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Autore: earlgreytea68    30/10/2014    5 recensioni
Sherlock Holmes, studente.
Sì, in pratica è tutto.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Saving Sherlock Holmes

 

 

 

 

Mycroft si costrinse a mangiare meccanicamente. 
Guardò il quotidiano che il maggiordomo gli aveva portato senza davvero registrare ciò che leggeva finché il suono del campanello non riecheggiò nella casa. Allora ripiegò il giornale con attenzione, impegnandosi affinché fosse diritto e ordinato, e il maggiordomo fece entrare l’avvocato di sua madre nella sala da pranzo. 
Lo aveva incontrato una volta, brevemente, il giorno della morte di sua madre. A Mycroft non era servito che si presentasse: gli era bastato uno sguardo per capire esattamente chi fosse. Gli avvocati si riconoscono facilmente. 
“Mr. Harbrough,” disse adesso, educatamente, dopo essersi alzato e avergli stretto la mano. “Perché non si siede mentre le verso del tè?”
“Grazie, sì,” rispose Harbrough, e prese posto sulla sedia indicatagli da Mycroft. “Spero non le spiaccia che io sia in anticipo. Volevo un’opportunità per parlarle da solo e ieri non mi è sembrato il momento adatto.”
Mycroft lo ascoltò mentre si impegnava a versare il tè. “Affatto,” disse, automaticamente, e gli passò la tazza con un sorriso. 
“E’ stato un funerale piacevole,” commentò Harbrough.
“Questo,” disse Mycroft con cautela, così da non sembrare offeso nonostante in realtà lo fosse, “è un ossimoro.”
“Oh,” disse Harbrough dopo un momento, e tossì; Mycroft aveva notato che era un suo tic nervoso. Harbrough posò la sua tazza. “Volevo parlarle di Sherlock.”
Ovviamente, pensò Mycroft. “Oh?” Inarcò un sopracciglio per spingerlo a continuare. 
“Dov’è?”
“Sta dormendo. Ho pensato fosse meglio non svegliarlo.”
“Certamente,” convenne Harbrough. “Immagino non stia dormendo bene dopo...”
Mycroft sospettava che Sherlock stesse dormendo molto meglio di lui. Non voleva dire che in realtà lo aveva lasciato dormire per evitare che fosse intrattabile e non cooperativo durante una possibile disputa incentrata su di lui, perciò si limitò a rispondere con un mormorio imparziale.
Harbrough tossì di nuovo nervosamente. “Il testamento di sua madre è stato scritto anni fa, dopo la morte di vostro padre. Temo non sia stato aggiornato. Una svista comune. Le persone non vedono mai la propria morte imminente, non è vero?” Harbrough fece un pallido sorriso, come se ci fosse qualcosa di cui sorridere. 
“E’ vero,” commentò Mycroft, “una felice caratteristica dell’evoluzione il non spendere le nostre vite rimuginando sulla possibilità della nostra morte. O così ho sempre pensato.”
Harbrough esitò, insicuro su cosa fare, e poi tossì. “Non era maggiorenne.”
“Quando mio padre morì? No, non lo ero.”
“No, lo so; non volevo...” Harbrough s’interruppe per tossire. Mycroft si chiese se avrebbe dovuto mettere fine alle sue sofferenze e decise che la mancanza di sonno e la tensione generale lo stavano rendendo più apertamente ostile del solito. Inoltre, non sopportava il tono di Harbrough: lento e gentile come se Mycroft fosse un idiota a cui tutto andava detto per filo e per segno, inclusa l’età che aveva quando aveva perso il padre. Come se Mycroft avesse potuto dimenticarlo. Infine, immaginava che Harbrough non avesse fatto un buon lavoro con la stesura del testamento e già sapeva che avrebbe dovuto sistemare le cose al posto suo; non aveva nessuna voglia di aiutarlo ad annunciare il problema esistente. 
Perciò Mycroft non fece niente, sorseggiò il tè e aspettò che Harbrough continuasse.
“Vostra madre aveva dato istruzioni affinché si occupassero di entrambi, nel caso della sua morte. Ciò non si applica più a lei, ovviamente, dato che ha raggiunto la maggiore età. Sherlock, d’altro canto...”
“Perché non sono state prese misure affinché Sherlock restasse con me, nel caso della morte di mia madre, dopo che avessi raggiunto la maggiore età e prima che lui avesse raggiunto la sua? Mi sembra che avrebbe dovuto essere un’eventualità da includere.” 
Il modo in cui Mycroft lo disse era gentile in superficie, ma con abbastanza ghiaccio in agguato al di sotto da far trasalire Harbrough.
“Be’,” disse. Quindi, “Sì...” E poi tossì.
