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Autore: pandaivols    30/10/2014    3 recensioni
▪ DAL PROLOGO:« Signor Hidden, vuole invece rivelare ai telespettatori cosa dovranno aspettarsi i nuovi ventiquattro tributi di quest'anno dall'Arena? » [...]
« Ti dirò la verità, Flickerman: penso proprio
nulla. » Il volto del conduttore era la sorpresa e la confusione fatta persona, così come tutte le altre facce che componevano la platea di quella sala.
Inaspettatamente, dopo essersi goduto la reazione che aveva suscitato, Frank Hidden continuò: « Perché potrebbero aspettarsi veramente
di tutto. »
Un coro di espressioni sorprese - e desiderose di vedere quei secondi Hunger Games in azione - si sparse per tutto il pubblico.
[...]
Il presentatore si alzò, spalancando le braccia ed annunciando a gran voce: « Signore e signori, che i secondi Hunger Games abbiano inizio! »


Ecco a voi, intrepidi capitolini, la seconda edizione dei Giochi della Fame. Chi saranno i ventiquattro tributi pronti ad uccidersi, vivere o morire per la vittoria? Sta a voi deciderlo; e tenete gli occhi bene aperti, avventurosi lettori, perché il pericolo, il sangue e la morte potrebbero essere proprio dietro l'angolo.
Genere: Azione, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Altri tributi, Nuovi Tributi, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Lime, Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Il sangue del vicino è sempre più rosso.'
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Il sangue del vicino è sempre
più rosso.

 

 







 

Kids are victims in this story


.




 
Let this train wreck burn more slowly,
kids are victims in this story.
Drown our youth with useless warnings,
teenage rules, they're fucked and boring.

 [ The Anthem Part Two - blink-182 ]


 
Atto I – Ferro e fuoco.
Elle capì immediatamente che sarebbe dovuto restare lì dentro, in quella piccola stanza spoglia e quadrata, fino a quando il conto alla rovescia proiettato sulla porta non si fosse azzerato. Si chiedeva cosa avessero in serbo per loro gli strateghi e ammirava come avessero raggiunto il loro scopo di confondere i tributi, sebbene non la reputasse un’azione onorevole. Spregevole, certo, eppure ingegnosa.
Si domandò se però quelli avessero scoperto che in passato aveva aiutato il Distretto 13 a penetrare nei sistemi computerizzati di Capito City, perché era praticamente seminudo, aveva solo un paio di mutande a coprirgli i genitali e dei calzari di cuoio, per il resto era completamente scoperto, se non per il lungo e pesante mantello rosso che gli copriva le gracili spalle e per l’elmo dorato col pennacchio che nascondeva il suo viso. Ma in fondo forse non era più vergognoso che affrontare una sfilata vestito da donna.
Mentre i numeri continuavano a diminuire, all’improvviso si sentì il tuono di un’esplosione e L s’irrigidì. Era chiaro, chiunque avesse aperto la porta prima del tempo sarebbe esploso. Solo uno sciocco ci sarebbe cascato.
Il cuore di Jason, invece, perse un battito e per alcuni secondi non riuscì più a sentire nulla, si fermò anche dal combattere con la cotta di maglia che indossava per restare in allerta.
Che cosa stava succedendo fuori? Che stessero già combattendo mentre il suo unico avversario lì era il suo costume da cavaliere medievale?
Quando l’udito sembrò tornargli, cautamente aprì la porta con timore, ma nel preciso momento in cui la serratura scattò, Jason imparò che neanche il ferro della sua armatura poteva combattere contro il fuoco; e in vita avrebbe ritenuto quell’informazione a dir poco inutile.
 
Atto II – Cornucopia.
D'istinto si mise in posizione di combattimento appena si sentì riprendere conoscenza. Ma attorno a lui non vi era nessuno, se non quattro solide mura a rinchiuderlo e di fronte a lui una porta su cui venivano proiettati da chissà dove dei numeri. Con la coda dell’occhio si guardò attorno, sebbene la stanza fosse illuminata solamente dalla luce che producevano quei numeri, ma poi abbassò le braccia e tornò in una posizione dritta e rigida, non abbassando mai la guardia. Forse quella era la vera Arena, si diceva, e se era così, meglio non toccare nulla, neanche quelle pareti che sembravano essere di semplice e dura pietra.
Si concentrò invece su cosa indossava: gli abiti che gli avevano fatto indossare prima di entrare in quel tubo d’aria, tra l’altro altamente imbarazzanti, a parere suo. L’avevano costretto a indossare una calzamaglia scura decisamente troppo aderente, calzari bassi e morbidi ma scomodi, la camicia larga era coperta dallo stretto farsetto oro rifinito in rosso e con le spalle larghe, chiuso da troppe stringhe per contarle; le braghe erano più corte rispetto all’altezza del ginocchio e notò che con delle cinghie gli avevano allacciato una braghetta che gli parasse le parti intime. Avvampò e ringraziò il cielo che nessuno potesse vederlo in quel momento di completo imbarazzo. La slacciò con rabbia, scaraventandola a terra. Aveva resistito dallo strapparsi quei vestiti di dosso perché voleva aspettare almeno di scoprire perché lo avevano conciato così, ma quello era troppo.
Si tastò il colletto bianco della camicia che fuoriusciva e fu leggermente più sollevato nello scoprire che la collana azzurra di Katae era ancora attorno al suo collo, al sicuro.
Ma ora a quale versione dei fatti doveva credere? Quella in cui Katae era in fin di vita per colpa della sua compagna di Distretto o quella in cui lei e suo zio erano accanto a lui e gli sorridevano? Aveva paura di scoprire la verità, ma di una cosa era certo: Wednesday meritava solo di morire, era proprio come sua sorella.
Sentì un esplosione e s’irrigidì. Subito dopo una seconda. Che cosa stava succedendo lì fuori? Che stessero già combattendo? La sua impulsività l’avrebbe spinto ad aprire immediatamente quella porta per controllare, ma qualcosa gli suggerì di aspettare per non correre rischi.
E di fatti, quando il contatore si azzerò, la voce di Titus Bartimeus Bones lo circondò, annunciando: « Signore e signori, che i secondi Hunger Games abbiano inizio! »
Con un veloce scatto aprì la porta, soffermandosi giusto qualche istante a osservare cos’aveva di fronte: l’Arena non era come quella che aveva visto in tv l’anno precedente, non c’era nessuno spiazzo, nessun enorme corno d’oro pieno di provviste e armi; si ritrovava in una stanza circolare, senza finestre o vie d’uscita, vi erano solo porte identiche alla sua disposte per tutto il perimetro e l’unico oggetto dorato che somigliava a un corno era molto più piccolo di quello che pensava: si trovava attaccato al soffitto, esattamente al centro della stanza, e da esso fuoriusciva perpendicolarmente un fascio di luce giallastra fino al pavimento.
Fu solo qualche istante, perché il rumore delle porte che si aprivano quasi contemporaneamente lo attirò, ricordandogli che non doveva far altro che concentrarsi sui suoi avversari. Si voltò alla sua destra e si precipitò subito su una preda, preferiva non concentrarsi su chi fosse per paura che ciò avrebbe potuto bloccarlo nei movimenti, ma poi riconobbe che era la ragazza del Distretto 5 e si focalizzò solo su di lei e su nessun altro tributo, per impiegare al massimo le sue forze ed eliminarla. Cercò di sferrarle un pugno in pieno viso, per stordirla, ma la castana ebbe i riflessi pronti e bloccò il colpo alzando in alto la gamba. Jamie piegò l’altra gamba, dandosi una spinta e saltando in aria; con la gamba libera diede un calco nelle parti basse di Zhu, facendolo piegare, mentre lei afferrò bene con entrambe le mani il braccio teso del ragazzo, per appoggiarsi, e poi lo fece ruotare assieme al suo corpo, che in pochi secondi fu schiena a terra. Il tributo del Sei in quel momento rimpianse amaramente di aver buttato via la braghetta.
L’aveva vista al Centro d’Addestramento e ricordava come era brava nel corpo a corpo e ora stava sperimentando quell’abilità sulla sua pelle.
Il diciassettenne le afferrò una caviglia, facendola cadere a sua volta e poi, dandosi una spinta con le mani, si rimise subito in piedi, ruotando su se stesso e sferrando un calcio nella pancia della castana. Quella tossì dolorante, ma riuscì a rotolare via quando il pugno di Zhu toccò terra. Il moro urlò, imprecando, mordendosi poi la lingua per non mostrare la sua debolezza e cercando di reprimere il dolore che provava alla mano e sorvolando sul sangue che usciva dalle nocche rotte. Le strinse ancor di più, pervaso dalla rabbia.
Fece una capovolta, camminando sulle mani e usando le proprie gambe e i propri piedi per colpire la giovane, che indietreggiava a zigzag. Jamie continuava a evitare i colpi con scioltezza, ma non riuscì a prevedere il colpo basso di Zhu che la fece scivolare a terra. Con prontezza la castana gli fece lo sgambetto e, proprio mentre il moro stava per cadere sopra di lei, lo spintonò via con entrambe le mani.
Zhu fu investito dal fascio di luce al centro della stanza e poi cadde a terra, ma quando si rialzò non vide più quella sala circolare in cui si trovava prima, non c’era più né la ragazza del Cinque né gli altri. Ciò che vedeva era semplicemente… se stesso.
 
