Capitolo
Ventisei: Veglia
Arthur
si abbatté sulla sedia, schiantò i gomiti sulla
scrivania e buttò la testa sulle braccia incrociate.
Quando
aveva fatto il salto verso una nuova dimensione,
aveva desiderato di approdare in un mondo che potesse insegnargli nuove
cose. Ma
era nauseato da quelle lezioni che sapevano di sangue e lacrime,
perfino quando
sembravano colorarsi di gioia.
Era
rimasto a fianco del Leone Incoronato mentre questo
ruggiva glorioso a tutto il popolo di Britannia la caduta del Vaticano.
Quel
giorno, l’uniforme non pesava come un sudario sulle sue
spalle. La sentiva
leggera, fiera e splendente: avevano combattuto, avevano vinto, stavano
per partire
verso una dimensione libera dalla dittatura. Si aspettava applausi ed
entusiasmo.
E
li aveva avuti. Ma non totali come aveva sperato.
I
giovani, le famiglie e i forti avevano esultato, lanciando
cappelli e fiori in aria; gli avevano ricordato le feste su Faerie.
Ma
poi era giunto il momento degli anziani.
Il
loro portavoce era un vecchio curvo e nodoso come un
salice piangente, aggrappato a un bastone che svettava sopra la sua
testa
piegata.
«Noi
resteremo, sire.»
La
voce dell’anziano scricchiolava come le foglie autunnali
sotto le suole delle scarpe. Arthur pensò di aver capito
male, ma il vecchio
seguitò nella sua cigolante arringa.
«Siamo
troppo avanti con l’età per pensare di imbarcarci
in
un simile viaggio. La fatica potrebbe ucciderci. E, anche se
sopravvivessimo,
non ci resta molto da vivere. Vi rallenteremo, e ruberemo il cibo ai
giovani,
che hanno tutta la vita davanti a loro.»
Arthur
aveva mantenuto le spalle dritte e la voce stentorea,
anche se la sua anima era diventata sottile e fragile come un foglio di
pergamena secca.
«Cosa
state cercando di dirci?»
«Noi
non verremo» le rughe del vecchio quasi gli
sgretolarono la faccia in un sorriso incartapecorito. «Siamo
nati su questo
pianeta, mio signore. Amiamo ogni casa, ogni strada e ogni sasso. Non
trovate
che sia giusto che tutto finisca dove tutto è
iniziato?» l’anziano si
interruppe, sistemò la veste sul ventre scarno e
terminò: «Non possiamo
sopportare un viaggio così impegnativo, signore. E non
vogliamo rallentarvi.
Abbiamo aperto i nostri occhi su questo pianeta. Permetteteci di
chiuderli
qui.»
Arthur
non era riuscito a pensare a nessun pretesto per
convincerli a ripensarci: tutti quei volti solcati dal tempo lo
guardavano con
la serenità di chi ha scelto e accettato il proprio destino.
Aveva
cercato di rendere i suoi occhi insensibili come
pietre, mentre osservava le famiglie che si stringevano attorno agli
anziani,
li abbracciavano e piangevano sulle loro spalle ossute.
Erano
troppi. Troppe persone che avrebbero salutato un membro
della famiglia sapendo di lasciarlo per sempre, troppi nonni che non
avrebbero
visto crescere i propri nipotini. Avevano combattuto per proteggerli,
ma non
erano comunque riusciti a salvarli tutti.
«Non
essere triste per loro. Sii triste per noi: saremo noi
a dover ancora lottare.»
Arthur
si rialzò così bruscamente che per poco non
rovesciò
lo scranno di legno. Il Marauder si era materializzato alle sue spalle,
senza
il minimo rumore.
Arthur
si allontanò dalla scrivania, e la fretta lo fece
quasi inciampare nei suoi stessi piedi. Doveva nascondere gli occhi
rossi a
Francis prima che cominciasse a ficcanasare come una comare.
«Non
ricordo di averti invitato a entrare» sbottò,
brusco.
«Non
l’hai fatto. Ma io so quando sono necessario.»
«Ah,
non farmi ridere! Se lo avessi saputo, non saresti
sparito per cento anni!»
Credeva
di aver spento la sua rabbia nei confronti del
Marauder, invece era ancora lì, viva e bruciante,
indissolubilmente legata
all’affetto che provava per quell’uomo.
Più si rendeva conto di amarlo, più si
arrabbiava per il suo abbandono, e più si arrabbiava,
più capiva di amarlo, in
un circolo vizioso senza fine.
Arthur
rimase voltato di spalle, passando nervosamente una
mano sulla bocca. Ormai aveva aperto il vaso di Pandora, non poteva
più tirarsi
indietro.
«Cento
anni, Francis… sapevi quanto odiassi l’amore
malato
di questa Galassia per il sangue, eppure non hai fatto niente
per…»
«Sai
che non posso interferire con il destino…»
«Non
ti ho mai chiesto di cambiare il destino per me! Ma
avresti potuto essere lì,
Francis!»
Arthur si sentì sopraffare, come se quel torrente di parole
potesse slogargli
la mascella con la sua intensità. «Ho visto
Hispaňa bruciare, mi sono gettato
nell’orrore della guerra mille volte, e tu non sei mai stato lì! Anche durante la
lotta con il Vaticano… tu eri dentro
il Palazzo di Quarzo!»
«Sei
arrabbiato perché hai dovuto lottare da solo? I
guerrieri lo fanno continuamente…»
«Ma
io non sono un
guerriero!» Arthur si strinse i gomiti con tanta
forza che le nocche
sbiancarono. Credeva di essere un contenitore di pietra, in grado di
reggere
qualunque cosa; invece aveva scoperto di essere un vaso di cristallo
che
qualcuno aveva cercato di riempire di piombo. «Che il sacro
melo mi abbia in
gloria, io sono un mago, Francis.
Un
mago che è stanco di raccogliere sangue anche quando cerca
di seminare
felicità.»
