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Autore: Kary91    30/10/2014    8 recensioni
[Finnick Odair| Insieme di Missing Moments | Annie/Finnick |Mags&Finnick |Gale&Finnick]
“Questa baia è fatata” rivelò poi la donna con un sorrisetto enigmatico. “Gli abitanti del Distretto 4 la chiamano ‘la Baia delle Impronte Dimenticate’. Si dice che le persone che abbiamo amato – quelle che abbiamo perso, o quelle che ci mancano – camminino su questa spiaggia tutte le sere, per vegliare sui loro cari. E, la mattina, si possono vedere le loro impronte.”
************
Quella notte, nei sogni di Finnick, le impronte tornarono bianche e prive di chiazze di sangue. Le orme dei suoi genitori inseguivano il suo percorso lungo i tubi sotterranei e le loro voci si mescolavano al ronzio continuo dei macchinari. Gli sussurravano di essere forte. Lo supplicavano di resistere.
A quel punto, il capitano si svegliò; quello fu il suo ultimo sogno.

{Questa storia partecipa al contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's Contest" indetto da ticci.EFP}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Bimbo Cresta-Odair, Finnick Odair, Gale Hawthorne, Mags
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Peter Pan del Distretto 4.'
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Footprints in the Sand

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Parte 2

 

Le impronte sulla spiaggia avevano incominciato a farsi più esitanti e sporadiche, in periodo di guerra. Il capitano le rincorreva spesso in sogno, dove la sabbia era intrisa di un luccichio opaco, che rendeva la distesa bianca sfocata, quasi surreale. Spesso, il percorso delle orme s’interrompeva bruscamente a metà baia. Prima di sparire, però, le impronte cambiavano colore: s’imbrattavano di un rosso scuro e denso.

Si sporcavano di sangue e a quel punto il capitano si svegliava sussultando, atterrito e madido di sudore.

Finnick sfregò con insistenza la suola degli scarponi sul pavimento, cercando di ripulirle. Il sangue di Boggs e quello di Mitchell, misto al gel maleodorante scatenato dal baccello, imbrattava l’appartamento sotto forma di impronte, le loro impronte. Sue e dei suoi compagni di squadra.

Distolse lo sguardo, sforzandosi di ignorare il cadavere mutilato di Boggs o i colpi disperati di Peeta contro le ante dell’armadio.

Ripensò al sogno che aveva fatto la notte precedente: si trovava alla Baia delle Impronte Dimenticate, la spiaggia in cui amava andare a giocare da ragazzino. Lo stesso posto in cui aveva portato spesso Annie, per distrarla dai ricordi che la tormentavano. Nel sogno era un bambino e stava passeggiando assieme a Mags e ai suoi genitori. Era corso fino alla riva per bagnarsi i piedi, ma quando era tornato indietro, si era accorto che la sua famiglia era scomparsa. Al loro posto erano rimaste tre serie di impronte, che si interrompevano nel punto esatto in cui incominciavano quelle di Finnick. A quel punto, qualcosa di rosso e viscoso aveva incominciato a riempirle, imbrattandole. Il sangue, che non mancava mai nei suoi incubi, era riuscito a sporcare anche uno dei luoghi più felici della sua infanzia.

Ed ecco che tornava a tormentarlo, disegnando impronte scure sul pavimento di quella stanza.

Non era stato il solo a rimanere turbato di quel dettaglio; si sorprese nel notare l’espressione assorta con cui Gale stava fissando le orme lasciate dai suoi stivali. Quando si accorse che Finnick lo stava osservando distolse lo sguardo e si allontanò dal soggiorno, per controllare le vie d’uscita. Aveva i modi composti e decisi di sempre, ma qualcosa nel suo sguardo aveva spinto il Vincitore del Distretto 4 a ipotizzare che quelle impronte avessero smosso qualcosa in Gale, proprio come era successo con lui.

Continuò a rimuginare su quel pensiero anche più tardi, durante il turno serale di guardia. Sia lui che Hawthorne si erano offerti di vegliare sui compagni per primi, mentre il resto della squadra riposava. Finnick si era proposto perché era sicuro che non sarebbe riuscito a prendere sonno: gli incubi erano ancora particolarmente frequenti e il ronzio insistente dei macchinari, che riempiva lo stanzino in cui si erano fermati, lo innervosiva.

Si voltò verso Gale, che in quel momento aveva lo sguardo rivolto verso un’addormentata Katniss. Qualcosa nei suoi modi, nella punta di apprensione che addolciva la sua espressione ferma e un po’ sfrontata, lo riportò con la mente ad Annie. Alle serate trascorse a vegliare sul suo sonno, per assicurarsi che qualche incubo non la tormentasse.