Atto III – Fascio di luce.
Gli occhi di Beryl erano aperti, ma quando iniziò a sbattere le palpebre capì che tutti i sensi erano ritornati al proprio posto, aveva provato la stessa sensazione quando si era risvegliata nell’anfiteatro, ma stavolta era in un altro luogo ancora, mai visto prima. Era una stanza quadrangolare, un metro quadrato scarso, e di fronte a lei vi era una porta su cui era proiettato un conto alla rovescia.
Si toccò istintivamente la testa, come per assicurarsi che fosse tutta intera. Nel tastare i suoi capelli però si rese conto che erano tirati e pieni di gel, fermi in una acconciatura simile a una sottospecie di chignon articolato, ma sentiva anche vari fermagli e… fiori, sì.
Ricordava chiaramente di essere… morta; lei ricordava il dolore. Ma com’era possibile che fosse stato solamente un sogno? E Mimi? Anche lei era viva?
Ricordava anche il conto alla rovescia nei primi Hunger Games e di come qualche ragazzo era morto proprio perché era sceso dalla pedana prima del tempo, ma lì non vi era alcuna pedana.
Mentre rifletteva, però, l’occhio le cadde sul proprio vestito: sembrava un’enorme tovaglia – o al limite un telo per asciugarsi – attorcigliata attorno al suo busto, era leggera e morbida, celeste, piena di motivi articolati e cosparsa di fiori di loto; le maniche erano così ampie che ci sarebbe potuta entrare persino un’altra se stessa; un’enorme fascia rossa era stata passata più volte attorno al suo corpo, stringendola così tanto che faceva fatica a respirare, ed era legata in un grande fiocco dietro la schiena; la veste ricadeva sulle sue gambe, ma seppur di morbida stoffa, la gonna le impediva i movimenti, stretta e lunga fino a coprirle i piedi, su cui indossava dei calzini e dei sandali scomodissimi.
Improvvisamente sentì un boato lontano, come il rumore di un’esplosione, e qualche istante dopo lo sentì forte e chiaro alla sua sinistra, facendola scattare in quella direzione. Il cuore le batteva a mille per lo spavento e non riusciva a non chiedersi cosa fosse stato.
La voce di Titus Bartimeus Bones la riportò alla realtà, suggerendole che ora poteva aprire la porta in tutta tranquillità. O almeno così sperava. Ma non successe nulla quando girò la maniglia, era una porta normale.
Contemporaneamente a lei si aprirono altre porte, riversando fuori i restanti tributi. Notò che due porte erano completamente distrutte, dentro non vi era nessuno, ma vi erano alcuni segni di bruciatura sulle pareti vicino le stanze vuote, una delle due era proprio quella accanto alla sua. Si chiedeva chi ci poteva essere stato. Le salì il groppo in gola al pensiero che forse quell’orrenda sorte era toccata proprio a Ocean.
Puntò i suoi occhi al centro della sala e non poté fare a meno di essere rapita dal fascio di luce perpendicolare che emanava il corno d’oro appeso al soffitto. Si ritrovò subito a pensare a cosa diavolo fosse. Evidentemente le stramberie non erano ancora cessate.
Eppure quel fascio di luce l’attirò, forse perché non aveva mai visto qualcosa di così… strano e allo stesso tempo affascinante; voleva vederlo da vicino. E così spiccò a correre, fra quelle figure che nel giro di pochi istanti si sarebbero voltate in cerca delle loro prime prede.
La porta di Ocean scattò immediatamente dopo la fine del countdown, consapevole di doversi difendere e probabilmente di dover attaccare. Sebbene quell’armatura particolare pesasse e la ritenesse ingombrante, un po’ fu sollevato dal fatto che almeno sarebbe stato più difficile ucciderlo con quella addosso.
La sua testa però era affollata da mille pensieri. Aveva abbandonato Beryl in quel cassonetto e ora chissà che fine aveva fatto, se era sopravvissuta o morta… come lui. Ma, in verità, la domanda che lo attanagliava riguardava il perché non fosse morto.
Il suo sguardo azzurro fu subito catturato dal fascio di luce che spuntava dal piccolo corno d’oro appeso sul soffitto, esattamente al centro della stanza circolare. Ma ebbe un tuffo al cuore quando, dietro di esso, vide la figura di Beryl, quasi irriconoscibile, con tutta quella cipria bianca sul volto. Quando però la vide correre verso la luce, le sue paure aumentarono. Corse verso di lei senza neanche pensarci due volte, cercando di essere il più veloce possibile; si buttò volontariamente per terra, scivolando, per poi rialzarsi prontamente e afferrare il polso della compagna.
Beryl si voltò, per un attimo spaventata, ma quando sotto quello strano elmo – che sembrava più un caschetto di ferro ornato con due lunghe e alte corna d’oro – riconobbe gli occhi azzurri di Ocean, si sollevò e sfoggiò un sorriso.
« Vieni! » lo intimò, strattonandolo, come se così facendo avrebbe salvato la vita di entrambi. E prima che potesse replicare, Ocean fu investito dall'abbagliante getto di luce.
 
