo che gli ho disegnato sul viso qualche ora fa ha interrotto il nostro discorso senza avere il tempo e il modo di decidere insieme cosa fare.
Adesso questa mancanza sta mandando in tilt i miei pensieri, perché non ho idea di cosa e come faremo. Temo la mezzanotte. Neanche fossi una bambina che ha paura del buio.
Siamo nel salone, circondati dall’alta società di Capitol, e continuiamo a discutere su quale degli sponsor potrà appoggiare Peeta invece di Katniss.
Siamo di nuovo seduti a quel basso tavolo del giorno prima, uno di fronte all’altra, il libro aperto davanti a noi.
Ascolto Haymitch sostenere la sua tesi, ma non lo seguo veramente.
Scarabocchio su una pagina vuota della mia agenda stupidi ghirigori, fino a quando non mi accorgo che uno somiglia eccessivamente alla spilla che Kastniss insossa sempre, quello della ghiandaia, e mi affretto a cancellarlo con tratti nervosi e pesanti.
“Effie, mi stai ascoltando?” mi domanda nervoso.
Stacco la penna dal foglio e diniego con piccoli movimenti della testa.
“Sono stanca, davvero. Questa giornata non finisce mai. E non ho davvero intenzione di scegliere tra uno dei due” rispondo sinceramente.
“Prima o poi dovrai farlo. Sai perfettamente che non potrà succedere di nuovo che escano tutti e due vivi dall’arena” dice sbrigativamente e senza alcun tipo di sentimento.
Ovviamente sono parole vuote. Ci stiamo affaticando tanto proprio perché sia effettivamente così.
Ma la tensione mi fa perdere di vista ciò che è vero da ciò che è finto e sento solo il nervosismo montare.
“Vorrei solo essere in camera mia, in un bagno bollente e profumato” ammetto.
“Fidati, anche io lo preferirei, soprattutto se fosse nella tua stessa vasca” mi dice.
So che è la nostra copertura. Che doveva dire una cosa del genere.
Ma il fastidio è cresciuto a tal punto che sono stanca di ascoltare cose che non sarebbero vere, se non fossero dette oggi, in questo momento.
So perfettamente che se non fossimo entrambi così coinvolti in questo piano ci staremmo ignorando come negli anni passati.
Sono cosciente del fatto che Haymitch non direbbe nulla del genere seriamente, ma solo per provocarmi.
Invece ora, mi assale il dubbio e mi accorgo che vorrei fosse vero.
Vorrei sul serio che Haymitch preferisse essere in una vasca piena di schiuma con me, piuttosto che chino su un libro che conosce a memoria perché ha vissuto in prima persona tutte le storie e le fandonie che ci sono scritte.
Gli ultimi tre giorni sono stati utili solo a farmelo vedere sotto un’altra luce e purtroppo in questo momento non sono davvero sicura che la cosa mi piaccia o meno.
Sarebbe stato tutto maledettamente più semplice.
Avrei continuato ad assecondare le sue follie e i suoi modi da minatore, sapendo che la nostra convivenza forzata avrebbe dovuto funzionare solo per qualche settimana l’anno.
Avrei accettato di tenerlo buono come meglio potevo e sapevo fare.
Non lo avrei guardato con ansia, alla ricerca di un messaggio nascosto in ogni sua frase.
Non sarei stata schiava del desiderio di sentirgli dire altre frasi cariche di sensibilità e delicatezza.
“Andiamoci a fare un bagno, allora” propongo. E anche questa frase è solo per la nostra stupida copertura.
“Stanotte, zucchero. Stanotte” mi risponde.
I suoi occhi grigi, adesso calmi, mi fissano a lungo.
Cosa vuoi da me, Haymitch?
Stai facendo con me lo stesso gioco che hai fatto con Katniss lo scorso anno, quando un semplice bacio equivaleva ad una semplice zuppa.
Mi stai chiedendo di osare di più?
Se la logica è la stessa credo proprio di sì.
Allora mi avvicino e lo bacio. Ma è un bacio che non sa di niente.
Delusa mi allontano.
Non possiamo esserci veramente noi in questo salone.
Siamo due surrogati della nostra ombra.
Che delusione.
La mia testa non può fare a meno di allontanarsi dal pensiero delle ore che scorrono. Dalle domande inutili con cui mi distrae. Dalla preoccupazione e l’ansia che mi attanaglia.
Dal brutto presentimento che mi sta corrodendo.
“Sai fare di meglio” mi bisbiglia nell’orecchio.
“Adesso non so fare proprio nulla” ribatto indispettita.
“Peccato. Sarebbe stato divertente” mi provoca.
“Be’, allora pensaci tu”.
“Andiamo a prenderci da bere” mi dice alzandosi e afferrandomi la mano.
Lo seguo come un cagnolino fedele, facendomi trascinare in mezzo alla solita folla che, in piedi, occupa la maggior parte della superficie del salone.
Gli Hunger Games sono una maledetta festa per questa città.
Inizio ad odiarvi tutti.
Ignoranti caproni.
Non mi accorgo che Haymitch si ferma e gli sbatto contro.
“Lo so che ti piace starmi sempre attaccata, zucchero, ma siamo arrivati al bancone e ho delle priorità nella vita. Che bevi?” domanda avvicinandomi con un braccio attorno alla vita.
Non toccarmi se non è vero. Giù le zampe.
Non dico nulla, ci penso su e poi chiedo un cocktail di cui mi piace il nome, ma di cui non conosco il sapore.
Ci servono rapidamente.
Haymitch trangugia velocemente dal suo bicchiere, io faccio fatica a deglutire.
Vorrei di nuovo una sigaretta.
Ma non potrei neanche uscire per fumarla.
Al massimo potrei sul tetto del centro di addestramento, ma non credo sia il caso di allontanarmi.
Forse l’alcol è una buona alternativa. Se funziona da anni con Haymitch può aiutare anche me.
 
