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Autore: chicca2501    30/10/2014    4 recensioni
Paring: Leonetta, Diecesca, Naxi e Fedemilla.
Dal testo: "Era una brutta giornata, brutta ma adatta a quello che stava per accadere. Le nuvole grigie nascondevano il cielo e il sole, mentre le tenebre stavano cominciando a invadere la pianura ghiacciata.
Tra gli spuntoni di roccia calcarea e di detriti inumiditi dal ghiaccio, la folla si stava accalcando verso un piccolo palchetto di legno fatto alla bell’e meglio che si reggeva a stento.
Sopra quella piattaforma c’era una ragazza slanciata, dal fisico magro e dai capelli lunghi e rossi e con gli occhi castani, i quali scrutavano tutte quelle persone ammassate lì solo per vedere lei, la grande Camilla Torres. "
Un'isola perduta in un mondo caratterizzato da guerre e carestie.
Un popolo magico in attesa di essere liberato.
Un capo dei ribelli pronto a tutto.
Quattro ragazzi diversi, ma uniti da un grande potere.
Amori che superano ogni confine del tempo e dello spazio.
I quattro elementi faranno tremare il suolo.
Acqua, fuoco, terra e aria si dovran temere!
C'è una terra da salvare,
Una battaglia da affrontare.
And I'LL WIN!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le nostre vite
 
Violetta sputò sangue per la millesima volta, dopo che l’ultimo calcio del capo tribù la investì nello sterno. Macchioline di luce iniziarono a danzare davanti ai suoi occhi, sapeva che se l’avessero picchiata ancora non ce l’avrebbe fatta.
Ma doveva resistere, doveva essere coraggiosa per lei, per il padre e per tutte le persone che amava.
Però era difficile resistere e la posizione fetale a cui era costretta dai colpi non era adatta per difendersi.
- Allora, adesso vuoi dirci dove l’hai nascosto? – con le poche forze che le rimanevano, la ragazza si girò guardare la causa di tutto il suo dolore: un uomo alto, robusto, i capelli neri e corti e gli occhi neri come due pozzi senza fine, lo sguardo acceso da una crudeltà inumana.
Dietro c’erano i suoi soldati, le lance puntate verso di lei in caso avesse deciso di ribellarsi, anche se sapevano che non l’avrebbe fatto, seguiti dal resto della tribù, che la guardava con sguardo spaventato e minaccio allo stesso tempo.
- Non ve lo dirò mai, bastardo! – sussurrò quel tanto che le corde vocali rovinate permettevano.
- Bene, fai la dura piccolina, ma ti passerà tutta questa voglia di giocare all’eroina dopo che ti avrò abbrustolito con lentezza, in modo che tu provi un dolore immenso. – detto questo, schioccò le dita, le quali produssero un rumore forte e profondo, e un uomo vecchio e vestito di stracci, probabilmente un servo, si avvicinò e gli tese un oggetto nero che Violetta non riuscì a vedere bene fino a quando non se lo trovò davanti agli occhi: erano tenaglie nere che brillavano di un rosso acceso sulla punta, segno inequivocabile che erano state immerse nella lava incandescente.
- Allora, vuoi dirmi dove lo nascondi o devo procedere? – gli sussurrò piano ad un orecchio, così vicino tanto che la ragazza poteva sentire il puzzo pungente del suo alito. Aveva molta, troppa paura, ma non poteva arrendersi, non adesso, non dopo che aveva passato le pene dell’inferno per nasconderlo. Nonostante avesse il cuore in gola e le lacrime che le pungevano gli occhi, scosse la testa, decisa.
- Okay, l’hai voluto tu. – con un gesto lento e programmato, il capo tribù tirò su un lembo della sua maglietta, scoprendo un pezzo di pelle nuda; infine posò le tenaglie ardenti su quest’ultimo.
Violetta gridò di dolore. Poi, il nulla la avvolse.
 