Atto IV – Colpi involontari e assassini appena nati.
Brick era furioso, avrebbe voluto prendere a pugni qualsiasi cosa. E lo fece, in realtà. Si mise a tirare calci e pugni contro le mura di quella minuscola stanza, ma cessò quando capì di star facendo male più a sé che… beh, dovunque fosse.
Insomma, che razzo di scherzo era quello? Quasi preferiva quella strana realtà – o sogno, non aveva ancora le idee chiare – con quell’inquietante tizio senza faccia. Tutto tranne dover ritornare a indossare la tuta che l’avevano costretto a mettere prima di entrare in quel tubo. Era il vestito più ridicolo che avesse mai visto. Beh, forse dopo quello che volevano fargli indossare per la sfilata. Portava stretti pantaloni bianchi a vita così alta che quasi gli arrivavano a metà petto, con alti stivali neri da fantino, una specie di frac blu con rifiniture rosse che lo faceva somigliare all’incrocio fra un perfetto soldato e un capitolino con un pessimo gusto nel vestire – e a parere di Brick avevano tutti un pessimo gusto nel vestire – a una di quelle stupide feste che organizzavano a Capitol City. E in più quella... giacca, o come doveva chiamarla, aveva persino le spalline dorate coi fronzoli. E magari fosse finita lì. Oh, no, doveva avere pure una gigantesca e orrenda feluca in testa!
Voleva uscire, andare lì fuori e spaccare tutto per la rabbia. Sì, avrebbe fatto proprio così.
I sessanta secondi terminarono, Brick strinse i pugni, digrignò i denti, spalancò la porta e uscì, voltò a destra e cadde a terra. Haylee, uscendo dalla sua stanza, non aveva minimamente notato il tributo dell’Otto e l’aveva centrato in pieno in faccia con la propria porta, di fatti quello era caduto a terra tramortito, gemendo di dolore e portandosi le mani alla testa.
Haylee, invece, si stava stupendo di come fosse riuscita a uscire dalla porta con quell’ingombrante vestito. I suoi capelli erano stati arricciati e tenuti in alto con non si sa quale prodotto – effettivamente molto resistente – che faceva rimanere i suoi capelli in alto, sfidando le leggi della gravità, come se fossero un casco compatto, ornati da un fermaglio di perle che faceva ricadere un piccolo e leggero velo nero che arrivava fino all’altezza del collo, dove vi era un enorme e pomposo collare bianco elisabettiano che le faceva vedere a fatica. Le spalline erano grandi e a palloncino, così come le maniche, mentre al contrario il corpetto era così stretto da farla respirare a fatica; e la gonna… era bianca con ghirigori dorati, così come tutto il vestito, ma in vita vi era un ferro che la manteneva rigida e decisamente troppo ingombrante. L’unica cosa comoda erano le ballerine piene di merletti ai piedi.
Abbassò lo sguardo a terra e, quando si rese conto di Brick steso accanto a lei, lanciò un urlo, spaventata dal fatto che avrebbe potuto attaccarla, e si mise a correre in una direzione a caso della stanza circolare, agitando le braccia.
Peccato per lei che quella reazione non fece altro che prendere alla sprovvista il giovane Benvolio, il quale, vedendo la ragazza urlare e correre non appositamente verso di lui, si precipitò a prendere una grossa scheggia di legno superstite della porta distrutta di Kenia e conficcargliela prontamente nel petto.
 
Atto V – Puttana di nome o di fatto.
Non l’allettava molto il fatto di essere vestita solo con qualche misero straccio di pelle di animale addosso, ma trovò il lato positivo nel constatare che meno vestita sarebbe stata e più sponsor avrebbe ricevuto. In realtà aveva domande ben più importanti di una simile preoccupazione, ma sapeva che il tempo non avrebbe aspettato che i suoi dubbi si chiarissero.
Così, Mason o non Mason, uscita di lì andò subito all’attacco, consapevole che se il compagno fosse stato vivo, avrebbe mantenuto il loro patto di alleanza, così come avevano stabilito negli appartamenti e come voleva Jewel.
Naomi si rese conto che non c'era traccia di armi, né della Cornucopia di cui la sua mentore aveva tanto parlato. Piuttosto, l'unica cosa simile al suddetto corno dorato era appesa al soffitto e l'unica... arma... che produceva era una lama di luce giallastra. Per un attimo si domandò se l'Arena si limitasse davvero a quell'unica stanza circolare in cui era capitata, perché non c'erano altre porte o vie di fuga visibili. Gli strateghi volevano semplicemente che i tributi quell'anno si uccidessero l'un l'altro finché non ne sarebbe rimasto soltanto uno? E con quali mezzi?
Naomi strinse i pugni e pensò che avrebbe dovuto dare spettacolo in ogni caso pur di ottenere sponsor e pur di salvarsi la pelle, per cui sarebbe stata capace di uccidere anche a forza di morsi e unghiate. Decise che avrebbe agito lo stesso e individuò subito qualcuno da ammazzare.
Fu felice nel constatare che la sua vittima era la ragazza del Distretto 12, quella che si diceva facesse la puttana. Lo trovò molto ironico da parte del destino.
Inaspettatamente per l’altra, Naomi le sferrò d'improvviso un pugno in pieno volto, facendola barcollare. Nymeria, tuttavia, le afferrò prontamente i capelli scuri, tirandoglieli, mentre la mora dell’Uno emetteva un grido contrariato. Dimenò le mani, trovando la pelle di Nymeria e lacerandola con le unghie, graffiandola in modo che sicuramente le sarebbero rimaste le cicatrici. Viso e braccia erano ormai scorticate, fino a che Nymeria si decise a trascinare l’altra ancora per i capelli e, con una spinta, la lasciò cadere nel fascio di luce, che la inghiottì.
Nymeria non si era resa conto neanche di cosa fosse esattamente successo, non aveva avuto il tempo di pensare una volta uscita dalla stanza, ma solamente di agire, e ora si rendeva conto che aveva spedito l’avversaria… Non lo sapeva, non sapeva neanche se quella strana Cornucopia portasse da qualche parte o uccidesse solamente. Forse quel fascio di luce disintegrava la gente, perché Naomi era... sparita nel nulla. Non c'erano altre spiegazioni, del resto.
« Naomi! » gridò una voce roca e possente alle sue spalle.
Neanche ebbe un istante per girarsi verso la persona da cui proveniva quel suono arrabbiato e spaventato al contempo, che due forti mani si avvolsero prepotentemente attorno alla sua gola, stringendosi su di essa e facendola accasciare a terra. L’intento di Mason, preso dalla vendetta, era quello di strozzarla, ma le sue braccia e i suoi miseri tentativi di graffiarlo o colpirlo, sembravano totalmente inutili.
« Lasciala! » gridò qualcun altro, qualcuno che alle orecchie di Nymeria suonò estremamente familiare. Jeremy si era avventato su Mason, cercando di afferrargli il collo a sua volta, ma quello lo buttò a terra con un brusco movimento della mano, tornando alla ragazza che sotto il suo peso continuava ad agitarsi come un pesce fuor d’acqua.
Jeremy si alzò, dolorante, guardandosi intorno in cerca di qualsiasi cosa per aiutare la compagna. Riluttante, si avvicinò al corpo di Haylee. Era morta? Forse non lo era ancora... Lo seppe per certo perché il petto le si alzava e abbassava, anche se raramente, ma, accecata dal dolore, non riusciva ad alzarsi.
Jeremy prese semplicemente il pezzo di legno dalle sue mani - se l'era tirato fuori dal costato per far diminuire il dolore, ma in realtà l'aveva soltanto peggiorato - a disagio, ma poi tornò comunque dalla compagna. Conficcò l'enorme scheggia nella schiena di Mason, che lasciò la presa sulla ragazza – la quale poté finalmente ricominciare a respirare normalmente – e si rotolò sul pavimento in preda al dolore. Jeremy gli si mise a cavalcioni e la punta di legno perforò il petto nudo del tributo del Distretto 1 così come in passato la bambina dell’Otto riempiva la sua bambola di aghi.
Nymeria si rialzò, ansante, guardando incredula il compagno; neanche Jeremy riuscì a credere di poter aver fatto una cosa simile, ma dopo qualche breve cenno del capo, prese la mano della compagna e si tuffò nel fascio di luce assieme ad essa, sperando di trovare in esso una via di fuga.
 
