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Autore: meiousetsuna    30/10/2014    4 recensioni
Questa storia è stata scritta per il meraviglioso contest di Giuns "Peppa in reverse"!
Londra, 1938.
Clara e Alice sono amiche del cuore fin da bambine, malgrado la differenza di ceto sociale.
Ma al momento del matrimonio di una delle due, le cose cambieranno.
Alice fece scorrere le dita sul prezioso merletto che contornava il lunghissimo velo, così soffice e trasparente da sembrare tessuto — con sospiri d’amore e raggi di Luna — dalle mani operose dei folletti delle fiabe, quelli che consegnavano un dono, ma in cambio di qualcosa che spesso valeva più del tesoro.
L’abito era piuttosto stretto, di seta delle Indie; la gonna aveva una larga fascia centrale ricamata con minuscole perle di fiume, cristalli e inserti di madreperla che rivestivano anche l’intero corpetto.
Era costato moltissimo, ma l’idea di copiare il vestito di Sua Maestà Serenissima Elisabeth col loro Re Giorgio VI aveva mandato in visibilio tre generazioni di donne della sua famiglia, pronte ad impegnarsi per un pagamento rateale con la sartoria piuttosto che deluderla riguardo quella magnifica idea.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Scritta per il fantastico contest: “Peppa in reverse” di Giuns

La donna è debole: non impone la sua volontà nemmeno quando obbedire significa soffrire
Prompt: l’amicizia non è abbastanza
Divieto: la donna non deve superare i propri tormenti
Rating: Giallo
Coppia: Triangolo
Avvertimenti: One-sided
NdA:
1)Sia Clara che Clarisse (che ho quindi riunito in una sola persona) sono protagoniste dei due più celebri romanzi di Virginia Wolf: “La stanza di Jacob” e “Mrs Dalloway”
2)Ci troviamo nel 1938
* © Fabio Di Rosa “Scarto”, 2014 (Naturalmente la poesia citata va considerata contemporanea della fiction)
3) L’articolo “The” che sarebbe stato necessario prima del titolo, è omesso per una scelta stilistica
** “The Lady of the Lake” è l’originale melodia scozzese dell’ Ave Maria di Schubert, preferito nelle nozze di nobili

 