Violetta aprì gli occhi di soprassalto. Sentiva le gocce di sudore che le scivolano sulla schiena, il calore infiammato sulle gote, le lacrime che scendevano su di esse.
Alla fine, era ritornato, era risuccesso; dopo tre anni di silenzio, il Sogno era ritornato da lei, ad ingombrare i suoi pensieri, ad ucciderla nel sonno sotto forma del capo tribù.
Si sdraiò sul letto, stanca ed impaurita. Non riusciva a comprendere perché quelle immagini erano riapparse nella sua mente, ormai credeva di averle superate, che la paura della morte incombente si fosse dissolta, ma niente.
Era colpa sua, doveva aspettarselo. Era stata troppo debole e aveva sottovalutato il potere dei ricordi.
Si guardò intorno: la sua stanza era la stessa, con le solite pareti rosa confetto che tanto la disgustavano e che cercava sempre di coprire con i poster dei suoi attori o cantanti preferiti; c’erano, sulla mensola sopra la scrivania, i suoi amati trofei di pallacanestro di cui andava fiera e che non smetteva mai di lucidare; infine c’era il solito fantastico caos che regnava in quella stanza da quando era piccola, ordine per lei.
Tutto in quella camera era come prima. Tutto tranne lei.
Si voltò di nuovo e vide che l’orologio azzurro appeso al muro segnava le sette e mezzo del mattino.
Sgranò gli occhi, preoccupata e stupita al tempo stesso: si doveva muovere, o avrebbe fatto tardi a scuola, e di conseguenza il coach non l’avrebbe fatta giocare alla partita, perché, come diceva sempre: “Il più grande giocatore, arriva sempre in orario.”
Scese velocemente dal letto e prese nota mentalmente di quello che doveva indossare: innanzitutto, doveva prendere la divisa, così si diresse verso la scrivania dove, in mezzo alle riviste e ai libri, trovò il completo bianco e blu della sua squadra e, con una velocità strabiliante, si tolse il pigiama e lo mise.
Poi, come se si cibasse di adrenalina, trovò lo zaino, i libri e il borsone con gli attrezzi per l’allenamento in un batter d’occhio e corse giù per le scale, mancando per poco la domestica che la stava venendo a chiamare; correva come un fulmine, nulla poteva fermarla.
Tranne forse il corpo contro cui andò a sbattere, appartenente a una persona muscolosa che la attirò a se in un abbraccio forte. Violetta sorrise, riconoscendo il profumo di cannella e si lasciò andare a quella dimostrazione di affetto.
Alzò lo sguardo e fissò il ragazzo che aveva di fronte: capelli neri e folti, lineamenti dolci ma marcati, sorriso splendente e quell’aria da duro subito smorzata dalla tenerezza racchiusa nei suoi occhi scuri e dalla forma un po’ orientale.
- Ciao, Diego. – disse con voce allegra la ragazza, sciogliendo l’abbraccio.
- Ciao, principessa. Vedo che sei di fretta. – rise Diego, sistemandosi la giacca di pelle nera.
- Si, sono di fretta. Quindi, se mi dai un passaggio te ne sarò grata per tutta la vita e ti offrirò pure un frullato da “Lindy’s”. Che ne dici? –
- Me lo hai detto anche la altre volte, e aspetto ancora il cheeseburger, la maglietta nuova e un autografo da Steven Spielberg. Quindi no. – il ragazzo scosse la testa e l’indice per sottolineare il diniego.
- Ho le risposte: il fast food ha chiuso, non ho trovato magliette decenti e, nonostante mio padre abbia conosciuto Spielberg per spiegargli qualcosa di più sugli investigatori privati, non vuol dire che io fossi tenuta a vederlo. Eh dai! Ti prego! - un sorriso innocente apparve sul volto di Violetta, mentre gli occhi divennero dolci e grandi come quelli di un cucciolo bisognoso di aiuto.
Diego la guardò; no, non si sarebbe fatto fregare ancora. Anche se lei era la sua migliore amica e le voleva un mondo di bene, voleva dimostrarle che non poteva fargli fare tutto quello che voleva, non dopo aver sentito le voci che circolavano.
Le aveva sentite qualche mese fa, alla ricreazione, da due primine del cavolo che dicevano: “Diego, quello della IV E, fa tanto il duro e il menefreghista ma poi si fa comandare da quel maschiaccio della sua migliore amica.”
A Diego era venuta una voglia pazzesca di dare un pugno sul quel faccino innocente da quattordicenne; però era vero, lui era quasi sottomesso a Violetta e lui non voleva più essere così!
Lui era Diego Casal e lui…… non ce l’avrebbe fatta, ne era sicuro, e sapeva che ne era sicura anche quella ragazza davanti a lui, con un borsone in mano e il pallone fortunato che le aveva regalato quando aveva dieci anni nell’altra e non poté far altro che annuire rassegnato e dire: - Ok, e passaggio sia. –
Violetta gli saltò letteralmente addosso, gridando grazie a raffica.
- Cosa sta succedendo qui? – una voce profonda e maschile li fece voltare.
- Tranquillo papà, sono solo emozionata. – la ragazza alzò lo sguardo su suo padre e sbiancò, travolta dall’immagine sconvolgente: davanti a lei vedeva il viso dell’uomo che l’aveva cresciuta, ma allo stesso tempo vedeva quello del capo tribù. Sentiva ancora il dolore dei calci alla bocca dello stomaco, il sapore del sangue in bocca e il terrore che la avvolgeva tra le sue spire di paura. Le venne da vomitare. Chiuse gli occhi e respirò profondamente; quando li riaprì vide gli uomini più importanti della sua vita affianco a lei, preoccupati.
- Vilu che succede? – chiese German, in preda all’ansia, come sempre del resto.
- Niente pa’, tranquillo. Come va con il lavoro? – lo confortò la figlia, abbracciandolo.
- Altri due omicidi e un suicidio. I due uccisi erano bambini. – disse con la voce fredda da investigatore privato quale e che usava solo con i suoi clienti e quando parlava del suo lavoro.
- Che bastardi. – mormorò Diego.
- Puoi dirlo forte, Casal, anche se non tollero le parolacce in casa mia. – replicò German, lanciando sul ragazzo uno sguardo di rimprovero, al quale quest’ultimo arrossì violentemente.
Fu Violetta a interrompere quella piccola conversazione: - Bene, pa’, adesso dobbiamo andare. – lo strinse ancora più forte, cercando di non notare la sua somiglianza con l’uomo del suo incubo; poi, prese Diego per un braccio e lo trascinò fino all’uscita.
Fu fermata dalla voce del padre: - Vilu, hai fatto colazione? – sorrise furbescamente, sapendo quanto suo padre ci teneva all’alimentazione, e disse: - No, papino. Ciao, ciao. – infine sgusciò dietro la porta, portando dietro di sé il suo migliore amico.
German sospirò, ma non fece nulla per fermarla, non oggi. Aveva notato il colore pallido e la paura della figlia quando l’aveva guardato. C’era solo una spiegazione a questo: Lui aveva incominciato ad agire.
 