Atto VI – Una principessa da salvare.
Non era ripugnante il fatto di dover indossare la parrucca di un caschetto nero, solo che era più pesante di quello che immaginava e semplicemente il nero era un colore troppo scuro per lei, avrebbe tanto voluto indietro i suoi veri capelli. Vedeva altri avversari riversarsi nella mischia, uscendo dalle proprie stanze, e si soffermò ad analizzare la stanza. Era circolare e vi erano delle porte disposte su tutto il perimetro, tranne due che erano esplose, entrambe abbastanza lontane da lei. Ognuna delle porte però riportava un numero inciso sopra. Sembrava essere all’interno di un orologio, i numeri andavano da uno a dodici, ma le porte erano ventiquattro e Ty notò che ogni numero si ripeteva due volte. Le porte con lo stesso numero erano sempre disposte esattamente l’una opposta all’altra; notò anche che mancavano una porta del Cinque e una dell’Otto, ma non si soffermò a vedere quali tributi vi erano o no.
Individuò, come aveva intuito, la porta col numero Due esattamente dalla parte opposta alla sua e, senza soffermarsi a riflettere, spiccò una corsa per attraversare la baraonda di tributi che si stava creando.
Qualcuno le piombò addosso, ma – forse per l’adrenalina che le circolava in corpo – lo respinse indietro nella massa senza neanche vedere chi fosse.
Si chiedeva, però, come mai la porta col Due fosse ancora chiusa. Abbassò la maniglia, cercando di aprirla, ma quella sembrava bloccata. Bussò violentemente alla porta, gridando il nome del marito.
« Ty? Ty! » gridò l’altro di rimando. La porta che li separava faceva arrivare la voce ovattata sia all’uno che all’altro. Perry bussò di rimando. « Sono rimasto bloccato, non riesco ad aprire la porta! »
La diciottenne alzò gli occhi al cielo, pensando che una cosa del genere potesse capitare solo a lui. « Va bene, spostati » ordinò alla fine, esasperata.
Perry, una volta che si era ritrovato lì dentro, aveva provato ad aprire la porta, ma non ci era riuscito, deducendo che forse si era incastrata e la sua preoccupazione fu quella di rimanere lì dentro fino a che sarebbe morto di solitudine e di fame.
Si ritirò contro la parete non appena la moglie glielo ordinò e, dopo una serie di colpi, Ty riuscì a sfondare la porta a calci.
« Oh, cielo » mormorò la ragazza, inorridendo non appena vide il vestito di Perry. Anche lui indossava la parrucca col caschetto nero, coperta da un copricapo da faraone con una testa di serpente scolpita nell’oro, il panno che gli ricadeva sulle spalle era a righe nere e oro, indossava quel che sembrava una lunga gonna di lino, in vita una cintura sempre a righe e attorno al collo anche lui portava una grossa collana d’oro; in mano teneva un lungo scettro d’oro anch’esso scolpito con la faccia di un serpente. Se non fossero stati in pericolo di morte, di certo avrebbe riso e l’avrebbe preso in giro per il resto della sua vita.
Perry invece strabuzzò gli occhi verdi, affascinato dalla lunga veste di lino che accentuava le forme – seppur non molto sviluppate – di Clarity, ornata con bracciali e una massiccia collana d’oro. « Sei bellissima » farfugliò.
Ty non aspettò neanche un istante, lo prese in braccio come aveva fatto la sera prima dopo il matrimonio e pregò con tutto il cuore che qualcuno non si impossessasse di chissà quale arma e li facesse fuori in due secondi, mentre si affrettava a correre il più rapidamente possibile nella mischia.
« Ti pare il momento di farmi i complimenti? » sbottò quella, agitata.
Perry ritirò il collo nelle spalle, borbottando qualcosa come « Ma è la verità » o « Potrebbe essere l’ultimo » ma la giovane moglie non gli badò.
Inciampò su qualcosa, o meglio la mano di qualcuno l’aveva afferrata per la caviglia e aveva fatto cadere sia lei che suo marito, che si lasciò sfuggire lontano lo scettro. Si sentì trascinare indietro e cercò inutilmente di affondare le unghie nel pavimento e aggrapparsi a qualcosa. Perry, stordito, cercò di tirarsi su, ma appena notò la ragazza in difficoltà, si precipitò a tirarla verso di sé per le mani. Ty si sentiva come una fune tesa. Sentì le unghie dell’aggressore penetrarle nella carne della gamba e lacerarla; lanciò un grido, cercando di divincolarsi, poi, mentre Perry cercava di sottrarla alle grinfie del suo probabile assassino, lanciò uno sguardo per vedere chi fosse e riconobbe la ragazza del Distretto 3, di cui però non ricordava il nome. La bionda conficcò una delle sue forcine nella gamba della castana con violenza, come se fosse stato uno spillo; Ty gridò ancora e le assestò un bel calcio in viso, che le fece lasciare la presa e che, se non le avesse rotto il naso, sicuro le avrebbe lasciato un grosso livido evidente.
Perry la fece alzare immediatamente, attirandola a sé. Nate, però, ripartì immediatamente all’attacco. Rispetto a molti altri nella stanza era avvantaggiata dal fatto che il suo vestito non fosse ingombrante, era una semplice stoffa che le scendeva lunga fino a piedi, ai quali indossava dei sandali, e appuntata con una grossa spilla dorata sulla spalla, fresca e leggera, le permetteva dei fluidi movimenti; inoltre il suo staff le aveva arricciato i capelli e fatto un’acconciatura alla greca, così che non avesse i capelli d’impiccio.
La bionda afferrò i capelli di Ty per trattenerla, ma ciò che strinse fra le mani e che scivolò dal capo della castana, fu solo la parrucca nera ornata di gioielli. Strabuzzò gli occhi per qualche istante che le fu fatale, visto che Ty le diede un pugno sempre in pieno viso. Adirata, Nate l’agguantò le un braccio e le graffiò la faccia con le lunghe unghie affilate, facendola gemere.
« Lasciala! » gridò Perry, intervenendo, e scaraventando l’avversaria lontano da sua moglie con una spinta. La tributa del Distretto 3 perse l’equilibrio e cadde nel fascio di luce generato dalla Cornucopia, svanendo magicamente.
Perry sgranò gli occhi, con Ty ansimante al suo fianco. « Ho quasi picchiato una ragazza » farfugliò, stupefatto. La ragazza si ritrovò ancora una volta ad alzare gli occhi al cielo, visto che per poco non ci restavano secchi per colpa di quella. Ma a gelarle il sangue fu la frase che seguì: « Dovremmo attraversarlo anche noi. »
Voltò la testa di scatto, guardando il marito come se fosse uscito del tutto di senno. « Sei impazzito? Quel coso fa sparire la gente chissà dove! Magari la uccide! »
« Sempre meglio che venire uccisi comunque da probabili assassini che fino a ieri pensavi fossero pezzi di pane » alluse ai vari combattimenti che stavano avvenendo alle loro spalle.
Ty gettò un’occhiata indietro, dubbiosa. « E se c’è ancora quella psicopatica? » chiese, timorosa, vedendo però che già qualche altro tributo li aveva adocchiati e stava per venire verso di loro.
Perry le strinse saldamente una mano. « Ce la siamo cavata piuttosto bene prima. » E così, anche se Clarity Valentine non era convinta del tutto di quell'affermazione, i due saltarono assieme dentro quel fascio di luce e sparirono come gli altri prima di loro.
 