blue-maiden

La signora Porter aveva tentato di protestare, anche se con un tono garbato, l’unico modo nel quale avrebbe espresso un parere.
Ma, Alice, cerca di ragionare, è un matrimonio estivo: gli abiti delle damigelle dovrebbero essere glicine o crema”.
La ragazza aveva sorriso mostrando le fossette sulle fresche guance di ventenne, dando un bacio a sua madre per placarla, ripetendo lo stesso gioco che aveva imparato da bambina per disarmare i suoi genitori e che continuava sempre a funzionare.
“Ti prego, mamma! Sai che accondiscenderei volentieri se non fosse per Clara; è la mia prima damigella e il suo colore è assolutamente il blu, con quei capelli così biondi e gli occhi azzurri, non mi importa di cosa preferiscono le mie cugine”.
“Non mi piace essere malevola, lo sai bene, ma più che bionda è slavata e gli occhi hanno un bel colore, non dico di no, ma sono troppo sporgenti; non ha neppure un personale armonioso, non credo che un vestito possa valorizzarla così tanto”.
Alice si risollevò togliendo il braccio dallo schienale della poltrona e facendo un passo indietro per fissare sua madre con un’espressione corrucciata.
Sapeva che quello era il parere di chiunque le avesse conosciute fin da piccole, assistendo ad un lento cambiamento a sfavore della sua più cara amica.
Nel 1929, quando avevano entrambe dieci anni, la famiglia di Alice si era trasferita a Salisbury, in fuga da una Londra ormai caotica e turbata nella sua imponente tranquillità dalle masse che si riversavano nei quartieri più poveri, in fuga dalla crisi economica e dalle voci dell’ascesa in Germania di un pericoloso partito ultra nazionalista. La fiorente cittadina, costruita intorno alla magnifica cattedrale gotica, non sembrava risentire di quell’atmosfera, essendo formata per lo più di ricche ville di ‘esiliati’, come amavano chiamarsi tra loro.
L’abitazione dei Porter era molto più modesta, ma collocata in un buon quartiere.
Un vero esercito di uomini d’affari partiva ogni mattina con il treno o con una vettura personale per la City, procurando di aumentare il proprio benessere, per rientrare a sera nella loro magione, domandando cherry e un sigaro mentre attendevano l’ora di cena.
Le bambine avevano stretto amicizia fin dal primo giorno di vicinato, scambiandosi i giocattoli, correndo col cerchio e spingendosi a turno sull’altalena appesa al ramo più robusto di un’alta quercia.
Alice era carina anche se paffutella, il visino contornato da riccioli ribelli di un castano né chiaro né scuro, le iridi verde oliva che non spiccavano troppo sull’incarnato lievemente colorito.
Clarisse invece era il perfetto prototipo della Rosa Inglese; carnagione di porcellana, occhi grandi, color del cielo, onde di fini capelli così biondi da avere dei riflessi platinati, movenze aggraziate come se avesse già frequentato delle lezioni di portamento.
Quando versavano il tè alle bambole, nel delizioso servizio in miniatura di autentica porcellana cinese, l’impressione ricorrente era quella di osservare una piccola principessa delle favole e la sua dama di compagnia; le mani delicate di Clarisse volteggiavano mentre maneggiava i pezzi del servizio senza il minimo rumore, spiegando i tovagliolini di batista che recavano sull’angolo destro una C ricamata dalla sua governante.
Alice non sembrava invidiosa della sua compagna di giochi, avendo una natura allegra; era proprio quando avvertiva l’insistente malizia contenuta nello sguardo degli adulti che si mostrava ancora più affettuosa, abbracciando e baciando Clarisse, dichiarando a voce alta che erano sorelle.
Giunte all’età di tredici anni, erano partite per frequentare il collegio; il motivo di fondo era certamente quello di approfondire la loro cultura, ma vista la preponderanza di materie come la musica, la letteratura e la pittura, era chiaro che la scuola fosse soprattutto un raffinato sistema di formazione di giovani signore dell’alta società.
‘La fabbrica delle mogli’, come l’aveva chiamato Alice mentre preparava i bauli con l’aiuto della loro unica cameriera, scandalizzando sua madre, sempre prossima allo svenimento, che giungeva a  proposito nel momento in cui era contraddetta.
Per questo la fidata Emily la seguiva dappertutto con la boccetta dei sali ammoniacali già pronta e il suo signor marito preferiva attardarsi in qualche piccolo club a giocare a  biliardo che rientrare a casa presto il sabato e la domenica, trovandosi invischiato in spinose questioni domestiche, alle quali riteneva di aver partecipato a sufficienza saldando a fatica i conti.
Il Girton College, scelto dai Ferguson per gli studi di Clarisse, era senza dubbio il massimo tra gli Istituti per signorine di buona famiglia, distinte e ricche a sufficienza da sperare che le figlie, dopo aver ricevuto un’educazione così elitaria, potessero aspirare a sposare un esponente della piccola nobiltà.
I genitori di Alice non potevano permettersi una spesa così forte, malgrado avessero risparmiato a questo scopo dalla nascita della bambina, ma lei era semplicemente entusiasta di partire, di provare quell’esperienza.
Nessuno nutriva dubbi rispetto al fatto che ne avrebbe tratto il maggior profitto, che sarebbe stata la prima del suo anno.
Il momento della separazione delle due amiche era stato difficile, più di quello con le famiglie; la sensazione, anzi, la paura era quella di riconoscere la brusca fine dell’infanzia e di quel legame ritenuto quasi morboso dalla madre di Clarisse.
Alice ricordava perfettamente l’ultimo abbraccio della bionda, terminato in una crisi di pianto, tanto che la sua governante aveva dovuto letteralmente staccarle la ragazza di dosso; anche lei era dispiaciuta ma non era nel suo carattere disperarsi tanto per una cosa così normale.
Anzi, la sua mente era già proiettata nel futuro; sarebbe stato splendido, radioso, pieno di doni.