Dal cocktail in poi le cose sono più semplici.
La mente è leggermente affaticata, come cercasse di orientarsi in mezzo alla nebbia, e questo non le lascia molto spazio per addentrarsi lungo sentieri pericolosi.
Continuiamo a parlare seduti a quello che ormai è il nostro tavolo, spesso Haymitch cerca la mia mano e intreccia le nostre dita e io guardo tutto come se fossi fuori del mio corpo.
Questa situazione mi appartiene come un paio di scarpe da ginnastica.
Per lo meno essere brilla fa scorrere le ore più velocemente.
Ma continuo a sognare il mio bagno bollente.
 
Arriva l’ora di cena.
Non è successo più nulla da quando i ragazzi nell’arena sono tornati alla spiaggia in attesa della mezzanotte.
Quando li abbiamo visti fare un banchetto di ostriche è venuta fame anche a noi, e come a noi, è venuta fame a tutti.
Il salone si è improvvisamente riempito di avox che passano con vassoi carichi di cibo.
Afferro qualcosa e mangio, ma è tutto senza sapore. E purtroppo mi accorgo che il mio stomaco rifiuta il cibo.
Lascio perdere anche di mangiare.
Questa giornata non avrà mai fine.
 
Poi, improvvisamente, sono le dieci.
I ragazzi hanno cominciato la loro scalata verso l’albero del fulmine da circa un’ora.
Guardarli salire a fatica, appesantiti dal banchetto sulla spiaggia, mi fa venire la nausea.
Ma più di tutto me la fa venire quella perla nascosta nella tasca di Katniss.
So che anche Haymitch ci sta pensando.
Se ne fossi capace pregherei.
Non riesco più a tollerare di essere qui, immobile, incapace, impossibilitata, ad aspettare che accada qualcosa programmato da altri.
Io di solito ho il controllo di tutto.
Ma solo oggi ho scoperto che in realtà era solo un controllo apparente.
Beata ignoranza.
Sento Haymitch diventare nervoso.
Abbiamo parlato per tutto il giorno tra di noi e poi con tutti gli sponsor disposti a darci ascolto. Sono sfinita.
Bere non è stata una buona idea.
Sono confusa.
Eppure è stato un solo cocktail.
Al diavolo. Ora è il momento di farsi venire un’idea, Effie.
Tra poco lì dentro sarà l’inferno e voi avrete la vostra occasione. Non sprecarla.
Ma non ho tempo di escogitare qualcosa.
Improvvisamente, dal fondo della sala, noto Plutarch che appare.
Si ferma a parlare con un paio di persone che sembrano arrivate da poco, ma guarda noi.
Guarda Haymitch.
Basta quello sguardo perché si capiscano e mi taglino fuori dalla loro conversazione non verbale.
Improvvisamente la mano di Haymitch cerca la mia e la stringe, forte. E so che questo non fa parte della nostra stupida recita.
Improvvisamente il tempo è scaduto e la mia amarezza deriva solo da una strapazzata mai ricevuta.
Stupida femmina. Lascia perdere. Non è mai stato il tuo tipo.
“Diamine, ragazzo. Prendi quella maledetta spoletta e togliegliela dalle mani! Cazzo, sei un uomo! Fatti rispettare!” esclama a voce alta, inveendo contro lo schermo, come se stesse guardando un incontro di lotta. Un mormorio di approvazione e di scherno si solleva dalla folla.
“Io non la sopporto più questa tua idea di far vincere Peeta, Haymitch!” esclamo improvvisamente.
Ecco che torna quello che ho tenuto per me.
“Zucchero, credimi. Tu non capisci niente di giochi” mi dice lui.
Stiamo litigando vistosamente, di proposito.
“Per favore, non dirmi che non ne capisco niente. È il mio lavoro” gli dico duramente.
“Credimi. Non lo è. Non sei mai stata in una fottuta arena. Tu non sai niente dei giochi” mi risponde.
È così carico di astio, e ha bevuto talmente tanto, che non posso essere sicura che quella che mi sta vomitando addosso sia davvero una rabbia di convenienza.