Atto VII – Nastri e flauti.
Rimase con la mano tesa verso la maniglia, ma non la aprì. Attese, incerta.
Il suo staff le aveva tagliato i capelli neri e ora erano corti poco sotto le orecchie, solo le due ciocche più avanti finivano con le punte verso l’alto, per il resto erano così impregnati di gel e lacca che sembrava l’avesse leccata una mucca, decorati con un nastro attorno alla testa che richiamava le paillettes del vestito e una lunga piuma che spuntava dall’accessorio. Per non parlare che indossava un corto vestito nero, le arrivava poco sopra il ginocchio, aveva delle spalline sottili e una profonda scollatura che cercava di coprire con una lunga collana di perle, tutto pieno di fronzoli e paillettes d’oro e argento; le stava come una scura tovaglia con quattro stecchetti come braccia e gambe, vista la sua totale assenza di curve. Per finire i tacchi non eccessivamente alti ai suoi piedi facevano rumore al minimo spostamento. Sarebbe stato facile farsi scoprire con quelle addosso, se ci fosse stato bisogno di mimetizzarsi. Per non parlare dei lunghi guanti e del boa di piume – e non come quello che aveva portato la tributa del Distretto 1 alle interviste – di un colore così acceso di rosa che le dava alla testa.
Go non voleva uccidere, aveva paura come era lecito, ma si attaccò al pensiero che forse, se fosse rimasta lì dentro, nessuno avrebbe notato la porta chiusa nella confusione, si sarebbero dimenticati di lei e, quando sarebbe potuta uscire, avrebbe escogitato un piano.
Purtroppo per lei la porta si spalancò ed entrò una ragazza poco più alta di lei. I capelli neri erano legati in una retina di perle, sulla pelle pallida spiccava una piccola catenina con una croce che riempiva il vuoto nella parte del collo. Il vestito era interamente color rosso sangue, con piccole rifiniture e motivi in oro; stretto al petto, non c’era nulla da accentuare, un nastro con un fiocco era legato proprio lì sotto, dove poi partiva alta la lunga gonna che toccava terra come uno strascico, dove sotto vi erano nascoste un paio di ballerine dal tessuto morbido; le spalline erano grandi e a palloncino, mentre poi le maniche erano strette e terminavano in un bordo pieno di merletti.
Go riconobbe che era la tributa del Distretto 6 solamente dal sadico sorriso che aveva in volto. Appena la vide le si gelò il sangue, consapevole di essere con le spalle al muro.
Wednesday si sfilò velocemente il nastro col fiocco sotto al petto, all’attaccatura della gonna, e si avventò contro la dodicenne, cercando di strozzarla. La buttò a terra e le montò sulla schiena, tenendo teso il nastro con cui avvolgeva stretta la gola dell’asiatica. Go cercò di afferrare il nastro con le mani, ma non riusciva ad allentarlo e presto sentì l’aria mancarle.
Furtiva, la minore sollevò uno dei guanti, dove sul braccio vi era nascosto il vecchio e piccolo flauto di sua nonna. Diede un colpo alla cieca dietro di sé e sentì di aver colpito qualcosa di duro, probabilmente la testa dell’avversaria. Si voltò rapidamente, saltandole addosso e cercando di soffocarla col boa.
Wed si dimenava furiosamente sotto il peso dell’altra, agitando le braccia per scaraventarla di lato, ma quella non demordeva. Quando però riuscì a conficcarle le dita negli occhi, la ragazza dell’Undici emise un gemito e allentò la presa, portandosi le mani sul viso. Wed ne approfittò e, strappandole via il flauto, lo utilizzò per colpirla in testa e tramortirla, così tante volte fino a che il capo di Go non si deformò.
 
Atto VIII – Intelligenza e istinto.
Elle cominciò a capire dopo pochi secondi che qualcosa non andava. In realtà l'aveva già intuito da tempo – più precisamente quando gli avevano fatto ingerire quella pillola bianca con lo stemma di Capitol City – ma ora che quei tributi erano finiti in quel curioso fascio di luce dorata e dal momento che non sembravano esserci altre uscite da quella stanza circolare... le carte in tavola cambiavano.
Quel fascio doveva essere l'uscita. Era assurdo, ma non c'era neanche l'ombra di altre spiegazioni razionali. Era l'unica possibilità.
Elle decise che per salvarsi la vita avrebbe dovuto gettarvisi come avevano già fatto altri tributi.
Scattò in direzione della luce con velocità, nonostante il suo costume fosse scomodissimo, sperando di scansare i tributi che gli si paravano davanti, ma prima che potesse anche solo realmente avvicinarsi un ragazzo gli si fiondò addosso.
« Non la toccare! » gridò questo, facendolo cadere sul pavimento e cadendo insieme a lui. « Non ti azzardare neanche! »   
Elle sbatté leggermente la testa a terra e tutto divenne confuso per qualche secondo. Di chi stava parlando? Della sua ragazza?
Non appena riconobbe nel proprio assalitore il ragazzo del Sette capì che, sì, probabilmente stava cercando di proteggere quella che tutti credevano fosse la sua ragazza, poco distante da loro, anche lei vicina al fascio di luce e in posizione d'attacco.
Cercò di riprendersi il più velocemente possibile, contrattaccando non appena lo stordimento della botta cessò. Bloccò i polsi di William – ricordava il suo nome, aveva sempre avuto una memoria eccezionale – nonostante la momentanea debolezza e, dopo aver caricato una ginocchiata nel suo addome, invertì le posizioni, sovrastandolo con il proprio corpo.
Lottarono lì sul pavimento per qualche minuto, quasi disperatamente, con la sola forza di calci e pugni. Dopo poco Elle decise in un angolo della sua mente che quel combattimento era assolutamente inutile: nessuno dei due sarebbe morto così, perché erano entrambi molto abili nel corpo a corpo, ma non avevano affatto intenzione di uccidere, lo si leggeva nel loro sguardo.
Il ragazzo del Distretto 3 si alzò e si allontanò di qualche passo da Will, pur mantenendo i pugni in alto in posizione di difesa e il proprio sguardo puntato su di lui per controllare che non azzardasse qualche mossa pericolosa. Poi fece un mezzo sorriso ermetico, alzando appena gli angoli delle labbra. « Ci vediamo in Arena » disse Elle, facendo improvvisamente dietrofront e lanciandosi in un balzo verso il fascio di luce dorata.
Will rimase totalmente sopraffatto da quella sequenza di scene, così tanto che quasi non si accorse del corpo del suo avversario che spariva di botto nel fascio, come per magia.
All'improvviso qualcosa scattò nella sua testa: quel tipo si era gettato volontariamente... e lui era il genio del gruppo, quello del Tre. Non poteva essere stato tanto stupido da suicidarsi, quel gesto sconsiderato doveva per forza avere un'altra spiegazione.
Forse quella luce aveva la capacità di smaterializzare la gente... o qualcosa del genere. In quel momento non aveva neanche il tempo di ragionare sensatamente.
Si guardò attorno per un breve istante e vide altre minacce, altre persone che volevano ucciderlo. E poi, a qualche metro di distanza... Jamie. Doveva proteggerla, ne andava della propria vita. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvarla, ne era più che certo.
Jamie lo stava guardando di rimando con occhi colmi di paura, come se si fidasse di lui ma avesse paura di ammetterlo.
« Vieni! » le gridò Will all'improvviso, correndo verso di lei, afferrandole un polso e gettandosi insieme nella misteriosa luce dorata.