- Dai, Francesca, ci siamo quasi! – la voce di Luca era entusiasta, nonostante la stanchezza. Finalmente si stava realizzando il loro sogno, qualcosa che fino a due giorni fa non avrebbe mai sperato: la libertà.
Guardò suo fratello, raggiante e pensò che non aveva visto niente di più commovente in vita sua.
Lui aveva lottato e alla fine ce l’aveva fatta, era riuscito a salvare se stesso e la sorella e a portarla lontano da quella prigione.
In quel momento si trovavano su una collinetta in periferia, dove era situata la loro nuova casa; per lei era una sensazione totalmente nuova e rigenerante sentire l’aria fresca sulla pelle, vedere il cielo azzurro e il sole luminoso sopra di lei.
Aprì le braccia e lasciò che il vento le scompigliasse i lunghi capelli corvini e un’assoluta sensazione di pace la avvolse. Chiuse gli occhi e tutto svanì, così li riaprì, spaventata.
Sentì suo fratello urlare di gioia poco più avanti, in preda all’adrenalina più pura, lo vide piangere dalla felicità, lui che non piangeva mai, a differenza di Francesca, la quale piangeva per ogni cosa. Anche adesso stava piangendo, le lacrime le scendevano silenziosamente e copiosamente giù per le guance rosse.
Si lasciò cadere per terra e inspirò profondamente; anche Luca si distese affianco a lei e la abbracciò con tutto l’amore che un fratello può dare.
- Ci siamo riusciti, Fran. Non so come, ma ci siamo riusciti. – la voce del ragazzo era rotta dall’emozione.
- Ce l’abbiamo fatta solo grazie a te e a nessun altro. Però mi dispiace per gli altri, non volevo lasciarli lì. –
Un’ombra scura passò sul volto di suo fratello, prima così allegro. – Neanche io, sorellina, ma c’è un motivo sul perché ho lasciato gli altri. – le parole uscirono contro la sua volontà e si rese conto solo dopo di quello che aveva detto, aiutato anche dallo sguardo stupito della sorella.
Si mise a sedere e con un cenno invitò anche la ragazza a fare lo stesso. Quest’ultima obbedì silenziosamente.
Luca si schiarì la gola e sospirò, passandosi una mano sui capelli. Non sapeva come dirglielo, glielo aveva nascosto per troppo tempo ormai, e adesso non sapeva come dirglielo.
Si era ripromesso che le avrebbe detto la verità solo quando sarebbero riusciti a fuggire, e ora la realtà dei fatti lo sconvolgeva. Non sapeva bene cosa stava provando in quel momento, ma di sicuro aveva paura, tanta paura, aveva il terrore di come lei l’avrebbe preso. Decise che gliel’avrebbe detto velocemente, senza giri di parole.
- Francesca ascolta, la verità è che ti ho portato fin qui perché……. – all’improvviso, si sentì uno sparo in lontananza.
- Merda! – imprecò Luca. – Sono loro! – un altro colpo, questa volta più vicino.
- Che cosa facciamo?! – gridò Francesca spaventata, subito zittita da un gesto di Luca.
- Scappa, Fran. – le disse lui.
- Che cosa? Io non me ne vado senza di te! – protestò la ragazza, sull’orlo di una nuova crisi di pianto.
- Devi! Quelli cercano te, tu sei la loro preda il loro scopo. Tu sei speciale!-
La ragazza lo guardò impaurita. Cosa stava dicendo Luca? Stava delirando forse?
- Luca, io…. – tentò di dire.
- Vattene, Francesca, immediatamente. – lo sguardo del fratello non ammetteva repliche.
La ragazza fece come gli fu richiesto, terrorizzata. Fuggì, corse via, lontano mentre in lontananza si udivano le urla dei soldati e l’abbaiare dei cani. Si fermò solo a notte inoltrata, quando le gambe cedettero e il fiato finì. Si accasciò a terra, esausta e precipitò in un sonno profondo.
 