Francis
si avvicinò a lui, ma Arthur lo bruciò prima che
potesse tentare di abbracciarlo.
«Non
ci provare. Sono furioso con te. E sono nauseato da
questa dimensione.»
«Ma
forse c’è ancora qualcosa che può
rasserenarti.
Seguimi.»
Arthur
si voltò, pronto ad azzannarlo, ma Francis era
già
sulla porta, e muoveva la mano per invitarlo.
Il
Mago dell’Ovest lo seguì suo malgrado, combattendo
con
l’impulso di prenderlo a calci lungo il corridoio.
Un’ultima possibilità. Gli
avrebbe dato solo quell’ultima possibilità, prima
di mandarlo al diavolo.
Il
Marauder si fermò davanti a un muro, e vi
appoggiò le
mani sopra.
«Non
è molto carino fare i guardoni» premise.
«Ma sarà solo
per qualche istante.»
Alcuni
mattoni divennero del colore dell’aria, permettendogli
di sbirciare all’interno.
Nello
squarcio magico sulla parete si profilarono due figure
abbracciate, una stesa su un letto e l’altra seduta al suo
fianco.
Arthur
riconobbe quei due uomini: aveva curato Norge poche
ore prima, dopo che Mathias gli aveva portato una spilla e lo aveva
supplicato
in lacrime di salvarlo. L’Hellsing lo aveva aiutato a
sciogliere l’incanto
sull’orpello, e l’Asse si era aggiunto a lui nella
magia di guarigione.
Le
ferite che spaccavano l’addome del Gunsmith si erano
rimarginate in poco tempo, ma il giovane non era riuscito a
risvegliarsi subito
dal suo stato di incoscienza. Mathias non aveva lasciato il suo
capezzale
nemmeno per un istante; aveva temuto di essere l’ultima cosa
che Norge avrebbe
mai visto. Adesso voleva essere certo di essere la prima persona che
avrebbe scorto
al suo risveglio.
«Qui
non c’è dolore» sottolineò
dolcemente Francis.
«È
una goccia nell’oceano» replicò Arthur,
cercando di
indurire il cuore.
«L’oceano
è fatto di gocce» mormorò il Marauder.
«E ci sono
molte gocce piene di luce come questa. Antonio e Lovino. Il Guardiano e
l’Asse.
Noi due.»
Arthur
passò una mano sulla parete, lasciando ai due
Gunsmith la loro meritata intimità. Afferrò con
un pugno la camicia del
Marauder e lo mitragliò:
«Non
passerò attraverso questo inferno una seconda volta,
sappilo.»
Le
mani di Francis gli percorsero le gote bollenti d’ira, e
si fermarono sulle sue spalle contratte.
«Sono
stato orribile.»
«Molto
più che orribile.»
«E,
nonostante questo, continui a cercarmi.»
«Io
non ti cerco» sbuffò acre Arthur. «Sono
i nostri destini
a essere intrecciati.»
Francis
lo circondò in un abbraccio affettuoso, e il Mago
dell’Ovest rimase fermo come un tronco di albero tra le sue
braccia.
«È
finita, Arthur. La guerra cominciata trecento anni fa, la
guerra che hai tanto odiato è finita»
bisbigliò sui suoi capelli ispidi.
Il
Mago dell’Ovest sbuffò qualcosa di
incomprensibile,
allacciando stizzosamente le braccia alla vita del Marauder.
Lo
aveva quasi dimenticato.
Dietro
tutti gli orrori, nel vaso di Pandora c’era sempre la
speranza.
***
Le
vesti di Yao ricoprirono elegantemente il trono, quando
il sovrano vi si adagiò esausto.
Si
domandava se anche il Mago dell’Ovest, l’Hellsing e
tutti
gli altri stessero faticando quanto lui.
Preparare
interi pianeti al grande Esodo non era semplice.
Ringraziava gli spiriti dei suoi antenati che, ormai, le Aeronavi erano
pronte
e stipate con le poche valigie che erano consentite per ogni famiglia.
Se
avessero permesso loro di portare di più, sarebbe occorsa
una flotta di
Aeronavi solo per i bagagli. Avrebbero ricominciato da zero. E lui
avrebbe
usato tutta la magia presente nel suo corpo per aiutare il suo popolo.
Ma
non era solo stanchezza fisica, la sua. Era soprattutto
stanchezza mentale: la tensione per la guerra lo aveva sfinito, dare
l’ultimo
congedo agli anziani che preferivano morire sul pianeta che li aveva
visti
nascere lo aveva straziato, e Ivan che giaceva in stato comatoso lo
aveva
distrutto.
Tuttavia,
la sua maschera di regale serenità era rimasta
intatta. Solo i suoi occhi raccontavano una diversa realtà.
Kiku
e Young Soo avrebbero letto i veri sentimenti che si
agitavano nelle sue iridi scure, ma loro non erano più con
lui. Era tempo di
imparare a camminare senza il loro silenzioso conforto.
Fece
scorrere le dita nei capelli, sorprendendosi di nuovo
di quanto fossero corti. Doveva ancora abituarsi a quella misura, dopo
una vita
di capelli lunghi fino ai fianchi.
Un
consigliere si avvicinò, scalpicciando disordinatamente
lungo il corridoio.
«Mio
signore!» ansò quello, senza fiato. «Si
è svegliato!»
Il
suo cuore si fece di piombo e gli sprofondò nei piedi.
Risalì con molta fatica, arrivando a strisciargli persino in
gola, riempiendo
le orecchie con un battito martellante.
Le
labbra di Yao furono ferree nel pronunciare le parole che
gli fecero tremare il cuore.
«Il
Custode dei Cancelli… si è svegliato?»
«Venite,
mio signore!» lo incitò il consigliere.
«Vi conduco
da lui.»
Non
ve ne era alcun bisogno: negli ultimi giorni, Yao aveva
visitato Ivan talmente tante volte che avrebbe trovato la sua camera
perfino se
l’avessero fatto camminare bendato.