Atto IX – Homo homini lupus.
Che cosa aveva appena fatto?
Benvolio guardò la ragazza che aveva trafitto con uno spuntone di porta distrutta barcollare e poi cadere con un tonfo, tra tulle, stoffa e velluto. La fissò per qualche istante, incapace di muovere un muscolo. Non avrebbe mai pensato che uccidere gli facesse quell'effetto: l'aveva bloccato, annientato. Era questo quello che a Capitol volevano? Era questo che faceva tanto divertire i capitolini, una vendetta ingiusta e immotivata?
Benvolio ricordava ancora la rivolta, i campi di grano bruciati, il mulino distrutto, il sangue in piazza e le sparatorie all'ordine del giorno. Erano morte già abbastanza persone, ribelli compresi, ma la capitale non aveva ancora soddisfatto la propria sete di sangue... e Adamas Rigel nemmeno.
In quella stanza circolare ormai regnava il caos e Benvolio fu costretto a darsi una mossa per non essere ucciso a sua volta. Incredibile, nonostante tutto, come il suo istinto lo stesse salvando da una situazione paradossale, in cui tutti cercavano di uccidere tutti pur di salvarsi la pelle. Forse era proprio quello stesso istinto che l'aveva spinto ad uccidere la ragazza del Sette. Una volta qualcuno diceva "homo homini lupus", l'uomo è un lupo per l'uomo. Non poteva esistere detto più appropriato, in quel momento. La loro parte animale stava vincendo su quella razionale, per dare spazio alla sopravvivenza, nuda e cruda.
O la morte o la vittoria, non esistevano vie di mezzo.
Benvolio lasciò Haylee sanguinante e moribonda sul pavimento, pronto a trovare una nuova vittima o qualcosa con cui difendersi. Si stupiva di se stesso: certo, al Nove gli era capitato di partecipare a qualche rissa, ma non avrebbe mai immaginato di poter pensare in questi termini. E si sentiva male, per questo, ma non aveva scelta. Doveva tornare a casa.
Nella confusione generale vide corpi e volti che non era in grado di riconoscere lucidamente; qualcuno sparì nel fascio di luce verticale in mezzo alla stanza, senza lasciare traccia.
Una vocina nella sua testa gli suggerì di buttarsi a sua volta – sembrava la soluzione più allettante, in quel momento di panico –, ma Benvolio desiderava soltanto attaccare, e attaccare ancora.
Uccidere gli aveva donato quella sensazione che, pur non ammettendolo, ogni essere umano vorrebbe provare almeno una volta nella vita: il potere. Avere il potere di disporre della vita di altre persone aveva scioccato, disturbato e allettato al contempo Benvolio. Una contraddizione calzante, se paragonata al tumulto che stava abitando il suo cervello.
In quell'istante qualcuno gli andò a sbattere contro malauguratamente e Benvolio ringraziò che il suo frac nero ottocentesco – ancora non era riuscito a capire il perché di quella scelta degli stilisti – avesse le spalline imbottite e che non gli fosse caduto il cilindro da testa.
Senza neanche pensarci o accertarsi di chi fosse, diede uno spintone molto più forte alla persona che gli era capitata a tiro, facendola cadere a terra con un gemito.
La ragazza si ritrasse con un verso di paura e dolore, strisciando di qualche centimetro sulle assi fredde con gli occhi spalancati sul proprio assalitore. « A-aspetta... » balbettò lei, in panico.
Quella voce lo restituì finalmente alla realtà, facendolo impallidire per ciò che stava per fare.
Phoebe. Stava per uccidere Phoebe. Melanie o meno, era certo che nessuna delle due gliel'avrebbe mai perdonato.
« Scusa » mormorò, prendendola per una mano e aiutandola ad alzarsi. « Non mi ero reso conto che... » scosse la testa, interrompendosi. « Vieni, dobbiamo andarcene! »
« E come? » chiese Phoebe. « Non ci sono vie d'uscita, a parte... »
Benvolio le indicò il fascio di luce con un cenno evidente del capo e così entrambi, dopo un leggero tentennamento della ragazza, vi si gettarono con una breve rincorsa come se ne valesse della loro vita.
E in effetti era così.   
 
Atto X – Ombre sul muro.
Detestava ammetterlo, ma era terrorizzata. Non aveva mai sentito così tanta paura scorrere nel proprio corpo, una paura che le abitava nel sangue ma che non la paralizzava. La rendeva più lucida, le permetteva di agire per puro istinto di sopravvivenza.
E, d'altronde, Lila aveva dovuto sopravvivere per la maggior parte della propria vita, da quando ne aveva memoria; questo Bagno di Sangue – con le dovute proporzioni – non era poi così diverso dalla realtà che conosceva.
I giorni della rivolta erano ancora vividi nella sua testa e non si sarebbero spenti tanto facilmente, per cui l'avrebbero aiutata a non rimanere uccisa in quella carneficina.
La prima cosa che aveva fatto, quando era uscita dalla propria porta, era stata schiacciarsi contro il muro immediatamente vicino. Complici gli abiti da poveraccia che le avevano fatto indossare, neanche fosse una spazzacamini, non era stata ancora notata da nessuno. Quegli stracci erano brutti a vedersi, ma per sua fortuna estremamente comodi e utili – e non poi tanto lontani all'idea di abiti a cui era abituata lei – rispetto ad altri costumi che aveva visto in giro.
Si era domandata con velata curiosità, e forse preoccupazione, perché gli strateghi avessero deciso di spedirli in arena con abiti di epoche storiche tutte diverse. Non che avesse avuto il tempo di rendersene conto appieno, ma aveva fatto caso che ogni coppia di tributi per ogni distretto aveva un tema comune: individuò Ryder da lontano, ma senza osare avvicinarsi, con gli abiti di un povero contadino, con tanto di basco e piedi scalzi.
I suoi occhietti rapidi vagarono per qualche minuto sulla scena che si andò a generare: disordine totale, tributi trafitti, tributi che si gettavano nel fascio di luce al centro della sala. Il tempo sembrava trascorrere quasi a rallentatore e Lila riuscì a vederne ogni fotogramma, come uno spettatore esterno.
Fa' che non facciano caso a te, si diceva, strisciando silenziosa contro la parete, come un'ombra sul muro.
Per qualche istante si concentrò solo sulla luce che cadeva verticalmente dalla piccola Cornucopia dorata posta sul soffitto – ma non era gigante e piena di oggetti, l'anno scorso? –, cercando di capire che cosa fare. Non c'erano armi, a parte gli spuntoni delle due porte esplose, non c'erano vie di fuga e pian piano tutti i tributi stavano scomparendo nel fascio di luce.
Quando vide anche L, il ragazzo del Tre, gettarsi a sua volta dentro di esso e dissolversi come fumo, Lila cominciò a considerare seriamente di imitarlo: era lui il più intelligente, dopotutto, forse aveva capito il meccanismo dell'arena e seguirlo poteva essere un buon punto di partenza.
Quasi in cenno d'assenso ai suoi pensieri, qualcosa squittì nell'unica bisaccia – all'inizio vuota – di cuoio che le avevano dato. La testa di un piccolo topolino bruno di campagna spuntò dalla tasca anteriore e Lila fu costretta a ricacciarlo dentro.
Ken, non dobbiamo farci scoprire!, pensò, ma naturalmente il suo topolino portafortuna non poteva sentirla pensare. Ken, per fortuna – e qui Lila pensò con velata ironia che al tributo dell'8 forse avrebbe fatto piacere sapere che c'era qualcun altro con il suo stesso soprannome – rimase nella borsa e non squittì più, come se avesse percepito la paura e l'adrenalina dell'amica.
Fu sul punto di gettarsi nella mischia per attraversare il fascio di luce, ma un movimento praticamente accanto a lei la distolse dall'intento: proprio lì, schiacciato al muro esattamente come lei, se ne stava il tributo dell'Undici, vestito con uno smocking color panna dotato di panciotto beije, cravatta dorata e gemelli sulle maniche. Il fazzoletto che era prima infilato nel taschino sul petto ora gli asciugava la fronte imperlata di sudore freddo.
« Credi che non ci noteranno, così? » chiese il ragazzo, a dir poco ingenuamente.
Lila lo guardò stupita. Come aveva fatto a non accorgersi di lui? Da quanto tempo cercava di passare inosservato – con ottimi risultati – come lei? Rimase in silenzio, fissandolo senza sapere cosa dire o fare. Logan – o Jeyl, come si faceva chiamare – tuttavia, non aveva l'aria di qualcuno intenzionato ad ucciderla.
Lila gli fece un segno leggero verso la Cornucopia, poi scattò verso il fascio di luce, immergendosi e scomparendo dentro di essa.
Jeyl rimase solo qualche secondo a fissare il punto in cui Lila si era dissolta, prima di seguirla.
 