Mycroft poggiò la sua tazza con un sonoro tintinnio, posizionò i gomiti sul tavolo, unì le mani e guardò obiettivamente Harbrough. “Con chi dovrò combattere per questo?”
Harbrough represse un colpo di tosse. “Vostra prozia Iphigenia.” 
Mycroft lo aveva ipotizzato e le aveva prestato attenzione il giorno prima, durante il raduno. Aveva girovagato implacabilmente, preoccupandosi di lui e studiando il salotto, quasi stesse già immaginando come cambiare le tende. “La conosco appena,” disse, il che era vero. Sua madre non era stata legata a nessuno dei suoi parenti. Mycroft pensò di aver incontrato Iphigenia meno di cinque volte in tutta la sua vita. 
“Era la parente più prossima di sua madre.”
Anche questo era vero, ed ecco perché Mycroft aveva ipotizzato che sarebbe stata nominata nel testamento. “Difficilmente significa qualcosa,” disse. “Perché dovrebbe prendersi cura di Sherlock?”
“Ci sono dei soldi messi da parte per la sua tutela,” disse Harbrough, delicatamente. “Una somma considerevole.”
Mycroft lo aveva previsto e così, apparentemente, aveva fatto Iphigenia. Era comunque un sollievo che l’esistenza dei soldi fosse confermata. Aveva posto grande fiducia nell’intelligenza di sua madre per cifre, finanze e investimenti, ma considerando come si era dimostrata imprevedibile alla fine di tutto, aveva temuto di vedersi piovere debiti di migliaia di sterline fra capo e collo. 
“Ci sarà un dibattito?” chiese Mycroft. “Legalmente? Per far sì che sia io a farmi carico di lui. Se insisto per la sua custodia, potrà contrastarmi?”
“Se è quello che desidera fare... sì. Sì, è una disputa legale.”
Mycroft ne prese nota con un’espressione appena accigliata e passò oltre. “Mi dica di più delle finanze. Non i soldi messi da parte per Sherlock. Il resto.”
“Avete ereditato il resto dei soldi. Il mio ufficio sta cercando di calcolare la cifra esatta, ma lei e Sherlock dividete la somma equamente. Dato che non è maggiorenne, la sua metà verrà messa in un fondo fiduciario controllato da lei... lo stesso vale per le proprietà terriere: questa casa e la tenuta di campagna.”
“Avrà accesso al fondo fiduciario una volta compiuti i diciotto anni?” chiese Mycroft, perché a quell’età lui aveva avuto accesso al suo. 
“Al fondo stabilito per lui alla sua nascita, sì. A quello creato dalla morte di sua madre, no. Non potrà accedervi fino ai venticinque anni.”
Mycroft ne fu sorpreso. “Ma non sarà così anche per me?”
Harbrough gli fece un piccolo sorriso. “Vostra madre insistette sulla differenza. Disse che poteva fidarsi di lei per occuparsi di tutto, ma che già sapeva che Sherlock sarebbe stato più come suo padre e che avrebbe avuto bisogno di essere guidato.”
“Lo sapeva dieci anni fa,” disse Mycroft, lusingato dalla sua fiducia e orgoglioso della sua intelligenza. 
“Così pare,” disse Harbrough.
“Perciò c’è una somma rassicurante. Abbastanza per mantenere le cose come sono finché non avrò finito l’università?”
“Più che sufficiente per quello.”
“Eccellente. Allora devo solo accordarmi con zia Iphigenia.”
Harbrough esitò, Mycroft si irrigidì e aspettò che parlasse. Naturalmente, il discorso fu preceduto da un colpo di tosse. “Potrebbe esserle d’aiuto, Mycroft. Potrebbe non essere un’idea così malvagia...” Harbrough vide l’espressione sul viso di Mycroft e perse il filo. 
“Crede non sarebbe un’idea così malvagia? Mandare mio fratello Dio sa dove con una donna anziana che non ha mai incontrato e che non ha idea di chi lui sia?” Mycroft si morse la lingua prima di dire ciò che stava pensando, e cioè che gli Holmes avevano immediato bisogno di un nuovo avvocato. 
Preferibilmente uno meno stupido di questo. A cosa stava pensando la mamma? Non c’era da domandarsi come mai lo avesse ritenuto in grado, all’età di otto anni, di gestire la situazione qualora fosse morta. Lui a otto anni era più capace di quanto quest’idiota lo fosse tutt’ora.
Mycroft fece un respiro profondo e disse, “E’ un’idea terribile. Non la suggerisca di nuovo. Contratterò con zia Iphigenia e lei farà quello che le dico.”
“A meno che non sia illegale...” cominciò Harbrough, perdendosi in un colpo di tosse quando Mycroft gli lanciò un’occhiata truce. 
“Come se,” disse Mycroft, seccamente, “l’illegalità fosse in bianco e nero.”
Harbrough tossì ancora. 