Gli alberi scorrevano fuori dal finestrino velocemente, mentre la carrozza correva per le strade acciottolate della campagna.
Già dall’esterno si poteva vedere, grazie agli intarsi complicati (che facevano la loro comparsa sotto forma di spirali e ghirigori) e ai veli di seta verde e oro che facevano da tenda alla piccola finestrella, che il veicolo apparteneva a una famiglia nobile e ricca.
Si poteva confermare questa teoria entrando all’interno dell’abitacolo, dove su sedili di velluto rosso sedeva la celebre Ludmilla Ferro, giovane rampolla della grande famiglia Ferro, il cui patriarca aveva fondato una delle più grandi industrie esistenti a quel tempo.
La ragazza guardava il paesaggio con aria annoiata e di tanto in tanto lanciava qualche occhiata al giovane cocchiere che si stringeva per il freddo nella sua casacca blu, oppure si lisciava il bel vestito rosso che ben si intonava ai suoi capelli color del grano.
Si stava dirigendo verso Buenos Aires, la nuova e moderna città dove suo padre si era trasferito a causa degli affari fino a qualche giorno prima, quando era morto.
Una disgrazia, secondo molti, un sollievo per lei; non aveva mai avuto rapporti con il padre, non le importava se era deceduto, non aveva pianto una lacrima quando glielo avevano detto.
L’unica cosa a cui pensava erano i milioni che aveva ereditato, quelle montagne di soldi che tanto aveva sperato di ricevere nella sua vita e che ora erano sue. Certo, c’era l’intera industria Ferro da dirigere, ma avrebbe saputo gestirla perfettamente: era una donna forte e furba, nessuno l’avrebbe potuta sottomettere alla propria volontà. Inoltre stava andando a Buenos Aires, definita la città delle meraviglie, straripante di gente importante proveniente dall’Europa, dove ogni sera c’era una festa dove conversare e magari poteva incontrare qualche bel giovane….
Sorrise al pensiero del futuro radioso che la aspettava, dischiudendo le labbra rosse e carnose e mostrando i denti bianchi e perfetti.
Ad un tratto, un tonfo la risvegliò dai suoi pensieri, il resto accadde tutto molto velocemente: vide il corpo del cocchiere coperto di sangue e con la gola mozzata, gli uomini in nero che cercavano di entrare, i cavalli imbizzarriti che partirono al galoppo, spaventati dall’invasione.
Poi lo strapiombo senza fine, i cavalli troppo presi dalla corsa per fermarsi, il vuoto sotto la carrozza e l’urlo disumano che la ragazza lanciò.
Infine, il nulla.
 