Yao
impose al consigliere di attenderlo fuori dalla porta.
Appoggiò la mano sulla parete scorrevole e
inspirò a fondo. L’uomo al di là di
quella porta aveva perduto il Cuore d’Inverno. Chi avrebbe
trovato, steso su
quel letto? Il Custode? Ivan? O uno sconosciuto?
Aprì
la porta con un movimento secco, per evitare qualunque
tipo di ripensamento.
Il
respiro si scordò di riempire i polmoni quando vide la
schiena solida dell’uomo e la chioma argentata che
raccoglievano gli ultimi
raggi del sole in tramonto. Era così abituato alla sua
figura immobile e
inerte, che perfino vederlo seduto rasentava il miracolo.
L’uomo
si voltò, sentendo la porta aprirsi.
Le
ciglia e le labbra di Yao tremarono, stupite: gli occhi
che lo fissavano dall’altra parte della stanza possedevano
l’azzurro secco dei
cieli estivi nella steppa. Non erano più due freddi gioielli
di ametista. E lo
fissavano perplessi, come se cercassero di ricavare dei suoi lineamenti
un
qualunque indizio sulla sua identità. Sul perché
il sovrano di quel paese fosse
venuto a visitarlo.
Yao
chiuse la porta dietro di sé, cercando di non palesare
il suo sconforto.
Il
cuore era di nuovo sprofondato al suolo. I ricordi del loro
tempo insieme dovevano essere evaporati assieme al ragno di zaffiro.
Per ironia
del destino, lui li avrebbe conservati per sempre, e così
avrebbero fatto i
suoi successori grazie alla memoria generazionale. Ma Ivan non si
sarebbe
ricordato nemmeno il suo nome…
«Yao?»
La
voce si increspò a metà in una domanda.
L’Asean
sollevò gli occhi onice su Ivan, allibito.
«Come
mi hai chiamato?»
L’uomo
batté le palpebre, quasi cercasse di leggere
nell’aria il nome che aveva appena detto. Poi, il suo viso fu
illuminato dai
ricordi, e la confusione fu spazzata via come gli ultimi stralci di
notte
quando vengono cancellati dalla luce dell’alba.
Si
voltò verso di lui, più sicuro, e
allargò le braccia.
«Il
mio Yao»
rimarcò, possessivo.
L’orientale
gettò alle fiamme i protocolli imperiali.
Raccolse la veste con le mani e corse verso Ivan, lanciandosi nelle sue
braccia.
Il
petto che lo accolse era caldo, era vivo. Non c’era
più
traccia della tormenta che aveva congelato il cuore del Custode per
tutta la
sua vita.
Yao
alzò il viso, e notò una piccola corona ametista
sul
bordo delle iridi cerulee. Un sottile monumento del passato.
«Come
ti senti, Ivan?» domandò, senza allontanarsi.
L’uomo
gli accarezzò i capelli, affascinato. Non aveva perso
la passione per le sue ciocche mogano, anche se più corte.
«Come
se avessi dormito per seicento anni» le parole si
affacciarono lente sulle sue labbra, quasi che Ivan fosse incerto di
ogni
sillaba. «Come se qualcun altro avesse vissuto al posto
mio.»
«Ricordi
qualcosa?»
Ivan
si bloccò, come raggelato. Quando parlò di nuovo,
le
parole attraversarono con fatica la sua lingua e si lanciarono
titubanti dalle
sue labbra.
«Le
mie sorelle. Mio nonno. Li ha uccisi il Cuore di
Inverno, prima di inchiodarsi nel mio petto. Quell’oggetto
è un vampiro: ammazza
chi non gli serve e sfrutta l’umano prescelto.»
Yao
gli accarezzò le spalle, non potendo lenire
materialmente il suo dolore.
«E
ricordo la vita come custode. Ma non mi sembra di averla
vissuta realmente: è come se l’avessi vista
attraverso un vetro. Un vetro
gelido» appoggiò gli occhi su di lui, e lo strinse
con più forza. «E poi c’eri
tu.»
Non
aggiunse altro. Che potevano aggiungere le parole,
quando lui aveva scelto Yao dal primo momento in cui lo aveva visto, lo
aveva
amato ai massimi gradi permessi dal vampiro sul suo petto ed era quasi
morto
per lui? Un’accozzaglia di lettere non sarebbe mai riuscita a
circoscrivere quell’enormità.
Essere
innamorato di Yao era stato bello perfino quando il
ragno artico gli risucchiava le emozioni, ma viverlo con il suo vero
cuore,
senza il filtro invernale del vampiro, era meraviglioso. Era come
apprezzare un
fiore inglobato nel ghiaccio e assaporarlo invece in primavera, quando
la
calotta artica non poteva camuffare il colore e il profumo del
bocciolo, o
impedirgli di ondeggiare sotto le carezze del vento.
«Ti
ho fatto aspettare a lungo» si scusò, accarezzando
la
schiena fine del sovrano.
Yao
scosse la testa, abbracciandolo con più forza. Ivan. Il
suo Ivan era vivo!
«Non
mi hai fatto aspettare» lo contraddisse garbatamente
l’Asean. «Ti ho sempre visto, dentro il Custode dei
Cancelli. Ti ho sempre
sentito lottare contro il Cuore d’Inverno.»
«Non
ti mancherà il Custode?»
Yao
si distanziò il minimo indispensabile per sentenziare,
dolcemente:
«Il
Custode era una parte di te, quella che serviva al Cuore
d’Inverno per fare il suo dovere. Ho visto il tuo lato
più gelido e spietato. E
l’ho visto diventare più umano con me. E ti vedo
ora, Ivan. E ho amato tutto
quello che ho visto. Sarebbe davvero un amore insipido se amassi solo
un lato
di te.»
Ivan
lo sollevò di slancio, in uno di quei suoi tipici
momenti di irruenza, e lo appoggiò sulle sue ginocchia.