 

***

 

Mycroft aveva detto al maggiordomo di scortare i familiari, una volta giunti, nella biblioteca. Non voleva usare il salotto di sua madre per la lettura del suo testamento. Sarebbe stato inopportuno, pensò. E la sala da pranzo doveva ancora essere sgomberata dai piatti della colazione. Perciò aveva deciso per la biblioteca. 
La prozia Iphigenia entrò di slancio e cercò di dargli un bacio, ma lui si scansò abilmente senza dar a vedere di starla evitando. Poi cominciò ad agitarsi e preoccuparsi per lui. 
Mycroft non era sicuro di quanti anni avesse, ma quali che fossero, erano decisamente troppi per agitarsi in quel modo. 
Iphigenia era seguita da tre arcigni fratelli, tutto ciò che restava della famiglia Whitcombe a cui sua madre apparteneva. I tre a loro volta avevano figli, che avevano figli, e tutti quanti avevano girato per la casa il giorno prima; era contento che fossero venuti da soli.
Mycroft conosceva l’albero genealogico a memoria, ma gli sembrò che ammetterlo avrebbe dato l’erronea impressione che gliene importasse qualcosa, quando la verità era che a sua madre non era importato di nessuno dei suoi parenti. Sua madre aveva avuto numerosi conoscenti - ancora, Mycroft sentiva di aver parlato con tutti quanti loro il giorno prima - ma non aveva avuto amici; quello era uno dei suoi assiomi. Un vero amico giocherà subito a scacchi con te, Mycroft, gli aveva detto una volta, sorseggiando una tazza di tè e studiando la sua ultima mossa. Ma è una cosa che accade raramente, perché le persone sono per lo più incredibilmente stupide. 
“Dov’è il caro Sherlock?” chiese Iphigenia. 
Mycroft voleva dirle che il fatto che lo avesse chiamato “caro Sherlock” indicava quanto poco davvero lo conoscesse, invece si preparò a rispondere che aveva pensato fosse meglio che non presenziasse alla lettura del testamento. 
Sherlock, però, entrò nella stanza prima che potesse dirlo. Indossava lo stesso completo del giorno prima, anche se, fedele alla sua parola, non aveva la cravatta. Il vestito era probabilmente ancora umido, e quello era parte del motivo per cui Mycroft lo guardò male. La restante parte era che davvero non lo voleva lì; Sherlock gli lanciò uno sguardo che diceva, Sul serio pensavi che ti avrei aiutato restandomene a dormire?
Mycroft continuò a guardarlo storto, ma sapeva che era uno spreco di energie. Sherlock era insensibile alle sue occhiatacce che anzi, Mycroft sospettava, erano per lui fonte di divertimento. 
“Sherlock, caro!” tubò Iphigenia, cercando di avvicinarlo abbastanza da carezzargli i riccioli. 
Sherlock odiava le persone che gli toccavano i capelli, odiava le persone che lo toccavano e basta; ma, invece di dire qualcosa di scortese e pungente, come Mycroft temeva, balzò via da Iphigenia e raggiunse il fianco di Mycroft, standogli molto più vicino di quanto si sarebbe aspettato, appena a un respiro dall’aggrapparsi a lui. 
Era così inusuale da parte sua che Mycroft abbassò allarmato lo sguardo su di lui, per poi realizzare esattamente cosa stava facendo. Sherlock aveva giustamente dedotto che sarebbe stato vantaggioso far credere a tutti i presenti nella stanza che era completamente dipendente da Mycroft e che sarebbe stato perso senza di lui. Bene, decise, se Sherlock aveva intenzione di essere d’aiuto non aveva niente in contrario. 