Quando Gale si accorse che Finnick lo stava guardando, un accenno di fastidio velò il suo volto.

“Che hai da fissare?” chiese, indirizzando un’ultima occhiata a Katniss, prima di voltarsi verso di lui.

Finnick non riuscì a trattenere un sorrisetto.

“Io non ti piaccio molto, vero?” domandò poi.

Gale lo squadrò con diffidenza, prima di scuotere la testa.

“No” confermò, distogliendo lo sguardo. L’aria fiera e riservata che lo caratterizzava di norma tornò a modellare i suoi lineamenti.

“Ci avrei scommesso, capitano” commentò Finnick, guadagnandosi una seconda occhiata perplessa da parte del ragazzo.

Ai suoi occhi aveva davvero l’aria da capitano: si muoveva con la cautela di un cacciatore, ma aveva nello sguardo la sfrontatezza di un leader. Se avesse dovuto descrivere il vero volto della ribellione, probabilmente avrebbe pensato a lui, più che Katniss.

“Mi sono reso conto di non averti ancora ringraziato” mormorò poi Finnick, appoggiando la nuca alla parete. L’espressione confusa di Gale rinnovò un accenno di sorriso divertito sul suo volto.

“Per aver preso parte alla missione di salvataggio” specificò poi. “Annie e Johanna sono al sicuro anche grazie a te.”

Il suo interlocutore scosse la testa.

“Non è merito mio” rispose, passandosi una mano fra i capelli arruffati. “Io ero lì per cercare Peeta.”

“So che sei stato tu a trovare Johanna…” replicò Finnick, stringendosi nelle spalle. “… Mi ha anche detto che sei andato a farle visita, mentre era in ospedale. Tu le piaci, a proposito” buttò lì, sperando di riuscire a innescare una qualche reazione.

Gale non disse nulla; la sua espressione sembrava essersi fatta più impensierita, ma c’era troppa poca luce perché Finnick potesse esserne certo; non era nemmeno sicuro che il ragazzo lo stesse effettivamente ascoltando. Continuava a tenere d’occhio l’ingresso della stanzetta, con le braccia incrociate sul petto.

Il ragazzo del Distretto 4 sospirò, fissandosi le punte degli scarponi: macchie di gel nero incrostavano ancora la punta di quello sinistro. Lo sollevò, per controllarne la suola. Non si sorprese più di tanto quando si accorse che quell’operazione aveva attirato l’attenzione di Gale.

“Abbiamo una leggenda al Distretto 4…” rivelò d’istinto, premendo la scarpa sul pavimento. “…Riguarda le impronte. Si dice che le persone morte passeggino per la baia vicina al faro ogni sera e che al mattino sia possibile trovare le loro orme. Magari avete qualche tradizione simile, al Distretto 12” aggiunse, rivolgendosi al coetaneo.

Ancora una volta Gale non disse nulla, ma la sua espressione tornò a farsi distante, come se le parole del compagno di squadra avessero riportato alla luce qualche suo vecchio ricordo.

“Mags, la mia mentore, lo faceva ogni anno” aggiunse Finnick. “Cercare le impronte sulla spiaggia, dico. Era il suo modo di dire addio ai tributi che morivano nei Giochi.”

Il ricordo di Mags, della sua risata, delle tante passeggiate in riva al mare fatte assieme quando era bambino, lo colpì come un pugno allo stomaco. La nostalgia della sua spiaggia, dei riflessi di luce intermittenti che accarezzavano le onde per via del faro, incominciò a farsi tutto a un tratto più pungente; si sentiva vuoto, senza il suo mare. Era come un guscio, in apparenza resistente, ma sempre più incrinato. Aveva solo voglia di tornare a casa, stringendo protettivo Annie a sé durante l’intero tragitto. Portarla alla baia per cercare assieme a lei le impronte di Mags era la prima cosa che avrebbe fatto, una volta raggiunto il Distretto 4.

Tornò a voltarsi verso Gale, che non si era ancora sforzato di partecipare alla conversazione.

“Oh-come-sei-silenzioso” scandì con un ghigno, attirandosi un’occhiata innervosita del compagno. Johanna me l’aveva detto che eri un po’ musone, capitano.”

“Puoi smetterla con quel ‘capitano’?” ribatté l’altro in tono di voce seccato.

Finnick fece spallucce.

“Perché? È un soprannome di tutto rispetto” lo punzecchiò, divertito dalla sua reazione infastidita. “Mio padre mi chiamava così...” aggiunse, abbozzando un sorriso malinconico.

