La
Fermata dell’Autobus
Erano
poco più delle sei, quella mattina, quando
era uscito di casa e si era diretto alla fermata dell'autobus. E
l’aveva
trovata, fasciata in un abito rosa stranamente non troppo corto, il
trucco
sbavato e la pelle violacea per l’aria gelida di gennaio. Era
rannicchiata tra
il cestino dell’immondizia e la ringhiera della fermata.
Tremava e teneva gli
occhi chiusi. La conosceva: la vedeva tutte le mattine sul autobus,
quando si
recava all’Accademia Militare. La osservava di nascosto
ascoltare la musica
dalle sue inseparabili cuffiette bianche e mentalmente si chiedeva come
facesse
a non perdere l’equilibrio, senza mai reggersi, mentre tutti
gli altri (lui
compreso) si aggrappavano al primo appiglio disponibile. Era
straordinariamente
bella, i lunghi capelli biondi che sbucavano dal suo onnipresente
berretto
marrone. Com’era possibile che non ci fosse ancora nessuno
alle sei del
mattino? Senza neppure pensarci, si chinò su di lei e
l’avvolse con la sua
giacca, prendendola in braccio e stringendola forte al petto. Era
ghiacciata.
Fece dietrofront e camminò il più veloce
possibile per portarla al caldo, al
sicuro nel suo piccolo appartamento. Non la guardò per tutto
il tragitto, aveva
paura che fosse troppo tardi e soltanto quando fu dentro casa si
accorse che non
aveva aperto gli occhi neppure per un istante. Sembrava morta, se non
fosse
stato per le ciglia che ogni tanto tremolavano sulle guance.
L’adagiò sul suo
letto e le sfilò scarpe e abito troppo leggero,
sostituendolo con una delle sue
maglie a maniche lunghe, pregando che non si svegliasse proprio in quel
momento
e che non lo scambiasse per un maniaco. Che fu esattamente
ciò che si sentì
quando rimase a fissarla incantato un po’ più del
dovuto. Dopo averle
rimboccato le coperte, afferrò la lunga pochette argentata e
frugò all’interno:
chiavi di casa, cellulare, cuffie, soldi... carta
d’identità. Lesse in fretta i
dati anagrafici: Rota Rebecca, diciannove anni, studentessa. La rimise
velocemente
al suo posto, accertandosi che non mancasse nulla
all’appello. Si sedette ai
piedi del letto e appoggiò la testa sulle ginocchia,
cercando di pensare a cosa
dovesse fare. Poi tutto si fece buio.
Quando
si svegliò, c’erano due cose che non quadravano:
la sveglia che segnava le due
del pomeriggio e lui accovacciato sul pavimento ancora in divisa
militare.
Oltre al collo che suonava allegramente la fanfara con le sue giunture.
Si
rialzò massaggiandosi le tempie e dirigendosi in cucina,
sicuro che un caffè
l’avrebbe aiutato a rimettere insieme tutti i pezzi di
ciò che rea successo.
Perché qualcosa doveva essere successo. E poi, quello che
vide gli riportò alla
mente tutto: lei se ne stava al centro del suo minuscolo salotto, gli
occhi
sbarrati e le mani che tentavano disperatamente di coprire le cosce
nude con la
maglia che lui stesso le aveva dato. Aveva i capelli biondi arruffati e
il
trucco sbavato, ma la pelle aveva riacquistato qualche
tonalità più rosea,
segno che stava meglio. Almeno fisicamente. Sembrò
riconoscerlo, perché smise
di cercare di coprirsi e si lasciò cadere sul pavimento,
abbandonandosi a una
lunga serie di lacrime e singhiozzi.
«Ma porca...!» Interruppe l’esclamazione
in tempo, lui che odiava la
volgarità, e si agitò sul posto, incerto sul da
farsi. Poi mandò mentalmente al
diavolo la cautela e si chinò accanto a lei, avvolgendola
con le braccia e
stringendola forte a sé. La sentì aggrapparsi al
suo petto, scossa da un pianto
violento e si promise inconsciamente che nessuno l’avrebbe
mai più fatta
soffrire così, finché lui sarebbe stato in vita.
Si sedette sul divano marca
Ikea, e lasciò che lei si posizionasse come preferiva. Una
piccolissima parte
del cervello notò come il corpo della ragazza aderisse
perfettamente al suo, le
gambe avvolte intorno alla vita, la testa nascosta
nell’incavo del collo. Erano
rimasti così finché non si era calmata, poi si
era alzato, l’aveva avvolta con
una coperta ed era andato in cucina, sia per lasciarle un po’
di tempo da sola sia
per preparare qualcosa da mangiare. Il suo stomacò
protestò al pensiero: era da
quella mattina che non metteva nulla sotto i denti. Aspettando che la
pasta
cuocesse, s’accorse di non aver ancora scambiato una parola
con la ragazza.