Subito dopo, premette
una mano sul petto, contorcendo il viso in una smorfia di dolore.
«Temo
di essere ancora in convalescenza» valutò.
Yao
lo aiutò a stendersi, e lo convinse a rimanere supino
baciandolo lentamente sulla bocca.
«Riposati.
Domani mattina ci aspetta un lungo viaggio.»
Il
sovrano si distese al suo fianco, sopra le coperte, e
fece passare una mano sul petto robusto dell’uomo. Ivan lo
tenne vicino a sé
passandoli un braccio attorno alle spalle.
Le
sopracciglia argentee dell’uomo si sollevarono stupite,
osservando fuori dalla finestra.
«Credevo
che il cielo di Chugoku fosse completamente nero»
ricordò.
Il
sorriso di Yao si estese, diretto all’intreccio di stelle
che trapuntava il cielo notturno.
«Lo
dovevo a mio fratello e a mio figlio» bisbigliò.
Loro
erano in quel cielo, adesso. Meritavano un prato di
stelle, e non un oceano di pece, dove potersi allenare come facevano
nelle sale
del palazzo.
E
dove, ne era certo, lo avrebbero aspettato finché non
sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo.
***
L’odore
dell’erba scura era cresciuto forte e umido con il
calare della sera.
Lovino
stringeva la mano di Feliciano, steso sul manto
erboso assieme a lui.
Erano
passati sei, lunghissimi anni dall’ultima volta che
erano rimasti così, sereni e rilassati, a fissare il cielo.
Feliciano
non aveva più quella veste assurdamente bianca:
Lovino gli aveva prestato una camicia e un paio di pantaloni. Erano un
po’
troppo larghi per il suo gemello mingherlino, ma nulla che una robusta
cintura
non potesse risolvere.
«Mi
piacciono questi vestiti» mormorò Feliciano,
muovendo il
pollice sulle nocche del fratello.
«Non
sono alta sartoria» minimizzò Lovino.
«Hanno
il tuo odore» Feliciano lo disse serio, come se fosse
il massimo complimento possibile per un abito, e Lovino rispose con una
scrollata di spalle, imbarazzato.
I
marinai li avevano fissati sconvolti, quando erano
approdati sul ponte della Reina de la
Oscuridad; sapevano che il vice del capitano e
l’Asse erano consanguinei,
ma non si sarebbero mai aspettati una tale somiglianza.
All’inizio era facile
distinguerli: quello senza tunica bianca era il loro vice. La faccenda
si era
complicata quando Lovino aveva rivestito il suo gemello. Grazie agli
dei, il
volto del vice non perdeva mai quell’accenno di broncio, e
quello dell’Asse era
costantemente permeato da un sorriso sotterraneo. Inoltre il vice si
muoveva
come un selvaggio, mentre l’Asse sembrava danzare in
un’esposizione di
cristalli.
«Non
ci siamo ancora raccontati cosa è successo in questi
sei anni» notò pacato Feliciano.
«È
vero» confermò Lovino, gli occhi appuntati al
cielo.
«Ma
non ne sento il bisogno.»
Voltarono
la testa nello stesso momento e sorrisero nell’istante
in cui incrociarono gli occhi. Quanto gli era mancata quella sincronia
che il
padre riteneva sacrilega. Lovino sentiva una scintilla di luce
sprizzare nel
suo cuore quando vedeva il sorriso baluginare nelle iridi del fratello
perché
avevano entrambi capito a cosa stavano pensando, anche senza parlare.
«È
come quando facevamo i sogni insieme» Feliciano
giocherellò con le loro mani, facendole applaudire a
mezz’aria. «Non c’era
bisogno di chiedere; sapevamo cosa era successo.»
Lovino
annuì. Ricordava con una nostalgia acidula le
mattinate in cui si svegliavano, saltavano a sedere sul letto e
scoppiavano a
ridere, sapendo di aver sognato la stessa cosa. E ne parlavano come se
fosse
stata un’esperienza realmente vissuta insieme.
«Mi
sento allo stesso modo» bisbigliò Feliciano.
Inspirò a
fondo, e l’aria della sera gli inumidì il palato.
Non servivano le parole,
quando tutto il corpo si trasformava nella cassa armonica dei ricordi
del gemello:
sentiva le battaglie della Reina
rombargli nelle costole, l’ululato di Roma nelle orecchie, la
paura di non
rivedersi conficcata come una spina nel fegato, e il sapore asciutto
della
rabbia seccargli il palato. Ma, soprattutto, sentiva
l’affetto sconfinato del
fratello avvolgerlo come il mare durante un’immersione.
Si
voltò di nuovo in sincrono con Lovino, e sorrisero
entrambi. Sicuramente, la Mano Sinistra del Diavolo era appena
rientrata da una
breve escursione nel Palazzo di Quarzo e nei suoi lunghissimi pomeriggi
di
preghiere e purezza.
Lovino
si girò su un fianco per poter fissare il fratello
dritto negli occhi.
«Hai
davvero fatto quelle cose con… la tua guardia del
corpo?»
Feliciano
assestò un buffetto sulla fronte corrucciata del
fratello. Era bello vedere qualcuno geloso di lui in modo quasi
infantile. Se
avesse potuto, Lovino lo avrebbe messo sotto una teca di vetro e lo
avrebbe
sorvegliato giorno e notte, per mantenerlo innocente per sempre. Ma era
contento che il fratello non potesse farlo, altrimenti non avrebbe mai
potuto
correre quel bellissimo rischio di nome Ludwig.
Feliciano
attorcigliò un filo di erba con la mano libera. Si
era quasi scordato le carezze ruvide dei prati, il massaggio umido
dell’aria
notturna, e l’odore selvatico del fratello. Era fantastico
uscire nel mondo e
innamorarsi di nuovo di ogni minimo particolare.