Atto XI – Gli ultimi saranno i primi.
Il caos si era quasi spento del tutto. La maggior parte dei tributi – tra quelli ancora in vita – si era lanciata nel fascio di luce con la speranza che fosse una via di fuga da quell'assurda stanza circolare, ma due persone stavano ancora combattendo all'ultimo sangue. Si trattava dei tributi dell'Otto e del Dieci, che si erano scagliati contro l'uno contro l'altro per mancanza di altri avversari.
La lotta durava ormai da molti minuti e Brick sentiva di essere più stremato del dovuto: il labbro inferiore era spaccato e le costole gli facevano male per i pugni disperati dell'avversario.
Tuttavia, anche Ryder non era messo meglio, visto che un ematoma violaceo si andava sempre più delineando sulla sua guancia sinistra.
Continuarono quell'assurdo e violento combattimento corpo a corpo per quelli che sembrarono secoli, ma alla fine entrambi caddero a terra privi di forze, con il respiro mozzato dalla fatica.
Ryder fu il primo a ragionare seriamente e, approfittando della distrazione momentanea di Brian, si rialzò a tentoni fino ad arrivare al fascio di luce: quella di buttarsi dentro di esso era l'unica e ultima soluzione.
Inutile aggiungere che anche l'altro tributo, convinto di essere l'ultimo rimasto, non vide altra scelta che gettarsi a sua volta, per non rimanere a fare compagnia ai cadaveri. Era proprio il caso di trovare un rifugio e sperare che gli sponsor gli mandassero qualche antidolorifico per i muscoli e le ossa affaticati dal combattimento.
Anche Brick, come molti altri prima di lui, scomparve misteriosamente nella luce della piccola Cornucopia dorata.
Una delle due porte con l’Undici inciso, però, scricchiolò aprendosi lentamente. Una ragazzina uscì dalla piccola stanza, il suo vestito era sporco di sangue, ma era difficile distinguerlo visto la tonalità di rosso dell'abito; alle sue spalle, il cadavere di una bambina col cranio sfondato. Ma Wednesday non si voltò indietro.
Osservò la stanza circolare con la Cornucopia, ma ora era completamente vuota. Se ne erano andati tutti, ma c'erano due cadaveri stesi a terra. Andò vicino ad uno di essi: era la ragazza rossa del Distretto 7, con il petto e le mani completamente insanguinati; poi si spostò verso il bestione, era quello dell'Uno, rivolto a pancia all’ingiù e con la schiena piena di pugnalate.
Sorrise quasi impercettibilmente, perché in realtà non le importava più di tanto di quei due corpi. Puntò verso la stanza dell’Otto, quella senza porta e con le pareti bruciacchiate vicino ad essa. Ovviamente era vuota, la porta era saltata in aria e i pezzi di legno – quelli non disintegrati – erano sparsi per terra. Però a Wednesday colpì una strana curiosità, notando qualcosa all’interno della stanza. Avanzò, senza paura, fino a raccogliere Betty da terra, stranamente intatta.
« E tu? » l’apostrofò la dodicenne. La osservò e in lei nacque pian piano un senso di nuova eccitazione. Kenia era letteralmente esplosa e quella bambola era rimasta immacolata. Non era una cosa normale. Ma questi interrogativi passarono in secondo piano quando Wednesday si rese conto che ora era in suo possesso, il segreto di Kenia che aveva scoperto da tempo ora era nelle sue mani e l’avrebbe potuto usare come più le pareva.
Improvvisamente si sentì osservata e fece scattare la testa fuori dalla porta, ma non c'era nessuno. Uscì da lì, fermandosi davanti alla Cornucopia e abbassando la testa alle due bambole – invece che una – che teneva fra le braccia.
« Sembra che abbiamo una nuova amica, Maria Antonietta » annunciò, chiedendosi se anche Betty fosse così soddisfacente da decapitare.
 
Atto XII – Riflesso.
Era come vedere la sua caduta, il suo fallimento, ma da un altro punto di vista. Si voltò attorno, ma era completamente circondato da centinaia di sue immagini riflesse: davanti, dietro, destra, sinistra, in alto e persino sul suo pavimento. Dovunque vi era il suo volto sfregiato, i suoi ridicoli vestiti, non riusciva a vedere né finestre, né porte, né niente, solamente specchi.
Quello doveva essere un incubo, pensò, il suo peggior incubo.
« E’ uno scherzo? » gridò all’aria, sperando che gli strateghi lo sentissero, benché sapeva che nessuno gli avrebbe risposto.
Strinse i pugni, più furioso che mai, e si strappò il farsetto di dosso, rimanendo impigliato per poco in tutti quei lacci inutili e fastidiosi. Si limitò a tenersi la camicia, sebbene volesse sbarazzarsi dell’intero ridicolo costume.
Prese a correre, cercando di arrivare a una porta e l’agitazione crebbe in lui quando vide tutte quelle immagini riflesse fare esattamente la stessa cosa. Improvvisamente, però, andò a sbattere contro uno di quegli specchi, non prestando attenzione a dove stava andando. Si massaggiò il naso, in preda a un dolore lancinante e quando osservò la propria mano la ritrovò insanguinata. Si tastò ancora il naso e si guardò allo specchio: stava proprio sanguinando, probabilmente si era rotto il naso perché il liquido rosso sgorgava come un fiume in piena, e aveva anche la fronte tutta rossa per l’impatto con lo specchio, su cui vi era impresso il suo sangue.
Non poté fare a meno di rivolgere il proprio sguardo all’ustione che suo padre gli aveva provocato anni fa, marchiandolo a vita e rovinandogli metà viso.
Ringhiò a se stesso nello specchio e lo frantumò con un pugno deciso, preso dalla rabbia. Quello si distrusse in mille pezzi, ma Zhu strinse la propria mano che ora gli provocava delle fitte sia per il pugno sulla pietra di prima che per l’impatto di ora.
No, non poteva permettersi di apparire debole. Cercò di controllare le proprie emozioni, ricordandosi che lo stavano osservando in tutta Panem, quasi sicuramente anche suo padre e sua sorella.
Prese a correre nuovamente, tastando gli specchi con le mani e segnandoli col sangue per capire in quale percorso fosse già passato e in quale no. Ma più avanzava, più voltava gli angoli di specchi e più gli sembrava di essere in un enorme e infernale labirinto in cui la sua paura era proprio se stesso.
Fino a che gli sembrò che tutti gli specchi fossero pieni di sangue. Il suo sangue.
 