Qualcosa nell’espressione di Gale cambiò. Il distacco rimase, ma venne mitigato da una punta di esitazione.

“È morto?” chiese, distogliendo lo sguardo.

Il compagno annuì.

“Come il tuo, no?”

Gale gli rivolse un’occhiata sorpresa, lasciandogli intuire che avesse indovinato. Finnick l’aveva visto più volte in compagnia della madre e di alcuni ragazzini che dovevano essere i suoi fratelli, ma non ricordava un signor Hawthorne. Inoltre, da quando Gannet era morto, il giovane aveva sviluppato un istinto infallibile nel riconoscere gli orfani. Avevano tutti la stessa espressione, quando venivano menzionati i genitori: sfinita e disillusa, da ragazzo sperduto. Il loro – il suo – era lo sguardo arrabbiato di chi veniva lasciato solo[1].

“È morto nei bombardamenti?” chiese ancora Finnick, consapevole di aver stuzzicato un nervo scoperto.

Il suo interlocutore scosse la testa.

“Esplosione in miniera” rispose, indirizzando una rapida occhiata a Katniss. “Sei anni fa, più o meno.”

Finnick lo osservò mentre parlava, incuriosito dal modo in cui ancora si ostinava a tenere d’occhio la porta d’ingresso della stanzetta. Forse aggrapparsi al pensiero di dover vegliare sui compagni addormentati lo aiutava a tenersi alla larga dalle riflessioni scomode.

“L’abbiamo anche noi…” mormorò a un certo punto Gale, adagiando la nuca al muro e tornando a passarsi una mano fra i capelli.

Finnick inarcò un sopracciglio, non riuscendo a capire a cosa si stesse riferendo. Il compagno sbuffò e si voltò dall’altra parte.

“La questione delle impronte” specificò, indicandosi gli scarponi con un cenno del capo. “Per la gente del 12 sono le anime dei minatori morti in miniera che camminano per le strade del Giacimento, cercando di tornare a casa. Per questo, non le calpestiamo mai” aggiunse, socchiudendo appena gli occhi: incominciava a sembrare stanco. “È una questione di rispetto.”

Finnick annuì, ripensando alle impronte macchiate di sangue che avevano catturato l’attenzione di entrambi, quel pomeriggio. Era rimasto turbato per via dell’accostamento di quell’immagine a un ricordo d’infanzia e Gale doveva aver vissuto un momento simile. Non sapeva cosa gli fosse passato per la testa in quel momento e si guardò bene dal chiederglielo, ma non aveva dimenticato l’espressione atterrita che, per un istante, aveva velato lo sguardo del ragazzo. Forse quelle orme l’avevano riportato con la mente alla morte del padre, o forse le aveva associate ai lavoratori morti durante lo scontro nell’Osso, al Distretto 2. Forse erano state le prime avvisaglie di rimorso a portarlo ad avere quell’attimo di turbamento.

Finnick sapeva bene che la determinazione e l’istinto a resistere, a ribellarsi, a combattere per ciò che sembra giusto in una determinata situazione faceva marciare le persone per chilometri, senza mai farle vacillare: lui stesso ne era la prova. Ma prima o poi il senso di colpa arrivava sempre a braccarle, fino a stanarle del tutto. E mettere insieme i pezzi richiedeva dieci volte il tempo che serviva per crollare[2] - anche per i ribelli come Hawthorne.

Abbozzò un sorrisetto amaro, incrociando lo sguardo fiero e circospetto del soldato del 12.

“In fondo non siamo poi così diversi, capitano” commentò infine, facendogli l’occhiolino.

Gale sbuffò e tornò a mettersi a braccia conserte, abbandonando la testa contro il muro. Finnick non poté fare a meno di rivolgergli un’occhiata compiaciuta nel notare un lieve sorriso rassegnato sul suo volto.

“Perché ‘capitano’?” chiese infine il ragazzo, tornando a vegliare la porta d’ingresso della stanzetta con lo sguardo.

Il sorriso di Finnick si estese.

“È partito tutto da una storia che mi raccontava spesso mio padre, quando ero bambino…” spiegò, intrecciando le dita dietro la nuca. Il ricordo delle serate trascorse accoccolato sul tappeto ad ascoltare i racconti di Gannet e a giocare con il suo veliero di legno gli infusero una punta di serenità.