Entrambi
i fratelli sollevarono il capo per fissare un’altra
riunione di famiglia, poco più in là. Roderich
teneva il violino tra le mani,
seduto su un sasso, gli occhi viola che andavano da Gilbert a Ludwig
con
elegante curiosità; il Guardiano ritto in piedi come un faro
in mezzo a
quell’oceano verde, l’eco di un sorriso sulle
labbra e una mano sulla spalla
dell’Hellsing, seduto sullo stesso sasso
dell’Accordatore.
Erano
troppo lontani per sentire di cosa stessero parlando,
ma non era difficile immaginarlo: avevano vissuto una lunga lontananza,
e
stavano cercando di colmarla come potevano con le parole e con piccoli
gesti di
affetto.
«È
un po’ triste» Feliciano si stese sulla pancia,
esalando
un sospiro. «Per quanto le persone si amino, non possono
costringere il tempo a
tornare indietro. Sai, il tempo è come un uomo che sparge
sale nella terra di
un altro; il proprietario potrà avere di nuovo il suo
giardino, ma solo
lavorando con cura ogni giorno» Feliciano nascose il sorriso
triste tra le
labbra incrociate: il paragone era particolarmente calzante,
considerando la
storia che Ludwig gli aveva raccontato tempo prima sul bulbo che lui e
Matthew
avevano cercato di far germogliare. I tre Hellsing stavano cercando di
ricostruire il loro giardino distrutto: avevano appena cominciato a
piantare i
semi.
Lovino
gli picchiettò una tempia.
«Non
mi hai risposto» gli ricordò, con il tono del
prete di
famiglia quando li costringeva a confessarsi settimanalmente.
Feliciano
si girò di nuovo sulla schiena, e rivolse un
sorriso compiaciuto al fratello.
«Siamo
innamorati. Come te e il capitano.»
La
bocca di Lovino disegnò un “o”
indignato, e si richiuse
in uno sbuffo soffocato. Non era riuscito a negarlo con il Figlio del
Cielo,
che possibilità poteva avere con suo fratello?
«Mi
è stato vicino in questi anni» tagliò
corto.
«Come
Ludwig.»
Una
risata sferragliante gli ruzzolò tra le labbra strette.
Si augurava vivamente che quella montagna bionda non avesse fatto tutto quello che il capitano aveva fatto
a lui, o avrebbe ordinato a Roma di inseguirlo per tutta la
Confederazione.
Feliciano
era l’unica persona in grado di pungolarlo con gli
occhi: gli bastava uno sguardo obliquo con le iridi sfavillanti di
aspettativa
per convincerlo a sbottonare la lingua.
«Non
ce l’avrei fatta, senza di lui.»
«Come
Ludwig.»
«Non
è come quel… crucco!»
«Crucco?»
gli fece eco Feliciano, il tintinnio di una risata
in quell’interrogativo. «Non esiste, come
parola.»
«Gli
calza a pennello.»
«Non
puoi inventarti parole a caso, Lovino.»
«Posso,
se nessuno si è mai preso la briga di inventarsene
una che potesse descrivere quel crucco!»
Feliciano
si arrese con una scrollata di spalle e un
sorriso.
«Il
loro pianeta di origine è stato distrutto, hanno perso
la loro famiglia, sono cresciuti soli e si sono innamorati di un
Vargas… sono
incredibilmente simili, non trovi?»
«Io
non sono più un Vargas»
s’incaponì Lovino.
«Allora
non sei mio fratello?»
«Se
anche dovessero dividerci, sarei nel tuo sangue, nei
tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Non ricordi?»
Un
brivido scese lungo la schiena di entrambi: nessuno dei due
aveva scordato le ultime parole che si erano scambiati sei anni prima,
sul
letto della Villa Vaticana.
«Essere
fratelli non ha niente a che fare con il cognome»
Lovino afferrò la mano di Feliciano e la strinse con forza.
«Ho gettato via i
Vargas perché i Vargas hanno gettato via me. Ma non
smetterò mai di essere tuo
fratello.»
Lovino
incrociò le braccia e increspò le labbra in una
buffa
smorfia.
«E,
comunque, non sono simili. Antonio è più
bello.»
«Potrei
smentirti.»
«Non
hai gusto estetico.»
«Sarebbe
tragico se considerassi più bello il tuo uomo del
mio, non trovi?»
Il
respiro gli uscì dalla bocca contratta in una stramba
pernacchia. Odiava non poter replicare. C’erano tre persone,
in tutta la
Confederazione, in grado di zittirlo: il Figlio del Cielo, la cui
memoria
generazionale e alterigia nobiliare mettevano a tacere chiunque; suo
fratello,
che lo acquietava con una logica affettuosa; e Antonio, che
semplicemente gli
toglieva il respiro.
«Antonio
è oggettivamente
più bello» la sua voce scese di
un’ottava, impantanandosi in una lacrima
trattenuta. «E non ha più una famiglia cui fare
ritorno come Ludwig. O come
noi. Non gli è rimasto nemmeno un brandello.»
Feliciano
si sollevò a sedere e abbracciò le ginocchia
contro il petto.
«C’è
una legge che governa l’universo, Lovino. Sai qual
è?»
le stelle intarsiarono una rete di luccichii argentei nelle sue iridi
ramate
quando Feliciano sollevò gli occhi al cielo.
«Tutto ciò che si distrugge, può
essere ricostruito.»
«Ne
conosco un’altra, Feliciano. I morti non ritornano in
vita.»
«Ma
le famiglie si possono ricostruire» il giovane
rovesciò
delicatamente la testa all’indietro, fissando il gemello.
«Tu puoi essere la
sua nuova famiglia. Anzi, ora che ci penso, è
impossibile.»
«Perché?»
scattò Lovino.
«Perché
lo sei già» Feliciano gli sorrise con tutto il
cuore. «Non puoi diventare la sua famiglia se sei
già la sua famiglia, no?»
«Non
sono un suo parente» fu la replica incoerente di
Lovino.