“Sono dieci anni che ti sopporto, tu, i tuoi modi da selvaggio, il tuo ritenerti talmente superiore da non aver mai bisogno di nessuno, tu e il tuo stupido modo di affrontare la vita” ribatto con fermezza.
“Tu mi sopporti, zucchero? E io? Che ho dovuto assecondare ogni tuo foglietto, ogni tuo promemoria, ogni tua fissazione per le posate e per le stronzate come le buone maniere? Katniss si farà ammazzare con la sua arroganza, credimi!” esplode.
“Katniss farà di tutto per proteggere Peeta!” esclamo con orrore.
“E’ per questo che vincerà lui! Fattene una ragione, bocca di baci, non uscirà viva da quella maledetta arena!”
I suoi occhi bruciano come carboni ardenti.
È spaventoso.
Le labbra mi tremano.
Rabbia o spavento?
Cogli l’attimo, Effie. Il tempo scorre.
“Ne ho abbastanza!” urlo.
Mi volto per lasciarlo lì, in mezzo a tutti, e scappare.
Ma Haymitch mi afferra violentemente il braccio e mi volta, solo che nel movimento il bicchiere pieno gli scivola e mi rovina addosso, inzuppando il mio adorato vestito giallo.
Sbarro gli occhi per la meraviglia e per un attimo i suoi si spengono.
“Oddio, adesso sarai costretta a buttarlo…” inizia lui abbassando la voce.
Da qualche parte qualcuno bisbiglia un “l’ho detto io che una capitolina e un raccogli carbone non sono fatti per stare insieme”.
Sento le lacrime arrivare di nuovo sul bordo delle ciglia.
“Oh, al diavolo!” sbotto e mi volto di nuovo.
Questa volta nessuna mano mi trattiene. Né quella di Haymitch né quella di nessun altro, anzi: si apre un corridoio di persone che si scansano, pronte a non intralciare la mia fuga.
Solo le parole di lui mi seguono.
“Zucchero! – mi chiama urlando – zucchero! È solo un vestito! Torna indietro!” mi chiama.
Ma so che devo scappare, correre, correre il più in alto che posso.
 
È successo qualcosa. Ne sono sicura.
Plutarch è sceso per poterci avvertire.
E a modo suo l’ha fatto.
Cosa non lo so. Ma so che devo arrivare sul tetto il più presto possibile.
Uscendo dal salone ho sentito che Haymitch mi correva dietro, ma non mi sono voltata a guardare. Questo era l’accordo.
Al quinto piano di scale di corsa mi fermo un secondo a riprendere fiato.
Non ho mai fatto tanti piani a piedi.
Sta per esplodermi il cuore.
Poi sento dei passi veloci, qualche piano sotto di me e la paura mi blocca il respiro in gola.
Mi affaccio per la tromba delle scale e vedo il bordo di una manica grigia che sfiora il mancorrente.
È Haymitch.
Devo aspettarlo?
Aspetto.
Devo riprendere fiato.
Mi raggiunge in pochissimo tempo.
“Che ci fai ferma qui? Continua a salire”.
Ma non ce la faccio. Non riesco quasi a parlare.
“Cosa è successo? Perché stiamo già andando al tetto?” domando ansimando.
“Credo si sia realizzata una delle ipotesi di Plutarch. Maledizione. È presto”
Mi afferra per un braccio e mi trascina dietro di lui.
Lo seguo a fatica. Sento il petto esplodermi. Solo altri otto piani. Non posso farcela.
“Ma perché diamine non hai preso l’ascensore?” domanda arrabbiato.
“Ho pensato che potessero bloccarlo e catturarmi” rispondo con il fiatone.
Le gambe mi fanno male.
I tacchi non aiutano la salita.
“Vedi che ho ragione quando dico che non sei affatto stupida? – so che dovrebbe essere un complimento – però adesso dovrai fare sette piani a piedi” mi dice rammaricato.
“Otto. Ne mancano otto” lo correggo cercando di prendere il ritmo.
Passo. Fiato. Passo. Fiato.
“No, solo sette. Usciamo al dodicesimo. Dobbiamo aspettare”.
Sono troppo sconvolta per chiedergli cosa. Posso solo sperare di arrivare viva al dodicesimo piano.
 