D’un tratto si sentì meno vuoto, più vicino a casa. Per un istante, un istante solo, si sentì il bambino che era stato una volta, quel furfante che non voleva crescere e che riusciva a strappare sorrisi con poco, pronunciando qualche frase in modo buffo con le mani ben piantate sui fianchi.

Gli mancava, quella versione di se stesso.

“C’era una volta un capitano di nome Sebastian…” incominciò, sorridendo al ricordo del modo fiero e affrettato con cui amava ripetere quella storia da piccolo.

Gale gli rivolse un’occhiata perplessa, ma, ancora una volta, non disse nulla.

Così, Finnick continuò a raccontare.

“…Ed era un capitano coraggioso e invincibile. Un giorno…”

 

Quella notte, nei sogni di Finnick, le impronte tornarono bianche e prive di chiazze di sangue. Le orme dei suoi genitori inseguivano il suo percorso lungo i tubi sotterranei e le loro voci si mescolavano al ronzio continuo dei macchinari. Gli sussurravano di essere forte. Lo supplicavano di resistere.


A quel punto, il capitano si svegliò. Quello fu il suo ultimo sogno; tre ore più tardi partì con il resto della sua ciurma, come un mattino di tanti anni prima aveva fatto suo padre.

E, proprio come Gannet, non tornò mai più.

*

A rivolta scemata il Distretto 4 era tornato ad animarsi, con la lentezza che caratterizzava l’andirivieni delle onde mattutine, quando il vento era ancora debole.

La spiaggia della baia riprese a riempirsi d’impronte, come un ponte navale ripopolatosi dopo una burrasca.

Era mattina presto, quando una fila di orme leggere incominciò ad avvicinarsi alla riva. Erano tracce fragili e irregolari, che a volte cambiavano rotta all’improvviso, colte da un moto di follia. Proseguivano fino a incrociare il tragitto di altre impronte più grandi – da uomo – e lì s’interrompevano.

La forma di due mani si impresse sulla sabbia, ad accarezzare le nuove orme. Erano le mani di una donna con un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa – un sogno, un ricordo, una traccia sulla sabbia – per non lasciarsi travolgere dal dolore.

Le sue erano le impronte di una giovane che stava annegando in se stessa, ma che ogni tanto riemergeva, appigliandosi al ricordo del suo capitano.

Un capitano che non era più tornato da lei.

 

Annie Cresta si accarezzò il pancione con tenerezza. Le lacrime le solcavano silenziose gli zigomi, mentre il suo sguardo vagava senza meta per la baia, alla ricerca di una serie di impronte.

Quella notte aveva sognato Finnick; arrivava dal mare, come se in tutti quei mesi non avesse fatto altro che nascondersi in qualche barca, abbandonandola al dolore sordo della solitudine. Nel sogno la raggiungeva sulla spiaggia con un sorriso e un fiore da appuntarle fra i capelli. Le aveva teso la mano, chiedendole di andare via con lui. Annie l’aveva quasi fatto, ma poi il pianto di un neonato aveva rotto disperato il silenzio della spiaggia e a quel punto lei aveva aperto gli occhi, precipitando ancora una volta nella realtà; era tornata alla sua casa vuota, al freddo pungente invernale e al suo ventre sempre più gonfio, per via del bambino che vi stava crescendo dentro.

Annie, a quel punto, aveva raggiunto la Baia delle Impronte Dimenticate, per cercare le orme di Finnick. Le aveva trovate quasi subito, vicine alla riva; avevano la forma dei sandali che aveva portato spesso lui, le volte in cui avevano passeggiato assieme sul lungomare.

In quel momento un gruppetto di ragazzini le passò accanto, brandendo spade immaginarie.

“In guardia, capitano!” stava esclamando uno dei bambini, duellando con un coetaneo.

Annie sgranò gli occhi e si appoggiò le mani sulle orecchie: tutto a un tratto i rumori che la circondavano incominciarono a sembrarle taglienti e le fecero del male.

Le tornarono in mente le proprie urla e il dolore sordo che le aveva impregnato la testa, quando qualcuno le aveva detto che Finn non sarebbe più tornato.

Ricordò il funerale, i volti deformati dal dolore, le lacrime, le grida dei tributi che le avevano tormentato la mente per tutto il tempo, senza che nessuno fosse in grado di acquietarli: solo Finnick sapeva farlo.

Ricordò la poesia, quella poesia, e la voce di uno dei soldati che la recitava con il capo rivolto verso la bara.

E ne ripetè un pezzo anche in quel momento, tornando ad accarezzare le impronte umide di mare impresse a riva.

“Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito. Ma io con passo dolorante passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano.”