«Non
è una questione di cognome, l’hai detto
tu» Feliciano
aveva un modo dolce di ritorcere le parole contro il loro primo
utilizzatore,
come un pasticcere che nascondeva una punta di peperoncino nella crema:
c’era
tutto il tempo di assaporare lo zucchero prima di scottarsi la lingua
col
piccante.
Lovino
si toccò il collo, vicino alla nuca. La cicatrice a
forma di croce era ancora lì. Forse era tempo di sostituirla
con qualche altro
simbolo.
Il
giovane si alzò, e il gemello non lo fermò:
sapeva dove e
da chi stava andando. E sapeva anche che, finalmente, erano liberi e
pieni di
tempo da trascorrere insieme: avrebbe passato altri giorni e altre
notti
insieme al fratello.
«Lovino»
lo richiamò, dopo qualche passo.
«Guarda.»
Il
giovane sollevò lo sguardo sulla volta celeste.
Si
sentì improvvisamente piccolo e inutile, come una formica
messa di fronte a una montagna.
L’universo
si stava sciogliendo in un intarsio di spirali di
luce. Pareva che una serie di uragani avessero risucchiato uno sciame
di
fulmini: serpenti di luce saettavano tracciando cerchi nervosi,
dipingendo un
quadro astratto di luci e ombre nella trama dell’universo.
I
gemelli rimasero immobili, Lovino ancora in piedi e
Feliciano seduto, a fissare il cielo che si sgretolava in un gomitolo
disordinato di saette.
«Il
Confine sta cedendo» soffiò Lovino.
L’Asse non occupava
più il suo posto, e il muro che li divideva dai demoni stava
lentamente andando
in frantumi.
«È
la fine» concordò sereno Feliciano.
«Pensavo che avrei
avuto paura. Invece è semplicemente…
bello.»
Lovino
annuì, attonito.
Il
giorno dopo sarebbero salpati alla volta di una nuova
dimensione. Non sapevano cosa li attendesse al di là di quel
salto. Ma
sarebbero stati insieme, finalmente.
Era
la solitudine a spaventarli, non l’ignoto. L’ignoto
poteva essere esplorato, quando c’erano più di due
occhi a esaminarlo.
«È
straordinario» esalò, mentre un altro pezzo di
universo
si sfaldava in un roveto di saette.
«Ne
valeva la pena, Lovino» la mano del fratello strinse la
sua, e le labbra di Feliciano si poggiarono sulle sue nocche.
«Per te. Per
Ludwig. Per tutte le persone che avranno il coraggio di salpare con
noi.»
Lovino
si piegò sulle ginocchia per poter abbracciare il
gemello. Feliciano aveva ragione: ne era valsa la pena. Tutti i rischi
che
avevano corso e che ancora si stendevano davanti a loro sparivano se
poteva
stringere il fratello tra le braccia.
«Vai»
lo incitò dolcemente Feliciano, quando si staccarono.
«C’è un capitano molto solo che ti
aspetta.»
Feliciano
rimase qualche secondo a fissare il fratello che
si allontanava. I serpenti di luce spezzavano ombre guizzanti sulla
schiena del
gemello, e disseminavano manciate di riflessi argentei nella chioma di
rame.
La
sua figura di spalle non era straziante come quando la
vedeva nei suoi sogni. Al contrario dei suoi incubi, se lo avesse
chiamato,
Lovino si sarebbe voltato e, se avesse teso le braccia, sarebbe corso
ad
abbracciarlo.
Si
alzò in piedi a sua volta, e si girò verso gli
Hellsing.
Ludwig gli fece cenno di avvicinarsi, e Feliciano fu lesto a portarsi
al suo
fianco.
Roderich
chinò il capo, una punta di vergogna a intorbidare
la sua glaciale raffinatezza: l’ultima volta che aveva visto
l’Asse, era ancora
lo spietato Accordatore. E non aveva idea che il Guardiano potesse
essere il
suo secondo figlio. Nonché l’amante del mago
più potente della Galassia.
Ovviamente,
tutti lo conoscevano come Asse, ma il giovane
non vedeva l’ora di spogliarsi di quel titolo ingombrante
come aveva fatto di
quelle vesti troppo candide.
La
faccia di Gilbert si aprì in un ghigno da galera quando
il ragazzo si presentò:
«Sono
Feliciano. Feliciano Belial.»
«Questo
tipo ha capito tutto» si complimentò Gilbert,
battendo una pacca cameratesca sul braccio nerboruto di Ludwig, lieto
che il
cognome da lui creato avesse tanto successo. «Belial
è un bel cognome. Scelto
con cura da una persona meravigliosa.»
Feliciano
si sedette per terra e invitò Ludwig a fare lo
stesso. Rimase appoggiato alla spalla del suo Guardiano, il braccio
forte del giovane
stretto sulla sua vita, mentre i tre Hellsing si scambiavano ricordi e
aneddoti.
La
felicità aveva un gusto più semplice di quanto si
potesse
immaginare: sapeva di famiglia, di baite in riva ai laghi e sonate di
violino.
Feliciano
socchiuse gli occhi, rigirandosi quella sensazione
sulla lingua.
Era
tutto lì, in quel sapore casereccio. Il motivo per cui
avevano lottato.
Quel
sapore ne valeva la pena.
***
Non
li aveva visti.
Non
aveva voluto
vederli.
Appena
i fantasmi avevano fatto la loro apparizione nell’utero
di pietra, aveva chiuso gli occhi. Non voleva vedere i suoi genitori.
Aveva
mille bei ricordi di loro; non gli serviva una loro
immagine come spettri carichi di vendetta.
Emise
un sospiro flebile e lungo, nella penombra delle tende
di fortuna che avevano allestito di fianco al cantiere aeronavale.
Gilbert
aveva ritrovato una parte della sua famiglia. Chissà
che effetto faceva, ricongiungersi al proprio padre e al proprio
fratello dopo
tanto tempo. Doveva essere qualcosa di avvolgente, quasi schiacciante,
come
quando ci si tuffava in profondità troppo elevate. E bello
come le parole non
erano in grado di descrivere.