Mentre prendeva l’acqua dal frigo, il suo sguardo cadde su
una bottiglia di
latte. Uhm, perché no?
Dieci
minuti dopo fece ritorno in salotto con della pasta,
dell’acqua e due tazze di
cioccolata calda, il tutto strategicamente posizionato su un piccolo
vassoio di
legno acquistato insieme al divano. E al resto
dell’arredamento.
«Ehi»
chiamò scostando la coperta e scoprendo una massa di capelli
biondi. La ragazza
fece leva sulle braccia e riemerse dal groviglio in cui si era avvolta.
Lui si
sedette non troppo vicino a lei, per non spaventarla più di
quanto già non
fosse.
«Ho preparato della pasta, se ti va. Immagino
che tu abbia fame» disse
lentamente, posando il vassoio tra di loro. Lei provò a
parlare, ma quello che
venne fuori fu più un rantolio secco. Si affrettò
a riempirle un bicchiere
d’acqua, che lei bevve emettendo un sospiro.
«Grazie» bisbigliò con un sorriso fugace.
Lui le sorrise incoraggiante e afferrò una tazza verde,
porgendogliela.
«Ho preparato anche della cioccolata calda. Io... ho pensato
che potesse
rimetterti un po’ in forze» disse titubante. Lei la
strinse fra le mani,
scaldandosi e annusandone il profumo dolce, per poi fare una smorfia
confusa.
«Che c’è?» chiese lui, confuso
a sua volta.
«E
che... è un abbinamento un po’ azzardato, non
trovi?» rispose arricciando il
naso. Dio, quant’era bella. Scacciando il pensiero dalla
testa, si limitò a
ribattere: «Be’, proviamo».
Il
loro pranzo “improvvisato” trascorse
così, tra scambi di sguardi nascosti,
avvolti in un silenzio imbarazzato e allo stesso tempo
dall’aria stranamente familiare.
Come se entrambi sentissero
di essere nel posto giusto al momento giusto. E con la persona giusta.
«Era la pasta migliore che io abbia mai mangiato»
disse la ragazza dopo
aver ripulito il piatto dal formaggio con la forchetta. Poi prese un
ultimo
sorso di cioccolata, sporcandosi il labbro.
Martino scoppiò a ridere. «Era solo della pasta al
burro! E comunque,
sei sporca qui» l’avvisò, indicando su
se stesso il punto giusto. Lei si
affrettò a pulirsi con il dorso della mano, sorridendo. «Be’,
complimenti allo chef, allora».
«Grazie
– rispose sollevando il petto, fintamente orgoglioso
– A proposito, io sono
Martino» disse approfittando del momento di maggior
confidenza.
«Rebecca». La
ragazza gli tese la mano, ridendo.
«Lo so» ammise. Poi si morse
l’interno di una guancia, dandosi
mentalmente del cretino per esserselo lasciato sfuggire.
«Come fai a saperlo?» chiese lei guardandolo
sorpresa.
Lui si sentì
avvampare. «Io... ho trovato la carta
d’identità nella tua borsa» ammise.
Rebecca lo guardò a bocca aperta, una scintilla di sconcerto
si fece strada nei
suoi occhi. «Hai guardato nella mia pochette?»
«Ho
dovuto! – si difese – Non sapevo chi fossi! E poi
non ho toccato nulla, c’è
tutto, telefono, soldi, chiavi e le tue cuffiette».
«Come
fai a non sapere chi sono? Ci vediamo tutti i giorni sul
bus!» esclamò lei,
scattando in piedi. Lui non rispose, ma si alzò, si diresse
in camera sua e
tornò quasi correndo con in mano la propria carta
d’identità, che poi le porse,
sotto il suo sguardo confuso. Lei la lesse velocemente.
«Cosa sapevi di me prima di
leggere questa? Cosa sapevi oltre il fatto che prendo lo stesso autobus
che
prendi tu?» chiese Martino. Lei si morse un labbro e lo
guardò triste,
chiedendogli silenziosamente scusa.
«E in realtà ho preso il
tuo telefono, ma solo per metterlo in carica – si
affrettò a dire – Abbiamo lo
stesso modello».
Rebecca
sbuffò, sorridendo teneramente.
***
2
MESI DOPO
«Marti»
si sentì chiamare. Si voltò a guardarla,
la mano ancora appoggiata alla porta della camera da letto. Blazer
dormiva
accoccolato sulla poltrona accano
alla
finestra, avvolto dalla sua inseparabile copertina a quadri.
«Sì?»
«Dormi con me, per favore?»
Il ragazzo la guardò per qualche istante, come a
rifletterci. Annuì.
«Forza, vieni» disse allungando una mano. Lei si
morse il labbro e tirò le
coperte fin sotto il mento.
«Intendevo
dormire qui, in questo letto».