Pochi anni dopo, mentre ammirava ancora una volta la creazione che avrebbe indossato il giorno più importante della sua vita, poteva dire di aver ottenuto tutto quello che desiderava.
Alice fece scorrere le dita sul prezioso merletto che contornava il lunghissimo velo, così soffice e trasparente da sembrare tessuto  — con sospiri d’amore e raggi di Luna  — dalle mani operose dei folletti delle fiabe, quelli che consegnavano un dono, ma in cambio di qualcosa che spesso valeva più del tesoro.
L’abito era piuttosto stretto, di seta delle Indie; la gonna aveva una larga fascia centrale ricamata con minuscole perle di fiume, cristalli e inserti di madreperla che rivestivano anche l’intero corpetto.
Era costato moltissimo, ma l’idea di copiare il vestito di Sua Maestà Serenissima Elisabeth col loro Re Giorgio VI aveva mandato in visibilio tre generazioni di donne della sua famiglia, pronte a impegnarsi per un pagamento rateale con la sartoria piuttosto che deluderla riguardo quella magnifica idea.
La fanciulla prese con delicatezza la cuffietta dal manichino del suo guardaroba posandola sui capelli ben acconciati; poi sorrise a se stessa lanciando un bacio verso il grande specchio ovale, sollevando il tulle per non farlo sporcare e avvolgendolo intorno al braccio, improvvisò una danza con l’aria incorporea, la mano arcuata come a posarsi sul palmo di quella di Albert.

Albert era stato molto fiero del suo nome, finché l’aveva condiviso col Principe ereditario; ma questi l’aveva appena cambiato in George per rafforzare il legame col padre, dopo lo scandalo dello sposalizio di Edward con Wally Simpson, una donna divorziata.
La notizia aveva sconvolto ogni fedele suddito della corona, specie il ragazzo che nascondeva un animo fortemente superstizioso.
Non gli piaceva che un tale segno proiettasse la sua ombra su quel matrimonio nato in un modo poco etico, quindi più soggetto a richiamare tuoni e fulmini dal Cielo: sì, poteva ben dire che le precipitazioni atmosferiche c’entravano decisamente in quella storia; ma non è scontato che piova, in Inghilterra?
Con un gesto nervoso il giovane spostò indietro il ciuffo biondo cenere, che non amava pettinare con troppa brillantina, aprendo la tenda per ammirare il temporale estivo che lavava l’aria, scuotendo i rami sottili dei glicini fino a farne sbattere alcuni contro i vetri.
Sembravano dita che ticchettassero sul vetro per richiamare l’attenzione degli abitanti della casa, dita di scheletri vendicativi, come nei racconti di fantasmi.
Albert si trovò a fissarli quasi ipnotizzato, scivolando nei ricordi, a quel pomeriggio di sei mesi prima…