Incredibilmente ce l’ho fatta.
Sono davanti alla porta della camera di Haymitch e cerco di riprendere fiato mentre lui rovista tra le sue cose.
Il corridoio è vuoto. Nessuno è qui.
E mi sembra strano, perché era piuttosto evidente che sarei salita in camera a cambiarmi.
Forse non ci stanno cercando. Forse l’allarme era eccessivo.
Haymitch mi chiama da dentro e, poggiandomi con una mano alle pareti, riesco ad entrare.
Si sta cambiano, frettolosamente. Senza fare rumore.
“Ehi, dolcezza. Non ti sei ancora cambiata quel disastro di vestito” mi dice.
Non possiamo parlare davvero, qui dentro. Dobbiamo mantenere la possibilità che stiano controllando e pensino che non siamo coinvolti.
“No. Dovevo smaltire la rabbia” gli dico.
Lui si ferma e mi guarda, la maglietta infilata in testa, ma ancora non scesa fino ai fianchi.
“Mi dispiace per averti detto certe cose. Insomma. Mi conosci. Dico un sacco di cazzate”
Così sembrerà che stiamo facendo pace.
“E perché mi hai seguita, se pensavi di non venire a bussare alla mia porta?” domando costernata.
“Perché sapevo che dovevo aspettare che ti calmassi. Ma volevo essere a portata di voce e lontano da tutta quella gente, lì sotto” ammette.
Oddio. Continuo a non capire quale sia la realtà e quale la finzione.
“Come facevi a sapere che fossi qui fuori?” domando.
In realtà vorrei chiedergli perché mi vuole qui dentro.
“Ho lasciato la porta aperta. E ti sentivo respirare. O meglio, piangere” dice.
Bravo, il fiatone può confondersi con il pianto.
“Non piangevo. Ho avuto bisogno di scaricare i nervi. Avevo il fiatone” dico.
“Ultimamente sei troppo irascibile. Non ti ho mai visto tanto arrabbiata e così spesso, in dieci anni” continua, finendo di infilarsi la maglietta.
“Questo perché ti evitavo. Adesso invece è tutto troppo difficile. Con te così addosso e così convinto delle tue idee mi sento una bambola di pezza. Non posso dire la mia. Non mi ascolti. Niente di quello che dico è da prendere in considerazione”
“Io ti prendo in considerazione. Ma tu parli troppo” dice.
E si avvicina, per abbracciarmi.
Non so perché glielo lascio fare. Forse perché ho bisogno delle sue braccia che mi tengano, per non crollare a terra esausta.
Sarà una lunga, lunga notte.
Anche se i minuti scorrono al triplo della loro velocità.
“Non litighiamo più. Sono un coglione, lo sai” mi dice stringendomi.
“Si, sei un coglione” confermo abbracciandolo anche io.
E questo abbraccio è vero.
Poi lui si avvicina al mio orecchio e bisbiglia così sommessamente che faccio fatica a capire.
“Stanno arrivando, tranquilla”.
Non rispondo. Ma lo stringo ancora più forte.
“Non mi piace quando mi tratti così” gli dico, del tutto sincera.
“Non piace neanche a me trattarti così, bocca di baci. Lo dico sempre che lavorare insieme non è una buona idea” dice sorridendo.
So che questo è un sorriso di circostanza, eppure i suoi occhi non lo tradiscono.
“Come se avessimo un’alternativa. Se non lavorassimo insieme non potremmo avere una relazione” gli faccio notare.
“Dico che dieci anni di allenamento dovrebbero essere più utili” mi canzona.
Siamo ancora abbracciati. Haymitch nel silenzio sfila qualcosa dalla mia tasca.
È il foglietto dell’appuntamento nella stanza 217.
“È evidente che non servano a molto” gli faccio notare.
La nostra conversazione va avanti, ma nel frattempo lui si allontana, prendere anche il suo foglio e li mastica per un po’.
È piuttosto buffo, ma non ho la forza per ridere.
Sparisce un attimo al bagno e sento tirare la catena.
“Vorrà dire che dovremmo fare altri dieci anni di allenamento” dice tornando.
Sono di nuovo stretta a lui.
“Ha ragione quel tipo” ammetto con tristezza.
“Quale tipo?” domanda lui spaesato.
“Quello nel salone che, mentre mi urlavi contro, ha detto che una capitolina e un minatore non sono fatti per stare insieme” spiego brevemente, ma con rammarico.
So che ha ragione. E d’altronde niente è più vero: io e Haymitch non abbiamo una relazione.
“Credimi. Quel tipo con capisce un cazzo” taglia.
Le sue mani sono improvvisamente tra i miei capelli, le sue labbra mischiate alle mie, le nostre bocche unite in un bacio caldo, morbido e vigoroso.
E questo è vero.
Un vero bacio.
Il primo vero bacio, carico di pensieri, pieno di emozione, che Haymitch mi da.
“Non è vero che non mi sopporti, allora” gli dico aggrappandomi con le mani alla sua schiena.
Dopo tutto l’allenamento con Peeta è tornata ad essere piuttosto vigorosa.
“No, questo è vero. Ma sono un giocatore. Mi piacciono le sfide” dice baciandomi ancora.
Mi abbandono a lui. Completamente soggiogata dalla sua barba che mi strofina il viso.
Stiamo perdendo tempo.
Ma non vorrei dover andare da nessuna altra parte.
Haymitch che mi stringe è la sola cosa che sembra veramente concreta in questi giorni di follia.
Poi dei rumori nel corridoio catturano la nostra attenzione. Allontaniamo i nostri visi, ma non scostiamo i nostri corpi.
I passi si fermano.
Squilla il telefono.
Haymitch risponde al secondo squillo.
“Sì. Sicuro. Arriviamo” dice e poi attacca.
“Arriviamo dove?” domando spaventata, di nuovo.
“Al piano terra. Hanno delle domande per noi”.
Mi prende la mano e s’incammina.
Fuori della porta ci sono due guardie che ci aspettano per scortarci.
Sento la mano di Haymitch che si stringe troppo alla mia.
Chi era al telefono?
Non faccio in tempo neanche a cercare la prima risposta sciocca che mi passa per la mente che Haymitch ha tagliato la gola di quello di fronte a lui e rotto il collo dell’altro stringendolo tra le braccia.
Io sono sotto shock.
“Dolcezza. Andiamo. Ci aspettano” dice.
Ma invece di andare all’ascensore, torna alle scale.
Poi tutto accade in un attimo.
Altre guardie dal fondo del corridoio si avvicinano di corsa.
Haymitch accelera il passo fino ad arrivare a correre, ma io non riesco a stargli dietro.
Mi trascina per la mano, ma le gambe non mi tengono più.
Le guardie si avvicinano e ci urlano di fermarci.
Poi scavalcano i corpi dei loro colleghi e ci sono quasi addosso.
Le scale per la terrazza sul tetto sono a pochi passi.
Ma le guardie cominciano a sparare e siamo costretti ad appiattirci contro il muro, sperando che non ci prendano.
Haymitch si muove di nuovo, chinando la testa e io lo seguo, la mia mano inamovibile nella sua.
Le guardie hanno ricominciato a correre e a gridare di fermarci. Ma non sparano.
Vogliono prenderci vivi.
Noi inforchiamo le scale e cominciamo a salire.
E scopro con orrore che mi sono sbagliata.
La terrazza e il dodicesimo piano non sono separati solo da un solaio; tra l’uno e l’altro ci sono altri due piani di quelli che credo siano locali tecnici.
Non ce la farò mai a fare altri tre piani.
 