Chiuse gli occhi, sforzandosi di scacciare i versi restanti dalla sua testa e qualsiasi cosa che non fossero il ricordo del sorriso canzonatorio e degli occhi verdi di Finnick.

“Caduto, freddo e morto.”

Le sue mani tornarono a proteggerle le orecchie, mentre, nella sua testa, i pensieri dolorosi si battevano con quelli più fragili e preziosi, che sapevano ancora come portarla in salvo.

Ricordò il sapore dei baci di Finnick, le sue parole di conforto, la sicurezza che avvertiva quando si rannicchiava fra le sue braccia, sfuggendo ai rumori più dolorosi per ascoltare il battito del suo cuore.

 

Chiuse gli occhi, affidandosi completamente alla voce di Finnick, al tocco leggero delle labbra del ragazzo, sul suo collo.

“Dimenticali, Annie…” le mormorò lui in un orecchio, stringendola per la vita. “…Dimenticali tutti.[3]

La giovane si lasciò cullare dalle sue braccia e, lentamente, i ricordi più dolorosi le scivolarono via di dosso. Caddero in mare e le onde li scacciarono a largo, restituendo alla ragazza un accenno di sorriso.

I due innamorati restarono in silenzio per un po’, aggrappati l’uno alla presenza dell’altro.

“Balliamo?” chiese poi Finnick, sciogliendo l’abbraccio. Annie gli scoccò un’occhiata divertita.

“Sei proprio un Peter Pan…” commentò, accarezzandogli il volto. Finnick si portò le mani sui fianchi, rivolgendole un sorriso presuntuoso.

“Forse volevi dire Capitan Peter Pan, mia dolce Wendy” la corresse, improvvisando un inchino.

Tornò poi a tenderle la mano e, quando Annie gli porse la sua, se la portò alle labbra.

La giovane rise, lasciandosi stringere dalla sua presa. Il suono della risata della giovane fu sufficiente a ravvivare ulteriormente l’espressione del fidanzato.

Finnick le fece fare una giravolta, prima di tornare a circondarle la vita con un braccio.

Il ricordo delle urla e dei rantoli soffocati di chi incespicava in cerca d’aria nell’arena, che fino a quel momento aveva tormentato la mente di Annie, si attenuò; venne mascherato dal soffio del vento e dal rumore delle onde, fino a diventare irriconoscibile.

La danza giocosa dei due ragazzi s’impresse sulla sabbia, ricamandola di impronte bianche.

Orme che viaggiavano in coppia, senza mai separarsi.

 

Annie sbatté le palpebre e si guardò attorno spaesata, mentre il ricordo sbiadiva. Le impronte dei due innamorati svanirono, lasciando il posto a quelle solitarie impresse nella sabbia sotto le sue dita.

“Dove sei, Finn?” mormorò la giovane, inseguendone il percorso con lo sguardo: proseguivano fino alle prime onde e lì s’interrompevano bruscamente, come se l’acqua le avesse prese per portarsele via con sé. “Ci stai guardando?” chiese ancora, portandosi una mano sul pancione.

Le rispose solo il vento, che soffiò dispettoso contro il suo volto, scompigliandole i capelli.

Si voltò per ripararsi dalla folata improvvisa e il suo sguardo ricadde sulle proprie impronte: si accorse che, lungo il tragitto verso la riva, proseguivano in parallelo a quelle che ricordavano le impronte di Finnick.

Sorrise.

Per un istante, scelse di credere che il suo capitano fosse davvero lì con lei. Scelse di credere che quelle fossero davvero le loro orme.

Orme che viaggiavano in coppia, senza mai separarsi.

 

*

La sabbia della baia situata vicino al faro era ancora bianca e finissima, proprio come sei anni prima; quel pomeriggio, come ogni giorno, la sua superficie era intarsiata d’impronte.

Le orme affrettate di un bambino percorrevano la spiaggia, inseguite a poca distanza da quelle un po’ esitanti di una donna.

A metà baia le impronte del ragazzino si facevano più incerte, mentre azzardavano qualche passo verso un paio d’orme più grandi, spesse e ben definite.

Erano le impronte di un bimbo sperduto, che frugava la baia alla ricerca di una mano forte e robusta da stringere: una mano da capitano, come quella del padre che non aveva mai avuto.

 

A Finnick Sebastian erano sempre piaciute le persone silenziose. Si trovava bene in loro compagnia, perché erano un po’ come lui, che aveva sei anni ma parlava molto meno rispetto ai bambini della sua età che conosceva. Di domande ne aveva molte, ma non sempre trovava la persona giusta a cui farle; il più delle volte preferiva passeggiare lungo la riva, guardare il mare dagli scogli o ascoltare le favole di Adrian, il guardiano del faro.