Harbrough tossì fastidiosamente un’altra volta e Sherlock lo guardò, corrucciandosi appena. Mycroft sapeva cosa stava pensando: Che problema hai? Schiarisciti a dovere la gola, o smettila del tutto di tossire - è irritante. Sherlock, insolitamente, non diede voce a quei pensieri. Si girò verso Mycroft, invece, eliminando l’espressione accigliata dal volto e chiedendo, con il suo tono di voce più angelico, “Posso restare a sentire cosa dice?”
Mycroft sollevò impercettibilmente le sopracciglia, così che solo Sherlock potesse accorgersene, intendendo trasmettergli la risposta Sei ridicolo, non pensare che sia soddisfatto di te. Sapeva che Sherlock aveva ricevuto il messaggio, perché era bravissimo a cogliere quei messaggi tanto quanto lo era ad ignorarli. 
Mycroft disse ad alta voce, “Sì, credo di sì.”
Sherlock regalò a Mycroft il suo miglior sorriso radioso, che dal punto di vista di Mycroft era assolutamente allarmante: quella bocca piegata in un sorriso che lo faceva sembrare un beatifico cherubino. 
L’improvviso pensiero che avrebbe dovuto lasciare Sherlock a Iphigenia gli attraversò la mente: le sarebbe stato di lezione. 
Sherlock capì a cosa stava pensando, smise di sorridere, si accigliò un po’ e prese posto sul divano; tutti gli altri, però, si comportavano ancora come se Sherlock fosse la creatura più adorabile a cui era stato permesso di camminare sulla terra. 
Iphigenia disse a Sherlock, avvicinandosi al divano, “Povero ragazzo, come ti senti questa mattina?”
“Ha mal di gola,” rispose Mycroft, sedendosi affianco a Sherlock sul divano prima che Iphigenia potesse farlo. 
Sherlock si allargò appena per assicurarsi che non ci fosse spazio per lei dall’altra parte e gli lanciò una breve occhiataccia, seccato che avesse dedotto subito il suo mal di gola. 
Iphigenia li guardò con aspettativa, attendendo che le facessero posto sul divano. 
“Forse se si siede potremmo cominciare,” suggerì gentilmente Mycroft. 
Iphigenia continuò a guardarli. 
“C’è una sedia proprio alle sue spalle,” disse Sherlock seccamente.
Iphigenia sospirò e prese la sedia dietro di lei; Sherlock smise di allargarsi così tanto. 
“Per favore, cominci,” disse Mycroft a Harbrough, che cominciò con un colpo di tosse. Mycroft sentì Sherlock fremere al suo fianco per lo sforzo di non dire nulla su quella tosse dannatamente fastidiosa. 
“Ecco, in realtà non c’è molto da dire,” disse Harbrough. “Il testamento è semplice e diretto. Ha lasciato tutto a voi due. Diviso equamente.” Harbrough sorrise a Sherlock e Mycroft come se quelle fossero delle ottime notizie. Vostra madre è morta. Ora siete molto ricchi. Congratulazioni! “Ovviamente,” disse Harbrough a Sherlock, parlando molto lentamente, e facendo così aumentare le sue vibrazioni rabbiose, “lei è troppo giovane per ereditare tutto subito, perciò vostro fratello ne avrà cura per voi. Significa che...”
“So cosa significa,” lo interruppe Sherlock, irritato. “Quando potrò accedere al fondo?”
Harbrough sembrò preso in contropiede. “A venticinque anni.”
“Venticinque,” ripeté Sherlock. “Ma lui non ha venticinque anni, adesso. Chi governerà il fondo per lui?”
Ci fu un momento in cui Harbrough guardò Mycroft come se volesse che fosse lui a rispondere. Mycroft lo ignorò, perché non voleva essere lui a dirlo, e alla fine Harbrough continuò. “Per lui non è così; ha accesso al fondo dai diciotto anni.”
Sherlock lanciò a Mycroft un rapido sguardo contrariato. Mycroft si limitò a sorridergli. 
“E a proposito della custodia del caro Sherlock?” chiese Iphigenia, la voce carica di preoccupazione. 
“Mi prenderò io cura di lui, ovviamente,” disse Mycroft, seriamente, pensando che sarebbe stato molto carino da parte di Iphigenia rispondere solo, Oh, giusto, naturalmente, e chiudere lì la questione. 