La Rolls Royce bianco avorio con le cromature dorate non passava certo inosservata, anche a causa della spaventosa velocità alla quale sfrecciava sulle strade rese poco sicure della pioggia torrenziale che si stava rovesciando da certe nuvole traditrici.
Queste, fino all’ora di pranzo, erano rimaste vagamente velate di grigio fumo; quando a metà pomeriggio Albert era partito da Londra i cumuli si erano ammassati rapidamente, causando l’oscurarsi del cielo e annunciando con i primi brontolii l’arrivo del temporale.
‘Piove sulla mia richiesta di matrimonio, si annunciano lacrime’. Il ragazzo preferì rallentare per non presentarsi con le fiancate dell’auto coperte di schizzi di fango; arrivato alla curva che aggirava la fine della Mill Road si sentì sicuro: passare intorno ad un luogo di culto senza fermarsi era un buon segno. Finalmente imboccò il vialetto della tenuta Ferguson posteggiando la vettura e trovando il maggiordomo pronto ad accoglierlo.
“Benvenuto Mister Talbot, era atteso con ansia”.
Consegnati il soprabito e la bombetta, Albert entrò, diretto al salone principale, schiarendosi la gola.
L’idea della proposta ufficiale che avrebbe presentato ai Ferguson lo rendeva estremamente nervoso, malgrado non avrebbe potuto essere più fortunato.
Clara era giovane, figlia unica di una famiglia incredibilmente facoltosa e a suo modo graziosa. Sicuramente era raffinata, perfetta da presentare in società; la sua presenza così discreta, l’eleganza innata la rendevano la compagna ideale di un uomo che vuole fare carriera.
Era ancora sulla soglia del sontuoso salone, quando il portone alle sue spalle si aprì di nuovo, lasciando passare una folata di vento e la sagoma snella di una ragazza castana.
“Scusatemi, non dovevo presentarmi così, senza un invito, ma quando ho saputo che era tornata Clara…”
La giovane non fece in tempo a terminare la frase che un piccolo uragano biondo si era lanciato tra le sue braccia, incurante dell’etichetta che vigeva in quella casa rispettabile, abbracciando Alice con tale impeto da farle volare via l’ombrello ancora grondante che le era rimasto tra le mani.
L’oggetto rosa salmone finì a terra ancora aperto, rotolando brevemente fino ai piedi di Albert, che si chinò per raccoglierlo, come in stato di trance.
Il suo sguardo risalì senza mostrare un interesse troppo invadente sulle caviglie slanciate, la parte dei polpacci torniti che la gonna a mezza gamba scopriva con disinvoltura, il seno evidente anche sotto la camicetta modesta.
Ma c’era di più. Non c’erano dubbi sulla nazionalità inglese della ragazza, cosa dalla quale non avrebbe potuto trascendere, eppure c’era così tanta vita, su quel volto. I capelli di Alice, negli anni, avevano assunto una tinta nocciola rara e calda; negli occhi verde oliva brillavano delle pagliuzze brunite che catturavano i riflessi delle candele accese nei preziosi candelabri d’argento.
Ma era la pelle appena dorata che tolse il fiato al ragazzo.
‘Sembra burro appena preparato, da mangiare leccandosi le dita, o che il Sole del Mediterraneo abbia baciato il suo viso in un giorno di primavera’.
“Albert, vieni; ti presento Alice, la mia migliore amica, ti ricorderai di lei”.
“Non abbiamo parlato d’altro, praticamente. Miss Alice, sono infinitamente onorato di conoscervi”.
“Anch’ io, è come se fossimo già vecchi amici! Allora posso essere così sfacciata da restare per una tazza di tè?”
“Certo, cara, sei sempre la benvenuta”. La voce della signora Ferguson tremò solo un istante, senza che questo alterasse il suo mezzo sorriso di circostanza.
Ma i suoi occhi non abbandonarono il quadro formato da Albert e Alice che non potevano smettere di fissarsi, con sua figlia nel centro: minuta, raffinata, una bambola incapace di reagire con un gesto o un motto spiritoso a quello che stava accadendo.
Non c’erano emozioni leggibili sul suo volto, finché le labbra si distesero nel medesimo sorriso della madre. “Accomodiamoci, prenderemo un rinfresco in biblioteca, c’è già il camino acceso”.
“Siete mai stata in Italia, Alice?”
“Albert mi ci condurrà per il viaggio di nozze, è il suo Paese preferito, sai? Visiteremo Roma, Firenze e Venezia. Io adoro l’arte classica, anche se le persone mi fanno un po’ paura, gli italiani sono così… sanguigni, questa è la definizione giusta”.
Tutta la forza di Clarisse era racchiusa in quel tentativo di spezzare il circolo chiuso che si stava creando, tanto che le ultime parole si spensero come se pronunciarle avesse esaurito le sue forze.
“E a voi, Alice, fanno paura?”
“Io amo gli spiriti audaci, per la verità. A proposito, la vostra macchina è così bella! Che velocità può raggiungere?”
“Sono arrivato qui a quaranta miglia all’ora”.
Gli occhi vivaci di Alice mandarono un chiaro messaggio di ammirazione, quelli languidi di Clarisse uno di angoscia.
“Se vi fa piacere, vorrei leggere a voi signorine una poesia in italiano, scritta da un giovane autore che posso vantarmi di avere come amico; non fa parte di una scuola in particolare, è un innovatore. Naturalmente poi la tradurrò, sarebbe un vero piacere”.
Albert andò a recuperare in una tasca del soprabito un libriccino rilegato in azzurro, assumendo un’aria teatrale che sarebbe risultata persino comica, se la situazione non fosse stata ben diversa.
*Altro non è
Se non l’urgenza
Dell’amore che non sa aspettare
Il suo potere taumaturgico – il suo trovare
Ubriaco e sfatto, in una notte da fine del mondo, le anime salve
E quelle da salvare…”
Alice ombreggiò lo sguardo con velata seduzione; Clarisse socchiuse le labbra tentando di prendere una boccata d’aria, ma il risultato fu la sensazione di affogare.