Forse era per quello che il signore che era venuto a trovarli quel giorno assieme a Johanna, la sua madrina, lo incuriosiva così tanto. Non aveva quasi aperto bocca per l’intera mattinata e, subito dopo pranzo, si era allontanato in direzione della baia.

Johanna gli aveva proposto di portarsi dietro Sebastian, ma dopo un attimo di esitazione l’uomo aveva fatto segno di no con la testa, mormorando qualcosa che il bambino non era riuscito a comprendere.

Alla baia, quel pomeriggio, Sebastian ci era andato lo stesso, accompagnato dalla madre.

Appena arrivato aveva incominciato a scorrazzare per la riva, improvvisando una gara di corsa con degli avversari immaginari.

Annie cercava di stargli dietro come poteva, fermandosi di tanto in tanto per riposarsi e guardarlo giocare.

“Finnick!” lo richiamò dopo una mezz'oretta, indirizzandogli un’occhiata apprensiva. “Dove hai già fatto finire la maglietta?”

Il bambino fece spallucce, indicando poi un fagotto di stoffa appallottolato sulla sabbia; non gli piaceva disobbedire, ma ancor meno gli piacevano i vestiti. Preferiva giocare a torso nudo e lasciare che il vento gli facesse il solletico, evitando così che la sabbia gli si appiccicasse alla maglietta.

Corse in direzione della scogliera, riconoscendo la persona appollaiata su una delle rocce: era l’amico di Johanna. Sebastian non voleva disturbarlo, ma la curiosità era troppo forte perché riuscisse a ignorarla. Si arrampicò su uno degli scogli più bassi, cercando di non muoversi troppo in fretta per non attirare la sua attenzione, ma l’uomo lo notò subito.

Sebastian si morse il labbro con espressione colpevole, quando lo sguardo di quel signore così silenzioso si posò su di lui; tuttavia, l’uomo non disse nulla. L’occhiata che gli stava rivolgendo non era infastidita, come quelle che gli rifilava qualche volta Johanna quando faceva finta di trovarlo antipatico. Tuttavia, Sebastian si accorse che sembrava preoccupato e quel dettaglio lo confuse. Gli sembrava un tipo tosto, il genere di persona che non si lasciava spaventare facilmente. Era alto e aveva l’aria forte e coraggiosa, da comandante.

“Sei un capitano?” azzardò, non riuscendo a trattenersi.

L’uomo aggrottò appena le sopracciglia, rivolgendogli un’occhiata sorpresa.

“Come?”

“Sembri un capitano” ammise timidamente il bambino, giocherellando con un risvolto dei suoi jeans. “Anche loro hanno un cappello.”

Il suo interlocutore accennò un lieve sorriso, sistemandosi la visiera del berretto.

“Sono un soldato” rispose poi, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia. “Faccio il pilota militare.”

Sebastian gli rivolse un’occhiata ammirata: non aveva mai incontrato nessuno che sapesse pilotare.

“Io da grande sarò il capitano di una nave” rivelò poi, mettendosi a gambe incrociate sulla roccia. “O il guardiano del faro” si sentì in dovere di aggiungere, poiché ancora non era riuscito a decidere quale dei due lavori lo attirasse di più.

L’uomo annuì, ma non disse nulla. Distolse lo sguardo e si concentrò sul mare, ristabilendo un silenzio che Sebastian non impiegò molto a rompere.

“Sei amico di Johanna?” chiese. Guardandolo bene si accorse che non sembrava molto vecchio: non aveva nemmeno la barba. Forse era addirittura più giovane della sua mamma.

Lo vide esitare, prima di rispondere.

“Qualcosa di simile.”

“Non ti piacciono tanto i bambini, vero?” domandò ancora Sebastian, notando la sua espressione nervosa.

“In realtà mi piacciono, ma non sono molto bravo con loro” ammise lui, stringendosi nelle spalle.

Sebastian aggrottò le sopracciglia. A lui non sembrava che se la cavasse poi così male: gli era simpatico e non si era arrabbiato, né gli aveva chiesto di andarsene, nonostante il ragazzino stesse continuando a fargli tutte quelle domande.

“Non sei un papà?” chiese a quel punto, spolverandosi la sabbia dai pantaloni. “Quanti anni hai?”

L’uomo abbozzò un mezzo sorriso.

“Venticinque. E no, non ho figli.”

“Però il papà ce l’hai?” insistette Sebastian, indirizzandogli un’occhiata pensierosa; era una domanda che faceva spesso, quella.