Iphigenia lo guardò in silenzio per un lungo, dubitativo momento, poi si voltò verso Harbrough. “Ma cosa dice il testamento?”
Harbrough tossì nervosamente e Sherlock si agitò al fianco di Mycroft. “Il testamento affida Sherlock a lei. Con un fondo creato appositamente per i costi necessari.”
Iphigenia guardò Sherlock, gli occhi scintillanti per quella che Mycroft riconobbe essere avidità ma che immaginò lei volesse far passare per affetto. 
“Non importa cosa dice il testamento,” disse Mycroft come dato di fatto. “Mi prenderò io cura di Sherlock.”
“Non essere ridicolo, Mycroft,” gli disse Iphigenia con leggerezza. “Tu sei occupato con l’università, ovviamente. Non devi preoccuparti. Badare a lui sarà impegnativo, ne sono sicura, e sono più che disposta ad aiutarti con...”
Mycroft voleva aspettare che finisse di parlare prima di dirle che si sbagliava, ma avrebbe dovuto sapere che Sherlock non avrebbe fatto lo stesso. 
“Io non sono ‘impegnativo’,” disse Sherlock, profondamente offeso. 
“Sherlock,” disse Mycroft. 
“Le persone stupide e noiose sono ‘impegnative’,” continuò Sherlock. “Io non sono ‘impegnativo’.”
Iphigenia sorrise a denti stretti, come se fosse già sul punto di perdere la pazienza, e Mycroft pensò che soltanto un dilettante poteva spazientirsi dopo sole tre frasi di Sherlock. 
Bisognava arrivare almeno alla decima frase per poter perdere la pazienza, o non si aveva alcuna possibilità contro di lui. 
“Ora, Sherlock, caro, sii ragionevole...”
“Essere ragionevole?” ripeté Sherlock, gli occhi spalancati per l’indignazione. 
“Sherlock,” disse nuovamente Mycroft, conscio di star parlando a vuoto ma provandoci lo stesso. 
“No. Lei vuole che io sia ragionevole? Sono l’unica persona che conosco ad essere sempre ragionevole!”
La cosa preoccupante era che Mycroft sapeva che Sherlock ci credeva con tutto il cuore. “Lasciamo...” cominciò, ma Iphigenia lo interruppe.
“Non puoi essere davvero così egoista da obbligare tuo fratello a occuparsi di te quando è...”
Sherlock emise un suono soffocato, ma fu Mycroft a interromperla con furia. “Non. Un’altra. Parola.” 
Iphigenia si zittì bruscamente, come se Mycroft avesse tolto tutta l’aria dalla stanza, e lo guardò scioccata dal suo tono. Persino Sherlock si voltò con un’espressione stupefatta che Mycroft ignorò; si alzò e gli disse, con una voce sorprendentemente calma, “Devi andare in camera tua.”
Lo stupore crebbe sul viso di Sherlock. Lo fissò e disse, “Io devo fare cosa?” e Mycroft capì, perché l’idea di ordinare a Sherlock di andare in camera sua era risibile e lo sapeva. 
“O dove vuoi.” si corresse. “Non mi interessa. Non qui.”
“Ma non è giusto,” disse Sherlock, facendosi più piccolo sul divano per rendere più difficile l’essere rimosso. 
“Sono d’accordo. Ma non posso buttare fuori da casa Iphigenia fintanto che abbiamo degli affari da discutere, perciò il minimo che posso fare è dare ad almeno uno degli Holmes il sollievo di non dover più sopportare la sua presenza.”
Iphigenia squittì, come se sapesse di doversi sentire offesa ma non avesse afferrato esattamente il perché. Mycroft aspettò, sperando che Sherlock, considerate le circostanze, decidesse di collaborare; Sherlock guardò Mycroft, quindi Iphigenia e, miracolosamente, si alzò. 
“Bene,” disse, e passò alle spalle di Mycroft per poter vedere Iphigenia. “Non vivrò con nessuno che non sia Mycroft,” proclamò. “Se provi a costringermi, ti avvelenerò molto lentamente e in un modo tale che nessuno potrà determinare come tu sia morta.”