Atto XIII – Lisa.
Ad L sembrò di essere trascinato nell'aria alla velocità della luce, ma solo per pochi e brevissimi secondi. Quando riaprì gli occhi, infatti, si trovava ancora una volta in posizione eretta, ben saldo sulle proprie gambe, seppur con la sua solita postura gobba.
Sbatté piano le palpebre e si guardò intorno.
L'ambiente era colorato di una calda luce soffusa, prodotta dai candelabri appesi alle pareti e dal grande lampadario ugualmente fatto di candele sopra la propria testa. Sembrava di trovarsi nell'elegante atrio di una magione, e la sua tesi venne confermata da due rampe di scale che, alla sua destra e sinistra, si diramavano verso il piano superiore.
Di fronte a sé c'era un grande camino spento, sul quale erano poggiati piccoli cimeli apparentemente preziosi. Sopra di essi, ancora, spiccava in maniera particolare un quadro dall'ottima fattura: L sapeva che la Mona Lisa, o Gioconda, era stato uno dei dipinti che più aveva fatto parlare di sé, prima della fondazione di Panem, ma era andato probabilmente perduto. Quella doveva essere, dunque, una copia ben fedele. Tutti i dettagli sembravano al loro posto, la tecnica era perfettamente copiata dall'originale.
L si chiese se quella non fosse la vera Mona Lisa, ma le probabilità gli suggerivano che mai gli strateghi avrebbero sprecato un simile capolavoro per gli Hunger Games se l'avessero davvero avuto tra le mani. Nonostante ciò, L si rese conto che quel dipinto sortiva su di lui l'esatto effetto di cui la gente tanto aveva parlato negli anni: lo sguardo della donna ritratta sembrava seguirlo qualsiasi movimento facesse. Era come se i suoi occhi fossero vivi e potessero spostarsi a loro piacimento per osservare i tributi.
L, neanche si trovasse davanti a una persona in carne ed ossa, ricambiò lo sguardo, assottigliando le palpebre. La Gioconda, naturalmente, non fece alcun movimento, restandosene ferma nella sua posizione statica, seduta con una mano appoggiata sull'altra e il misterioso sfondo alle spalle. L trovò il suo sorrisetto, accentuato dall'assenza delle sopracciglia, inquietante, oltre che enigmatico. Come se fosse un avvertimento.
Scosse la testa tra sé a quelle considerazioni e fece per voltarsi per andare ad esplorare la villa, ma una voce lo bloccò. « Aspetta, Elle Lawliet. »
Un brivido quantomeno inaspettato scese lungo la colonna vertebrale di L. Chi aveva parlato? Ma, soprattutto, come faceva a conoscere il suo vero nome?
Era una voce di donna, non aveva alcun dubbio; si guardò intorno, ma non vide nessuno... eppure quella voce gli era sembrata così vicina... Si disse che probabilmente era stata quella pillola a provocargli delle allucinazioni, uditive o visive che fossero, e che non doveva lasciarsi ingannare.
Prima ancora che potesse nuovamente voltarsi, però, la voce irruppe di nuovo: « Non puoi andartene. Non ancora. »
L alzò lo sguardo sul dipinto e notò che gli stava ancora sorridendo. Possibile che...?
« Perché non posso? » chiese lui.
La Mona Lisa sbatté le palpebre e L pensò che il suo cuore si fosse fermato. « Devi prima risolvere questo indovinello per me » disse la donna nel dipinto, tranquilla. « Se indovinerai, potrai andare, altrimenti morirai. »
L la fissò negli occhi per qualche istante, poi annuì: se quel quadro era una sorta di Sfinge greca, allora lui avrebbe risolto l'indovinello per proseguire i suoi Giochi.
« Sono pronto » disse con voce atona.
« Dunque » cominciò lei,  « un uomo se ne sta tranquillo in un laghetto a pescare, sulla propria barca, ma ad un certo punto una folata di vento gli fa cadere il cappello in acqua, poco lontano. Come lo prende, il cappello? »
L capì immediatamente che quello era un indovinello a trabochetto: la risposta era scontata, ma restò qualche minuto a pensare ai possibili giochi di parole che gli avrebbero potuto dare la soluzione. La sua mente fredda e razionale si concentrò sulla risposta più plausibile – e comica, al contempo – che gli era balenata all'improvviso.
« Bagnato » rispose con un sorriso leggermente soddisfatto. « Lo prende bagnato, il cappello. »
Lisa rimase in silenzio per qualche istante, facendogli pensare che, avendo indovinato, fosse tornata ad essere un quadro normalissimo.
L, finalmente, si sentì libero di andarsene e si allontanò di qualche passo, prima che la voce della donna lo interrompesse di nuovo. « Sbagliato. Il cappello lo prende con le mani. »
L ebbe giusto il tempo di lasciarsi pervadere dalla rabbia mista a stupore e delusione, che nel girarsi ancora una volta verso il quadro fu stroncato da un repentino arresto cardiaco che pose fine alla sua vita, facendo cadere il suo corpo a terra, sul parquet costoso.
Lisa lo osservò, mantenendo il suo sorrisetto enigmatico. « Viene notte e cavaliere, Elle Lawliet » disse, prima di tornare a essere nient’altro che una immobile donna dipinta.
 

 

Il vero guaio della guerra moderna è che non da a nessuno l'opportunità di uccidere la gente giusta.

(Ezra Pound)















 



L'angolo di Pandaivols.

Salve a tutti, e benvenuti nel magico mondo di pandamito e Ivola. *sigla*
Comunque ogni volta a fine del foglio word dobbiamo scrivere di ricordarci di scrivere (?) le note, che sennò ce ne scordiamo sempre di prendere appunti sulle cose da dire.
Ci scusiamo immensamente per il ritardo, sappiamo tutti di chi è la colpa, ma sorvoleremo. E dire che volevamo fare un capitolo corto.
Come mai i vestiti sono tutti diversi?
Che diavolo è questa Cornucopia? Perché è una fottutissima Passaporta, sempre che lo sia veramente?
Dov’è finito Zhu? E dove sono gli altri?
Lo scopriremo nella prossima puntata del Pandaivols’ Show!
Quindi diciamo che con questo capitolo potete iniziare seriamente a fare le scommesse e, soprattutto, a raccogliere sponsor per i tributi che vi sono stati assegnati. A breve, tipo la prossima settimana o giù di lì, pubblicheremo il listino prezzi con ciò che potrete mandare ai vostri protetti, sempre se lo vogliate. In caso contrario, in realtà, sareste delle cattive persone, ma va bé.
Riassumendo, in ordine i morti sono: Kenia, Jason, Haylee, Mason, Go e L.
Detto ciò vi salutiamo perché non abbiamo più sbatti né di scrivere né di aspettare.
Però vi meritate un'immagine bonus -> [x]

 
Bao e cotolette... O dovremmo dire "viene notte e cavaliere"? #spoiler
 
pandaivols.

 
  
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