Ancora una volta il giovane lo squadrò sorpreso, prima di scuotere la testa.

“No, non più.”

Il ragazzino sorrise con fare comprensivo.

“Ecco perché hai gli occhi così tristi” commentò, facendo spallucce. “Sei come me: anche io non ho un papà e certe volte mi sento un po’ solo.”

Lo disse con semplicità, anche se non l’aveva mai ammesso a voce alta: sapeva che, se sua madre l’avesse sentito, ne avrebbe sofferto molto. E anche l’uomo sembrò rabbuiarsi, ascoltando quelle parole. La sua espressione s’indurì, come se fosse arrabbiato, ma i suoi occhi erano tornati a sembrargli tristi.

“Mi dispiace tanto, Sebastian” mormorò, distogliendo lo sguardo dal bambino.

Non lo disse nel tono di voce compassionevole con cui ogni tanto gli parlavano gli sconosciuti, quando accennavano alla morte di suo papà. Aveva pronunciato quelle parole come se stesse davvero chiedendo scusa a Sebastian. Sembrava si sentisse in colpa per qualcosa, un po’ come capitava a lui quando la sera andava alla baia di nascosto e si vergognava di se stesso, perché sapeva che non avrebbe dovuto farlo.

Il bambino fece spallucce, prima di arrampicarsi sulle rocce per andare a sedersi di fianco a lui. Cercò di incrociare il suo sguardo, ma l’amico di Johanna continuava a fissare il mare, come se tutto a un tratto si sentisse troppo triste o arrabbiato per parlare con qualcuno.

Al ragazzino ricordò un po’ il protagonista della sua favola preferita: Capitan Sebastian. Durante una delle sue disavventure, il capitano e la sua ciurma erano stati sorpresi dalla tempesta e l’uomo, pur salvandosi, era stato costretto ad assistere alla morte di alcuni dei suoi marinai senza riuscire a fare niente per salvarli. Nel racconto si diceva che da quell’episodio gli occhi del capitano si fossero fatti più spenti, pieni di rabbia e tristezza. Un po’ come quelli del giovane soldato-pilota seduto vicino a Sebastian.

“Ogni tanto io e la mamma cerchiamo le sue impronte, qui alla baia” rivelò a quel punto, tornando a voltarsi verso di lui. “Quelle di papà, dico. Le troviamo quasi sempre: forse ci sono anche quelle del tuo.”

Il silenzio tornò a frapporsi fra di loro. Sebastian cercò d’ingannarlo guardando il mare, ma continuava a indirizzare occhiate incuriosite in direzione del ‘capitano silenzioso’. Avrebbe voluto fargli altre domande, ma non era sicuro che lui avesse voglia di rispondere.

Alla fine fu l’uomo a rivolgergliene una.

“Sai pescare?”

Il ragazzino esitò, prima di stringersi nelle spalle.

“Più o meno…” ammise, arrossendo leggermente. “…Non sono molto bravo. La mamma non mi ha mai insegnato.”

“Ti va di imparare?” chiese il suo interlocutore, tornando a guardarlo negli occhi.

Il volto di Sebastian si illuminò.

“Tantissimo! Mi puoi insegnare?”

L’uomo gli sorrise.

“Dai, andiamo a procurarci qualche rete e delle esche” propose infine, scendendo giù dallo scoglio. Tese le braccia per afferrare il ragazzino e Sebastian si lasciò posare a terra.

“Lo sai?” esclamò poi il bambino, quando i due incominciarono a camminare lungo la riva. “Non mi hai ancora detto come ti chiami”.

Il soldato annuì.

“Hai ragione. Mi chiamo Gale, capitano.”

Sebastian gli sorrise.

“Beh, sai, Gale capitano…” esordì ancora, schermandosi gli occhi con la mano per poter guardare in alto, verso di lui. “…Secondo me saresti bravo a fare il papà.”

Il giovane soldato lo guardò interdetto per un po’, prima di sorridergli. Strinse la mano che il bambino gli stava porgendo e proseguì assieme a lui lungo la riva.

“Gale capitano?” esclamò il ragazzino dopo un po’, chinandosi per raccogliere una conchiglia.

Il giovane gli rivolse un’occhiata divertita.

“Solo Gale” lo corresse, sfilandosi il berretto. “Il capitano sei tu”.

Mise il cappello in testa al bimbo che gli sorrise riconoscente, sistemandoselo sui capelli.