Martino
aggrottò la fronte. «Ma non ci stiamo,
è da una piazza sola».
«Lo so, ma... per favore» supplicò. Lui
ci pensò su un istante, per poi
raddrizzare la schiena, chiudere la porta della propria stanza ed
entrare in
quella degli ospiti.
«Va bene» rispose, mentre le baciava
la testa e s’infilava sotto le
coperte insieme a lei. Le accarezzò un braccio con fare
comprensivo. Rebecca
gli si accoccolò addosso, appiccicandogli la schiena al
petto e lasciandolo per
un momento di stucco. Ma la circondò con le sue braccia
muscolose, stringendola
forte a sé. Dopo un paio di minuti, si ritrovò a
pensare a ciò che le era
accaduto in quel paio di settimane: Rebecca gli aveva raccontato tutto.
Di come
avesse litigato con i genitori dopo essere rientrata troppo tardi per
l’ennesima volta, la sua fuga improvvisa da casa, la notte
trascorsa in un
angolo della fermata della metro; un crescendo di buio, di solitudine e
di
paura. Ricordò quando l’aveva trovata: alle sei
del mattino rannicchiata in
quell’angolino di cemento freddo e umido, cercando di non
morire di ipotermia e
di mettere fine alla lacrime che scendevano a fiumi. Doveva avere tanto
freddo,
con solo un abito di chiffon addosso. Le si era avvicinato e
l’aveva avvolta
con la sua giacca pesante, l’aveva presa in braccio e portata
via da lì. E
tutto aveva avuto inizio. La mattina dopo l’aveva trovata in
salotto, in preda
alla confusione e al terrore di essere sola al mondo. Invece lui
l’aveva
accolta con sé, ospitandola per qualche giorno. Poi lei le
aveva confessato che
non voleva più tornare a casa, nonostante le persistenti
chiamate dei genitori.
Martino aveva semplicemente annuito e le aveva chiesto quando sarebbero
a
prendere le sue cose perché potesse trasferirsi
lì definitivamente. Rebecca era
scoppiata a piangere e l’aveva stretto talmente forte da
togliergli il respiro.
E lui se ne era innamorato. Il giorno dopo, mentre si dirigevano a casa
sua,
lei gli aveva raccontato che quella fuga era stata solo in parte
improvvisata:
meditava già da un po’ di andarsene e per riuscire
a farlo si era fatta
assumere in una delle più conosciute librerie di Torino. Poi
avevano portato
via tutto ciò che le apparteneva, occupando anche lo
spiraglio più piccolo
della sua 500 Fiat blu notte. Libri, vestiti, ancora libri e un violino
avevano
occupato tutto lo spazio disponibile. Oh, in tutto questo caos c'era
anche un
Border Collie nero di tre mesi che aveva trascorso tutto il viaggio
cercando di
mordergli la mano. Stava cambiando i denti... Quando poi era entrato
aveva
deciso senza anti complimenti che la coperta abbandonata sul divano
sarebbe
diventata la sua nuova cuccia. E tanti saluti.
«A cosa
stai pensando?» La voce di Rebecca lo strappò dai
suoi pensieri, riportandolo
alla realtà.
«A te» rispose sbuffando fra i suoi
capelli.
«Chissà
che bei pensieri, allora» commentò lei ironica.
Lui la ignorò. «Stai bene?»
La
ragazza si rigirò fra le sue braccia, puntando lo sguardo
nel suo. «Sì,
assolutamente. Forse perché so che ci sei tu. Sono stanca
della mia vecchia
vita. E poi non ti sembro una donna in carriera? Ho diciannove anni, un
diploma
in Lingue e un lavoro nella libreria più famosa di Torino.
Insomma, guardami!» esclamò
con una risata.
«Ti
vedo» le rispose accarezzandole una guancia. E non seppe mai
cosa lo spinse a
farlo, ma lo fece lo stesso: si chinò su di lei, le spinse
una ciocca di
capelli dietro l’orecchio e premette delicatamente le labbra
sulle sue. Poi si
staccò velocemente, spaventato dalla sua possibile reazione.
Ma lei gli
sorrise, portandogli una mano sul petto e l’altra sotto la
maglietta,
accarezzandogli lievemente il fianco nudo. Martino si sporse a baciarla
d
nuovo, e questa volta non si staccò più: si prese
tutto il tempo che voleva per
assaporare la sua bocca morbida, per assaggiare il leggero aroma di
menta che
la impregnava, per sfregare il naso contro il suo.
«Mi piace la mia nuova vita» disse
Rebecca stringendo le gambe intorno
alla sua vita. Fissò lo sguardo nel suo, stringendo i lembi
della sua maglietta
e tirandola via, lasciandolo a petto nudo.
«Anche a me –
rispose lui abbracciandola e immergendo le mani nei suoi capelli
– anche a me».