“Albert”. Lui non ebbe bisogno di girarsi per distinguere quella voce sottile, anche se il tremore evidente delle labbra che pronunciavano il suo nome la stava alterando in modo strano, quasi volgare rispetto al tono sussurrato che conosceva.
Clarisse era nascosta dietro una delle colonne del porticato; no, non nascosta, occultata.
Il vestito di satin blu zaffiro le stava bene, pur non esaltando il tono delicatissimo dei suoi capelli biondi.
“Sei qui”. Lui sistemò la tuba con un gesto lento che cercava di mascherare il nervosismo.
La ragazza gli andò incontro, portando la mano destra in avanti, incontrando a metà dello spazio che li divideva quella di Albert, pronta a ricambiare una stretta di falsa rinnovata amicizia.
Le dita sottili e fragili scansarono la presa di quelle appena sudate del giovane, andando ad artigliargli il polso, conficcando le unghie limate perfettamente a mandorla nella carne, facendogli il maggior male possibile.
“Hai distrutto ogni cosa, ma non pensare che ti lascerò essere felice. Parlerò in chiesa, mi alzerò in piedi e dirò tutta la verità, griderò finché non sarà chiaro cosa hai fatto. Mi volevi solo per il denaro della mia famiglia, non sono stupida, ne ero consapevole; ti avevo comprato, sarebbe andato tutto bene, so che non ti piaccio”.
Albert era paralizzato, mentre delle minuscole stille di sangue fuoriuscivano dalle ferite sul polso: tratteneva il fiato, come se questo potesse aiutarlo a focalizzare quello che stava succedendo.
“Avresti potuto svagarti con quante donne volevi, non avrei fatto nulla per ostacolarti, le avrei pagate io se necessario”.
“Non hai perso me, ti ho tolto Alice”.
La rivelazione gli si rovesciò addosso come una secchiata d’acqua gelida. Clarisse all’improvviso gli sembrò non più reale di una bella fotografia, ricordo di una persona che una volta era viva.
“Mi guardavi coi tuoi occhi ingannevoli, ma era lei che volevi davvero nella tua vita”.
Clarisse non accennava a lasciare la presa dolorosa sul polso del ragazzo, non finché non l’avesse pregata di farlo.
“Non si sarebbe dovuta sposare, mai. Le avrei proposto di venire a vivere con noi, saremmo state insieme, era così che sarebbe dovuta andare. È la persona che mi capisce di più e io le leggo dentro, come tu non potrai mai fare”.
“Ascolta, piccola pazza”. Albert le staccò le dita, una ad una, sentendo il bruciore delle lesioni man mano che le vedeva, rendendosi finalmente conto che erano reali. Preso un fazzoletto dal taschino le tamponò, verificando con sollievo che restavano coperte dal polsino.
“Tu adesso entrerai nella cattedrale, sorridendo e stando al tuo posto. Ti congratulerai con noi, festeggerai, poi al più presto sparirai dalla nostra vita. Se tenterai di sollevare uno scandalo sarai tu a pagarne le conseguenze; e forse Alice, non certo io. Rifletti, vuoi che sia condannata insieme a te? Non potrebbe mai essere tua come desideri, non vorrebbe mai che la accarezzassi, che la baciassi… devi rassegnarti. Dimmi che hai capito e che non parleremo più di questo argomento, come se non fosse accaduto. Giura”.
Un cenno del capo che si abbassava fu l’unica risposta.
Le note di “The Lady of the Lake”** , eseguita con l’organo, risuonavano echeggiando nell’altissima volta dell’edificio di stile gotico, basse e profonde, a tratti — dipendentemente da chi le ascoltava — quasi sepolcrali.
Clarisse fece il suo ingresso precedendo le altre tre damigelle, con un’aura spenta e scura che la avvolgeva invadendo lo spazio intorno alla sua figura, il cuore sprofondato nella dannazione dei perdenti.
“Guardate com’è commossa la giovane Ferguson…” La dama con un buffo cappellino guarnito di piume verdi si curvò a sussurrare nell’orecchio dell’amica.
“Piange come se si dovesse sposare lei”.

  
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