“Forza Effie. Non ci raggiungeranno. Saranno qui tra pochi istanti!” mi incita Haymitch.
Io mi sto lentamente accasciando.
“Va avanti. Ti sto rallentando. Abbiamo troppo poco tempo”
“Forza. Non ti lascio indietro” mi dice.
Le guardie si avvicinano.
Sparano un altro colpo, nella speranza di spaventarci, ma non funziona.
“Va avanti Haymitch, arrivo” gli dico.
Sto per arrendermi. Le gambe non si muovono.
Siamo quasi al secondo piano fantasma.
Haymitch continua a trascinarmi.
Poi le porte dei piani sottostanti improvvisamente si aprono ed altre guardie si riversano per le scale. Inseguendoci.
Sono troppi.
E sono troppi vicini.
La paura mi fa scattare di nuovo. I muscoli tornano a funzionare.
Una sola rampa e ce l’avremo fatta.
Ma la mia più grande paura diventa realtà.
Le mie maledette scarpe con il tacco mi tradiscono sotto il peso di una storta. Le gambe cedono definitivamente, la mia mano scivola dalla stretta di Haymitch e io cado, rotolando giù per la rampa dietro a noi.
Haymitch mi fissa, gli occhi carichi di orrore, e so che tra pochi secondi sarà sparito.
Non posso chiedergli di scegliere.
Lo so.
Sceglierà i ragazzi.
Sceglierà la possibilità di una libertà che non ha mai conosciuto.
Sceglierà di lasciarmi indietro.
In fondo chi sono io?
Rotolo all’indietro rimbalzando da un gradino all’altro, sbattendo la schiena e la testa, le gambe inerti che seguono gli urti. Provo dolore ovunque, ma sono talmente tanti i colpi dei gradini che non riconosco nessun dolore particolare.
Rotolo giù fino a fermarmi sul pianerottolo successivo.
Haymitch è ancora immobile a guardarmi e vedo tutte le sue convinzioni sciogliersi nell’attimo in cui i nostri occhi si trovano.
“Va via!” gli urlo.
Poi provo a rialzarmi, ma la gamba cede sotto l’esile peso del mio corpo.
Fa troppo male. Sento il corpo ridotto in pezzi. Ogni angolo è dolorante, ma dalla gamba, all’altezza della coscia, sale un dolore che non posso sopportare.
Mi accascio di nuovo.
Le lacrime scorrono dai miei occhi senza il mio permesso.
Haymitch è ancora lì, immobile, un piede sceso di un gradino verso di me, bianco come la maglietta che indossa.
“Vattene!” gli grido.
Poi il fragore dei motori dell’overcraft inonda lo spazio e so che tutto è finito.
Non raggiungerò mai il 13.
Haymitch non può scendere a prendermi.
“Vattene” dico ancora, questa volta senza gridare, forse più a me che a lui.
Ma le guardie sono su di me.
E nel momento in cui le loro braccia mi sollevano da terra, vedo Haymitch correr gli utlimi gradini e sparire dietro l’enorme porta di ferro che dà sul terrazzo.
Alla fine ha scelto.
E, ovviamente, non ha scelto me.
 