“Posso raccontarti una storia?” chiese a quel punto il piccolo. “Parla di un capitano che si chiama Sebastian, come me. La conosci già?” aggiunse, accorgendosi che il giovane gli aveva rivolto una strana occhiata, quando aveva menzionato il suo eroe preferito.

Il soldato non disse nulla per un po’; infine scosse la testa.

“No, non la conosco. Raccontala, ti ascolto.”

L’espressione di Sebastian si ravvivò ulteriormente. Prese fiato e strinse più forte le dita di Gale, prima di incominciare a raccontare.

“C’era una volta un capitano di nome Sebastian…” esclamò, indicandosi, quando pronunciò il proprio nome. “…Ed era un capitano coraggioso e invincibile. Un giorno…”

Ripresero a camminare lungo la riva, l’uno di fianco all’altro.

Le impronte continuarono a intarsiare la sabbia, raccontando la loro storia: erano un bambino e una persona adulta che si tenevano per mano.

Una vecchia favola risuonava per la baia, mescolandosi al sussurro del vento.

In lontananza, appena visibile, si stagliava l’albero di una barca a vela.

Le onde si infrangevano sugli scogli.

 

«È come se fossi Finnick, se guardassi scorrere in un baleno le immagini della mia vita.

L’albero di una barca a vela, un paracadute argentato, Mags che ride, un cielo rosa,

il tridente di Beetee, Annie nel suo abito da sposa, onde che si infrangono sulle rocce.

Poi è finita.»

 

Il Canto della Rivolta. Suzanne Collins

 

 

 

Note conclusive.

Ed ecco qui la seconda parte, con la conclusione di questa storia. Ho deciso di dare al racconto una struttura circolare e di inserire, quindi, per la scena iniziale (quella con child!Finnick e i suoi genitori) e quella finale (Gale e Sebastian), le stesse frasi di chiusura.

Il nome completo di Sebastian è Finnick Sebastian, ecco perché la madre lo chiama Finnick, mentre il bambino preferisce essere chiamato con il secondo nome. Sebi è anche il protagonista della mia mini-long, Il Figlio di Peter Pan, per questo in questo racconto ho inserito qua e là qualche riferimento alla favola di Peter.

Per quanto riguarda Gale, spero che la sua presenza nel racconto non risulti fuori luogo! So che è un personaggio poco apprezzato dagli amanti della saga, ma ci tenevo a inserirlo, perché mi ha sempre intrigato molto un ipotetico confronto fra lui e Finnick. Inoltre, Gale è il mio personaggio preferito e so che di norma, invece, non è molto apprezzato, quindi ci tenevo molto a includerlo nella vicenda. Nel mio head-canon personale lui e Johanna vivranno assieme al Distretto 2 (anche se nella scena di chiusura di questa storia sono ancora solo amici/conoscenti), quindi lui avrà spesso a che fare con il piccolo Sebastian. Ci tenevo che il bambino avesse anche una figura maschile nella sua vita e Gale, avendo praticamente cresciuto tre fratellini, l’ho sempre immaginato molto a suo agio con i bambini. Tuttavia, l’episodio delle bombe sui ragazzini di Capitol City (e, soprattutto, la morte di Prim) l’ha scosso molto, quindi fatica a stare a contatto con i piccoletti. Il rapporto con Sebastian (e, soprattutto, la nascita di suo figlio Joel) lo aiuterà un po’, in questo.

Penso di aver detto tutto! Questa è in assoluto la prima Finnick!centric che scrivo, quindi spero di non aver combinato dei pasticci, ma sono davvero contenta di aver provato a scrivere qualcosa su di lui, perché grazie a questa storia (e alla long su Sebastian) sto incominciando ad apprezzare un personaggio che fino a ora mi non era mai stato fra i miei preferiti. *Laura viene investita da una raffica di tridenti e zollette di zucchero*

Spero tanto che questa seconda parte vi piaccia!
Un abbraccio e a presto!

Laura


[1] Questo passaggio è vagamente ispirato a delle battute del personaggio di Capitan Uncino in un episodio della serie TV “Once Upon a Time”. La frase a cui ho fatto riferimento è la seguente: Hook: “I spent many years in Neverland, home of the lost boys. They all share the same look in their eyes - the look you get when you've been left alone.”

[2] Questa è una frase che Finnick dice a Katniss ne “Il Canto della Rivolta”.

[3] Le battute di Finnick sono un riferimento a una scena del film Peter Pan (2003). In quella scena Peter dice a Wendy: “Dimenticali Wendy, dimenticali tutti, vieni con me dove non dovrai mai, mai più pensare alle cose dei grandi.”

   
 
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