L’espressione
che aveva attraversato il volto di Lovino
quando aveva trovato Feliciano era qualcosa che aveva visto solo nelle
Chiese
Vaticane, sui volti degli angeli affrescati. Li aveva visti
perché era entrato
per rubare i tesori, non per recitare una preghiera come ogni fedele
timorato.
Era
stato belle assistere a quegli incontri. Bello, ma con
una punta di invidia, perché a lui non sarebbe mai successo.
Allargò
immediatamente le braccia quando uno scalpiccio di
passi ben conosciuti si fece strada nella tenda, e il corpo di Lovino
si sagomò
contro il suo l’istante successivo.
«Credevo
che fossi con tuo fratello» lo accolse, accarezzandogli
la schiena.
«Non
potevo lasciarti solo come un cane» il barbuglio del
giovane gli solleticò il petto, e Antonio gli
scompigliò con dolcezza i capelli
ramati. «Tu non… non hai più una
famiglia.»
Le
braccia del capitano si immobilizzarono, strette sulla
sua vita magra.
Il
puzzo della sua casa che bruciava gli pizzicò nuovamente
le narici, e l’uomo dovette scuotere il capo per scacciarlo.
«E
quindi?» domandò, senza capire perché
Lovino avesse
voluto sollevare quell’argomento caustico.
La
sua mano destra venne afferrata da quella del giovane,
fatta scivolare lungo il fianco per poi essere condotta in alto,
attraversando
il petto fino ad approdare al collo. I polpastrelli del capitano
saggiarono la
cicatrice a forma di croce, frastagliata e in rilievo rispetto al resto
della
pelle.
Sentì
Lovino prendere fiato e farlo uscire in un respiro
tremulo, tipico di quando voleva dire qualcosa, ma una micidiale
combinazione
di orgoglio e vergogna gli impediva di esprimersi.
«Non
sono una donna.»
«È
abbastanza ovvio» la penombra gli impedì di
schivare la
testata, diretta al suo mento.
«Non
mi interrompere!» sbottò Lovino, accecato
dall’imbarazzo. «Quindi non… non puoi
avere una famiglia, con me.»
«Lovino,
abbiamo già affrontato questo…»
riuscì a deviare la
seconda testata, e il ragazzo si vendicò sferrandogli un
colpo allo stomaco.
«Ti
ho detto di non interrompere!» Lovino era quasi
fluorescente nella penombra, tanto erano diventate paonazze le sue
guance. Il
giovane prese un altro respiro, bloccato dall’orgoglio che
veniva ingoiato.
«Non…
non posso portare anelli o sciocchezze simili»
riuscì
a brontolare, alla fine.
Antonio
non capì subito cosa intendesse dire. Impiegò
qualche secondo per ricordarsi che quella croce in rilievo, un tempo,
era stata
il simbolo dell’appartenenza alla famiglia
Vaticana… e ora era diventata uno
spazio vuoto per un nuovo marchio.
«Lovino»
il capitano si avvicinò per parlare a un soffio
dalle sue labbra. «Vuoi diventare un Carriedo?»
«Belial Carriedo»
precisò piccato lui, allontanandosi con il viso.
Le
dita del capitano tracciarono cerchi pensosi sul suo
collo.
«Ma
io non ho nessun marchio da metterti» rifletté,
sornione, come un gatto che gioca con un topolino che tiene tra le
zampe.
«L’unico che potrei avere…»
Lovino
si dimenò come una lince selvatica tra le sue braccia
mentre lo faceva voltare. Antonio gli afferrò con forza la
nuca, per evitare
un’eventuale testata sul naso, mentre schiudeva le labbra sul
suo collo.
Le
mani di Lovino gli artigliarono la camicia, e un ansito
sorpreso sfuggì alle labbra orgogliose. Antonio
ghignò, ultimando il lavoro: se
avesse saputo prima che quello era un suo punto sensibile, lo avrebbe
stimolato
molto tempo prima.
Un
fiore scarlatto si apriva al centro di quella croce
biancastra. Pareva quasi un’icona pagana.
«Sparirà
entro pochi giorni, idiota!» Lovino cercò di
assestargli una gomitata alle costole, ma Antonio lo
abbracciò così forte da impedirgli
qualunque mossa azzardata.
«Te
lo rifarò finché non mi verrà in mente
un simbolo adatto
da tatuarti» contrattò il capitano.
«Non
posso girare con un succhiotto per tutta la vita!»
scalciò il ragazzo.
«Non
ho detto per tutta la vita, solo finché non mi
verrà in
mente un bel tatuaggio» rimarcò Antonio.
«Allora
datti una mossa a pensarci!»
«Mi
è difficile pensare.»
«Non
è una novità!»
«Intendo
dire che mi è difficile mentre siamo soli.»
Lovino
si immobilizzò per un attimo, prima di insultarlo di
nuovo.
«Maniaco…»
ma proferì l’improperio con un tono di voce
così sommesso
da cancellare quasi del tutto la vena di rabbia.
Le
dita del capitano gli fecero voltare lentamente il viso,
finché non fu a portata di bacio. Lovino si voltò
nel suo abbraccio, per
potersi arrampicare su di lui e spingersi più a fondo nella
sua bocca.
Una
mano di Antonio scivolò piano verso il basso, passeggiando
oziosamente sulla cintura prima di scavalcarla e pizzicare la
biancheria del
giovane.
«Antonio!
Tirati su le braghe e vieni fuori!»
Adorava
Gilbert, gli voleva davvero un mondo di bene. Ma, in
quel momento, avrebbe voluto sparargli.
Lovino
si allontanò da lui con una spinta e sfregò con
foga
le labbra sulla manica, quasi temesse che la bocca di Antonio avesse
lasciato
una traccia indelebile su di esse.