Sento più mani tenermi in piedi e il rumore dell’overcraft allontanarsi.
Il dolore alla gamba è intollerabile.
Ma lo è di più l’abbandono che mi gela il cuore.
È tutto finito, Effie. Se ne è andato. Adesso va via anche tu.
E tutto diventa buio.
 
 
 
Questo capitolo è stato difficile e lunghissimo, ma non potevo dividerlo.
Credo che sapessimo tutti come sarebbe andata a finire, ma scrivere queste parole è stato come viverle davvero.
Qualcuno di voi noterà che la rottura della gamba di Effie potrebbe essere un’idea rubata al meraviglioso Atlante delle Nuvole, ma non è così. Questa idea è frutto di una conversazione inaspettata, alla ricerca di una chiave narrativa e solo dopo c’è stato il pensiero del collegamento con l’Atlante. Spero di non aver deluso le aspettative di Vale&Vale (alias dr_peenis) e le ringrazio infinitamente per la loro disponibilità, per il loro aiuto costante e per avermi permesso di poter scrivere questo, rendendo la mia FF una sorta di prequel della loro. Adesso so di avere una enorme responsabilità. Spero di esserne all’altezza.
Se qualcuno di voi non avesse ancora letto l’Atlante (cosa di cui dubito fortemente) questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2614435.
Lo troverete splendido.
Ringrazio inoltre Allegambe, di qualcosa che lei sa ;)
Recensite, se volete e se potete. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate e le recensioni sono un buon motore per l’ispirazione, quindi ho davvero bisogno di voi!
Grazie per esservi fermati a leggere.
A presto
Mor

ps. ho corretto gli errori.... scusate!

 
   
 
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