Disclaimer: i personaggi non
mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.
Tell me
what do you want me to say
«We don’t know what the Maximoff kid is showing him.»
«I don’t know what she showed you. It’s enough to make you do something stupid.»
Una fattoria.
Tra tutte le proprietà che Clint
poteva mettere loro a disposizione…Una fattoria.
Tony si era immaginato un bunker
sotterraneo anti-atomico, un rifugio sottomarino, un covo incassato nella
roccia di qualche sperduta catena montuosa. Gli sarebbe andato bene persino un
locale nascosto sotto un barber-shop,
non era un tipo schizzinoso, lui, quando si trattava di salvare la pelle.
E invece..Una fattoria.
Un campo di sterminata erba
verdolina, punteggiata di bianco quando l’alba ne accarezzava la terminazione
filamentosa; una muraglia di abeti sempreverdi faceva da confine, un orizzonte
sfumato di montagne grossolane, sbozzate; un costante soffio di vento carico di
neve gelava le narici e picchiettava i polmoni di microscopici cristalli di
ghiaccio.
La fattoria era un casolare di legno,
dotata di pochi e necessari ambienti, di un tetto a spiovente in lastre di
ardesia nera e comignolo di pietra. L’interno sembrava il set di un film
natalizio visto e rivisto, col camino, le panche intagliate, il tavolo robusto,
il lavabo di pietra e le tende a scacchi raccolte come trecce, dinanzi alle
finestre riparate da persiane verderame.
Non fosse stato per il motivo che li
aveva condotti fin lì, una vacanza nel cottage italiano sarebbe stata la manna
dal cielo. Cosa esisteva di più rilassante del frinire degli aghi e delle foglie
oltre i vetri appannati di brina? Il fuoco che scoppiettava e faceva le fusa,
una coperta a quadrati rossi e viola gettata sulle spalle, due o tre viti, un
paio di bulloni, arnesi vari, il Paradiso.
Non era da escludersi che Clint li
avesse portati fin lì proprio perché l’atmosfera ritemprasse i nervi scoperti e
curasse le ferite ancora sanguinanti. Per dare il tempo a tutti loro di fare i
conti con se stessi e con l’accozzaglia nervosa di visioni con cui la sclerata
rossa aveva ingolfato loro il cervello.
Non si parlava di Natasha, beninteso.
Natasha non aveva proferito parola e aveva preferito sparire per un po’. In
silenzio, in punta di piedi.
A passo di danza.
“Cosa ti ha mostrato?”
Tony non trasalì.
Sapeva che Steve era sulla soglia
della sala da almeno dieci minuti: ne aveva scorto il riflesso scivolare
languido sulla finestra, la silhouette dai rigagnoli luminosi del lampadario.
Inoltre lo conosceva abbastanza da
prevedere le sue mosse in anticipo –Bhè, quasi tutte. Il pezzo di legno rotto a
mani nude era stata una straniante ed inaspettata presa di posizione. Lo aveva
sconcertato, ovviamente, ma era stato un gesto abbastanza plateale da poter
essere usato come pretesto per deviare l’attenzione su qualcosa non fossero le
parole taglienti del Capitano.
Taglienti e ragionevoli.
Dannatamente ragionevoli.
“Non sono affari tuoi, Rogers.”
L’altro appoggiò la spalla contro lo
stipite massiccio, contraendo la mascella e provocando un guizzo livido sul
volto già tirato per la preoccupazione. Tony avrebbe scommesso uno spallaccio
dell’armatura che lo stomaco di Steve fosse divenuto un ammasso, ritorcimento a
fiocco di sensi colpa, voglia di prenderlo a pugni, consapevolezza di essere
nel giusto, e sincero affetto, profonda amicizia.
“Devo chiamare Pepper per renderla
edotta sulla situazione?”
“Siamo in un cottage italiano a spaccare legna come boscaioli canadesi, vuoi davvero alimentare ulteriormente non richieste voci sul nostro conto?”
“Io
stavo spaccando la legna, tu stavi guardando mentre spaccavo la legna.”
“Questa puntualizzazione non aiuta a
rendere meno strano il contesto, ne sei consapevole, vero?”
Tony si chiese se il suono appena
sentito fosse il mormorare del vento o la risata del Capitano. Preferì portarsi
la tazza di caffè alle labbra e mettere da parte qualunque tentativo di cercare
una risposta soddisfacente.
“Cosa ti ha mostrato?”
Stark storse le labbra e deviò lo
sguardo dal riflesso liquido di Rogers sul vetro: l’eco della loro discussione
era ancora troppo vivida, perché fosse permesso guardarsi direttamente negli
occhi. La finestra era stata una valida alternativa.
“Un errore.” Ammise Tony.
Bastò quella piccola confessione: la
bocca si macchiò di mastice nauseante, le arcate dentarie si incollarono, il
respiro sprofondò nei polmoni e provocò un amaro, acido, corrosivo scuotersi di
viscere.
“Un errore che sono intenzionato a
non commettere e a prevenire con tutte
le mie forze.”
“Non puoi cambiare il futuro. E’ più
difficile che mutare il corso del passato.” replicò Steve e la voce era forte,
sicura e calda –Mostrami un lato oscuro,
Steve, mostrami una debolezza cui aggrapparmi per aver fiducia nelle tue parole
e nel tuo Credo. Un appiglio a qualcosa che ti renda umano al par mio, al pari
di tutti, una macchia, qualcosa, qualunque cosa che non sia Idolo e Divinità,
radioso e accecante.
Irraggiungibile.
“Qualcuno qui ha guardato Doctor
Who.”
“Sei meglio di così, Tony. Sei molto
più di un trucchetto sfigato e una battutaccia.”
L’ombra del Capitano tremolò e
scomparve, una fiammella d’acqua che ad ogni bagliore s’increspa e si contrae,
si stende e si allunga.
Tony deglutì. Due rughe graffiarono gli
angoli delle palpebre socchiuse, una linea arzigogolata marchiò a fuoco
l’incontrarsi delle sopracciglia corrugate.
“Ho visto il cimitero di Arlington e una statua commemorativa.” Bisbigliò ai
cerchi concentrici che esplodevano dentro la tazza e si frangevano ai bordi, in
spumarole marrone chiaro “Ho visto il tuo corpo disteso su un lettino d’ospedale.
Mi sono visto piangere sopra di esso, sopra di te, meno
di un uomo, peggio di un mostro. Ho visto il tuo addome bucato da una
pallottola.”
Serrò la mascella ed un singulto
furioso gli saltò alla gola, rendendo le sue parole affilate e metalliche, ferro
bollente battuto a ripetizione come una campana a lutto.
“Qualunque cosa farò in futuro, non varrà mai la pena della tua morte.”