Il
capitano uscì, senza riuscire a dissimulare il suo
malcontento.
«Spero
che sia una questione di vita o di morte»
minacciò,
uscendo un secondo prima di Lovino.
«Oh»
notò Gilbert, malizioso. «Allora
l’avvertimento sulle
braghe era lungimirante.»
«Cuciti
la bocca, crucco»
tagliò corto Lovino.
«Crucco?»
gli fece eco Gilbert.
«A
mio fratello piace inventare nuove parole»
minimizzò
Feliciano.
«Per
cosa siamo stati chiamati?» domandò sbrigativo
Antonio.
Roderich
sfoderò il violino e lo posizionò sotto il mento
con eleganza.
«Non
abbiamo ancora reso omaggio a tutti coloro che sono
caduti prima di vedere questo giorno» presentò il
musicista. «Questa canzone è
per loro.»
Gilbert
sorrise, sentendo le prime note diffondersi
nell’aria. “Non sei solo”. La sua
ninna-nanna.
Lo
sparuto pubblico si strinse in un abbraccio
attorcigliato: Antonio avvolse le braccia attorno alla vita di Lovino,
che
poggiò una mano sui polsi incrociati dell’uomo e
porse l’altra al fratello.
Feliciano intrecciò le dita a quelle del gemello, e sorrise
quando il palmo di
Ludwig si appoggiò sul suo fianco. Il Guardiano
allungò il braccio libero,
appoggiandolo sulle spalle di Gilbert, che gli batté alcune
pacche guerresche
in mezzo alle scapole.
Un
silenzio contemplativo colò gentilmente sulla piccola
assemblea, mentre l’archetto scivolava sulle corde.
Le
note parvero gonfiarsi, riempiendo dolcemente tutto lo
spazio circostante. La musica cullò i cuori nei loro petti,
e volò verso
l’alto, dove perfino gli angeli l’avrebbero udita.
Ognuno,
in quella melodia, rivide scene diverse.
Gilbert
vide un viso biondo con un paio di occhiali e un
sorriso goffo.
Ludwig
sentì il gelo di un laghetto di fianco alla sola
baita nella tundra brulla.
Antonio
udì le voci dei suoi genitori rimbombare nei
corridoi della sua memoria.
Feliciano
vide suo padre, quando ancora si ricordava come si
faceva a sorridere.
Lovino
avvertì la morbidezza del letto nella Villa Vaticana,
da cui fissava il cielo con il fratello.
Roderich
continuò a suonare, finché perfino le stelle non
si
voltarono per ascoltare la sua melodia.
La
stavano sentendo anche i combattenti incorporei che li
avevano aiutati in quella guerra.
Poteva
quasi vederli, affacciati dai loro seggi di nuvole.
E,
tra loro, poteva scorgere con particolare chiarezza una
donna fiera, dai lunghi capelli castani.
Una
guerriera che sorrideva solo per lui.
Più
di dieci
giorni senza wi-fi.
PIU’
DI DIECI
GIORNI SENZA WI-FI E CON IL CAPITOLO PRONTO DA POSTARE!!!! AVEVO VOGLIA
DI
MANGIARMI LE MANI!!!!
Cooooomunque….
Eccoci qui gente, al terz’ultimo capitolo! Ebbene
sì, ancora due capitoli e
Caleidoscopio sarà concluso ç_ç Mi
viene da piangere, come quando ho scritto la
fine di Rosario Cuentas çAç
Questa
storia mi
ha coccolata per un anno circa, e spero abbia tenuto buona compagnia
anche a
voi<3e, se l’ha fatto, spero seguirete anche gli
spin-off<3
Pensavo
di
cominciare dalla saga degli Hellsing, con il piccolo Gilbert e un
Roderich non
del tutto certo di voler allevare quello sgorbietto. Mi sono segnata
tutte le
vostre richieste su un foglio di word *_* Le elenco di seguito, se ne
aveste
qualcuna che volete aggiungere siete liberi di chiedere<3
(l’ordine è
casuale<3)
1)
Breve
divagazione sul “prima di Caleidoscopio”
HELLSING
1)
PruCan
e piccolo Ludwig (i giorni felici prima che l’autrice sadica
uccidesse il
povero Matthew)
2)
Elizabeta,
Roderich e Gilbert bambino
3)
Gunsmith:
come si è formato il loro gruppo e le varie coppie
REINA
DE LA
OSCURIDAD
1)
Profferte
fatte a Lovino da parte della ciurma (ebbene sì, qualcuno di
voi ha chiesto
anche questo<3)
2)
Come
Lovino è diventato Mano Sinistra del Diavolo
ALTRO
1)
Lovino
e Feliciano da piccoli:
se Lovino
anche in questa fic ama e invidia allo stesso tempo Felì,
come hanno preso
consapevolezza dei loro poteri e carica, il loro rapporto di gemelli
ecc.
2)
Kiku
e Heracles nell’orfanotrofio
3)
Heracles;
qualcosa sulla sua infanzia
4)
Giornata
tipo di Alfred prima della morte di Matt, una volta diventato Aquila e
Stella
Polare
5)
Formazione
stella polare
6)
Arthur
e i suoi cento anni da solo; Francis e cosa ha fatto in quei cento anni
7)
Bad
Touch Trio; qualche avventura che ha cementato l’amicizia,
come si sono aiutati
tra di loro quando Antonio e Gilbert hanno perso le loro famiglie, la
reazione
di Francis e Antonio quando Gilbert è stato catturato, cosa
ha provato Antonio
quando anche Francis è stato incatenato
8)
Come
sono finiti gli Hellsing e i Carriedo
Wow,
un bell’elenco direi XD<3
Se
vi viene in mente altro, prego<3 Non c’è
limite alla fantasia, qui<3
Ciò
detto vi saluto e, se il wi-fi mi assiste,
avrete presto mie notizie<3
Anche
per la futura fanfic su Hetalia, dopo o
contemporanea agli spin-off<3
Red