- Muoviti, moccioso! – una pedata al fianco, un dolore lancinante allo sterno. Quello stronzo non aveva ancora capito che aveva un problema alle ossa, nonostante lo conoscesse da ben dieci anni.
Ma se hai diciassette anni, se sei magro anche se alto, se sei sfinito e soprattutto se vivi all’orfanotrofio Monroe non puoi metterti contro il controllore Gomez.
Federico si rialzò da terra e continuò a camminare; quella doveva essere la gita annuale degli alunni del Monroe, ma chi, come lui, è in quel posto da quindici anni aveva già capito di cosa si trattava: marce forzate per chilometri e un piatto di minestra e un bicchiere d’acqua (se ti comportavi bene anche metà di una pagnotta) che dovevano bastare per tutto il giorno.
Tutto questo perché l’orfanotrofio aveva dei problemi con il Comune per colpa dell’amministrazione troppo dura dei ragazzi (ma non mi dire) e allora la direttrice si era inventata la storia della gita e da lì era iniziato tutto.
- Cinque minuti di pausa! – urlò Gomez e immediatamente tutti si sedettero in ordine sparso, da soli o a gruppetti, cercando di riposarsi.
Federico guardò la folla. Dove cavolo era finita Nata? Si aggirò tra i ragazzi fino a quando non individuò i ricci neri della sua amica. La ragazza stava parlando con una sua coetanea, più precisamente con Ursula, la ragazza più bella dell’orfanotrofio e che attirava uomini a sé più del miele con le api.
Tutti le andavano dietro, e Federico non faceva eccezione; ecco perché rimase come a guardarla come un babbeo fino a quando non sentì un violento colpo alla nuca che lo fece voltare bruscamente. Era stata Nata.
- La stavi ancora fissando! – lo sgridò la ragazza.
- Si, e allora? Quella ragazza è stupenda! – replicò lui.
- Si, si, se lo dici tu… Ohi, guarda chi arriva! – e con il dito indicò un punto non molto lontano da loro, e Fede vide un gruppetto di ragazzi avvicinarsi.
- No, questa non ci voleva! – sussurrò tra i denti.
- Cosa non ci voleva Pasquarelli? Cosa c’è hai paura di noi? – a parlare era stato un ragazzo sulla diciottina, alto e magro, a differenza dei suoi amici, bassi e molto grassi, almeno per gli standard dell’orfanotrofio.
- No, Damien, non ho paura, ma non voglio fare a botte con te oggi. Andiamocene Nata. – detto questo, si voltò e si avviò con Nata a fare una passeggiata. Riuscì a trattenersi dal tornare indietro e riempire di botte quelle teste di cazzo, nonostante le risate sguaiate e gli insulti dei tre ragazzi. Quel giorno non se lo poteva permettere, no proprio no.
- Bravo, sei riuscito a non insultarlo o a non attaccar briga con lui. Finalmente hai capito che la violenza non porti a nulla! – esultò Nata.
- Molte grazie Gandhi, ma…. – non riuscì a terminare la frase che uno scossone scosse la terra.
Poi, all’improvviso, un crepaccio si aprì sotto i piedi dei due ragazzi, che con un grido precipitarono nella fossa.
 
- Grazie per avermi accompagnato, Diego. – erano davanti alla scuola, ormai, e stavano per entrare.
- Di niente principessa, lo sai che per la mia migliore amica ci sono sempre. – Violetta sorrise, compiaciuta e subito ricambiata.
Lo squillo del telefono del ragazzo distolse i loro sguardi. Diego prese il cellulare e alla vista del numero impallidì: non poteva essere, di già!
Con una scusa si allontanò da Violetta e si rifugiò nel retro della scuola, poi aprì la chiamata e una voce maschile disse: - Basta fare lo sdolcinato, Diego,agisci! – poi l’uomo chiuse la chiamata.
Era giunto il momento, non c’era più tempo.
Raggiunse la ragazza, la quale lo stava aspettando all’ingresso.
- Ok, entriamo – lo esortò impaziente lei.
- Aspetta, prima ti devo dire una cosa. – un ghigno comparve sulla faccia di Diego, trasformandola. Oh si, finalmente, pensò. Si avvicinò piano a Violetta, la quale non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. Sentì il fiato caldo del ragazzo sul collo e le sue parole: - Sogni d’oro, principessa. – sentì un forte dolore alla nuca, prima dell’oblio.
 
Angolo dell’autrice: Hola ragazzi, come va? Finalmente pubblico un capitolo, anche se penso che voi starete piangendo adesso proprio per questo motivo.
Vi devo dare un piccolo annuncio: ho fatto la scemenza di pubblicare due storie contemporaneamente, così devo scegliere di scriverne solo una, e io ho scelto questa e appena l’avrò finita continuerò l’altra (se non l’avete ancora letta fatelo per favore, s’intitola: “L’amore è imprevedibile, ti coglie di sorpresa” grazie per la collaborazione).
Questa, come avete capito, è una storia fantasy (io adoro questo genere!!!!) quindi non so come verrà, ma ci voglio provate.
Questo capitolo non so come mi è venuto, scusate la fretta ma volevo finirlo, e scusate anche i cambiamenti d’umore repentini dei personaggi, di sicuro gli altri capitoli saranno migliori. E, come sempre, vi chiedo di dirmi cosa ne pensate. Accetto critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501
 
 
 
   
 
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