Oh, magnifico, pensò Mycroft. Non avrebbe potuto lasciare la stanza senza minacciare un omicidio?
Sherlock se ne andò sbattendo elegantemente i piedi, una cosa che solo lui poteva fare; Mycroft si voltò verso i tre uomini arcigni e disse, “Fuori.”
Loro sembrarono seccati perché le cose chiaramente erano appena diventate interessanti, ma se ne andarono immediatamente, senza protestare. Mycroft era contento che qualcosa sul suo viso o nel suo tono non permettesse repliche, nemmeno da Sherlock. Chiuse risolutamente la porta dietro di loro e fronteggiò Iphigenia. 
“Parliamo di affari,” disse, avvicinandosi al vassoio con il tè che nessuno aveva toccato. 
“Affari?” ripeté lei, tutta moralistica indignazione. “La tutela di un bambino non riguarda gli affari.”
Mycroft versò il tè con attenzione e competenza e disse, “Gli hai appena dato dell’egoista. Ha undici anni e desidera restare con la sola persona rimasta nella sua vita che realmente sappia qualcosa di lui. Sherlock è incredibilmente egoista, hai ragione; ma qui, in questo frangente, non avrebbe dovuto essere accusato di essere ‘egoista’. Per niente.” 
La raggiunse, bilanciando le due tazze. “Perciò non fingere di essere interessata al benessere di Sherlock, se così fosse non gli avresti mai detto una cosa talmente spietata.” 
Le porse la sua tazza con un sorriso educato e lei la prese, non sapendo cos’altro fare.
“Dunque parliamo di affari. Perché onestamente non penso tu voglia davvero discutere dell’adeguatezza della tua casa per un bambino di undici anni, con i tuoi giovani, virili e ben pagati aiuti.” Mycroft mise abbastanza enfasi su quella parola da assicurarsi che Iphigenia non potesse fraintendere. 
Iphigenia impallidì e si alzò. “Come osi...”
“Siediti,” disse Mycroft. “Non uscirai da questa casa senza prima aver rinunciato a tutti i tuoi diritti su Sherlock.”
“Cosa ti fa pensare che...”
“Il fatto che so tutto di te. E quello che non so, lo saprò. Non sottovalutarmi e non pensare che questa sia un’esagerazione. Acconsentirò che tu ottenga il fondo creato per la tutela di Sherlock, che è ciò che davvero vuoi, in ogni caso. Lo prenderai e mi lascerai Sherlock, fine della storia.” Mycroft sorseggiò il suo tè. Si era dimenticato di metterci lo zucchero, realizzò. 
Iphigenia tornò lentamente a sedersi, considerando palesemente l’offerta. 
Harbrough tossì, ma Mycroft lo ignorò. 
Iphigenia disse, alla fine, “Non so cosa vostra madre si aspettava che diventaste, crescendovi così come ha fatto.”
Mycroft sorrise senza divertimento, sforzandosi di mantenere la presa sulla tazza lieve e tranquilla, e di non pensare troppo a come quella donna stesse insultando sua madre il giorno dopo il suo funerale. Disse, “Immagino si aspettasse che diventassimo quello che volevamo. Sarebbe molto fiera, questa mattina.”
Iphigenia lo fissò, ma non dissentì.
Harbrough tossì nel silenzio e disse, in imbarazzo, “Devo redigere i documenti?”
“No,” disse Mycroft, senza guardarlo. “Un avvocato competente redigerà i documenti. Ora ho bisogno solo che metta nero su bianco quanto sufficiente a vincolarci a questo accordo finché i documenti ufficiali non mi saranno recapitati.” Mycroft si alzò, mise giù la tazza e raggiunse la scrivania; aprì il primo cassetto sulla destra e ne estrasse un foglio di carta intestata e una bellissima penna stilografica. Li passò entrambi a Harbrough e disse, “Scriva ciò che le serve. E se non reggerà, le farò causa fino a rovinarla.”
Harbrough sembrò allarmato ma cominciò a scribacchiare. 
Mycroft lesse man mano che scriveva, rimpiangendo di non conoscere meglio la legge. Pensò che andava abbastanza bene e anche che Iphigenia era talmente terrorizzata che non avrebbe cercato di tirarsi indietro davanti ai veri documenti. Questo era il miglior accordo per lei, davvero. Tutto quello che voleva erano i soldi: la sua preoccupazione per Sherlock serviva solo a salvarle la faccia. Mycroft firmò il pezzo di carta e lo passò a Iphigenia per la firma che lei scarabocchiò dopo un momento d’esitazione. 
Mycroft non disse una parola. Piegò il documento, lo sistemò nella tasca interna della giacca e mostrò a Iphigenia e Harbrough l’uscita. “Passate una piacevole giornata,” disse, sbattendo la porta; guardò le armature nell’angolo per un po’ e poi disse “Allora?” a Sherlock, consapevole della sua presenza in cima alle scale. 
“Sei stato piuttosto veloce,” commentò Sherlock. 
“Impressionato?” chiese, salendo le scale per unirsi a lui. 
“Le hai dato l’intero fondo, non è vero?”
“Sì.” Mycroft si mise a sedere accanto a lui sull’ultimo scalino. 
“Allora no, non sono impressionato. Era tutto quello che voleva. Avresti potuto mercanteggiare e farle abbassare la somma.”
Mycroft lo sapeva bene. Sapeva anche che Sherlock era un risultato troppo prezioso per rischiare di mercanteggiare. Lui voleva Sherlock e Iphigenia lo sapeva, Mycroft le avrebbe dato anche più del fondo se avesse dovuto. Si considerava fortunato ad essersela cavata così, in realtà. Ma se glielo avesse detto, Sherlock avrebbe deriso la sua sdolcinatezza.
Perciò disse, “E’ stata una piccola, graziosa recita quella all’inizio: sederti vicino a me sul divano e tutto il resto.”
Sherlock sorrise, soddisfatto di sé. “Grazie.”
“Avresti potuto lanciarmi anche qualche sguardo adorante per concludere l’esibizione.”
“Non sarei riuscito a farli sembrare reali,” disse Sherlock. “Bisogna riconoscere i propri limiti. Esagerare è sempre il primo passo per farsi beccare.”
“Vero,” concesse Mycroft, sorridendo mentre si appoggiava all’indietro sui gomiti. 
“Cosa faremo adesso?” chiese Sherlock dopo un momento. 
Mycroft non ne aveva idea. Doveva pensare a un qualche piano per il futuro: non solo per le successive ore o giornate, ma al modo in cui avrebbero vissuto. In quel momento, però, non sapeva da dove cominciare. “Tu dovresti tornare a letto.”
“Non sono veramente malato,” fece Sherlock, tirando su col naso. 
“Hai un esperimento in corso lì, l’ho visto.”
Sherlock esitò. “Sì, campioni di terra, ma... non ho più campioni da analizzare. La mamma e io...”
Mycroft dedusse il resto. La mamma lo accontentava, portandolo in giro per tutta Londra a raccogliere campioni. Avrebbero proprio dovuto passare la giornata dentro casa - Mycroft sapeva che Sherlock aveva mal di gola e che doveva riposare - ma aveva smesso di piovere e la casa sembrava essere soffocante. 
“Andiamo,” disse, e si alzò. “Ne prenderemo altri, allora.”
Sherlock sollevò lo sguardo su di lui e sorrise. Non il sorriso smagliante e melodrammatico che aveva fatto in biblioteca. Solo un sorriso. 
Era infinitamente migliore. 

 

§



 

Un grazie immenso per il caloroso benvenuto che avete dato a questa storia, 
siete stati gentilissimi, dolcissimi e chi più ne ha più ne metta. *manda barrette di cioccolata a tutti*
Spero che la storia continui a piacervi,
alla prossima, 
Sara










 

   
 
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