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Autore: lulida    31/10/2014    6 recensioni
Alla fine... di tutto il percorso emotivo che lo aveva portato fin là, non era rimasto nulla: quella l'unica verità.
Gli unici superstiti, di un intero e infruttuoso pomeriggio di riflessione, erano i frammenti immateriali del suo coinvolgimento emotivo e dove risiedeva la ragione o il torto, aveva poca importanza in definitiva; l'amore, aveva preso il sopravvento su ogni cosa, anche sulla sua incapacità cronica d'assumersi le proprie responsabilità.
Non voleva e non poteva accettare che stessero andando a pezzi e che lui, fosse divenuto improvvisamente, l'elemento da escludere...
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Perfect Weapon



Sveglia di notte, ti concentri su qualcuno che ti ha ferito,
Dopo scrivi una lista di bersagli.
La tua violenza manca di virtù...

 ... Ecco la tua arma perfetta,
Spezzi le ossa con una cieca aggressione,
Come gli uccelli le cui ali sono rotte, tu vivi senza direzione.

                                                                                                [BLACK VEIL BRIDES]




Non era rimasto niente del percorso emotivo durato un intero pomeriggio: quella l'unica realtà.
Sbollita la rabbia si trovava al punto di partenza. Senza soluzioni, senza sapere chi avesse ragione o torto, con la sola certezza che l'amore superava tutto, persino la sua incapacità cronica ad assumersi le responsabilità.
Inutile nascondersi dietro un dito come aveva fatto fino a quel momento, non poteva incolpare altri che se stesso se stava perdendo Jen e Sally.
Inutile cercare delle scuse, in fondo era consapevole che non ce ne erano.
Da quando Jen lo aveva rimproverato, minacciando di farlo uscire per sempre dalle loro vite, s'era reso conto di quanto gli fossero necessarie.
Poco importava che Sally non era sua figlia, non biologicamente almeno: l'amava come lo fosse stata. Non contava neppure che con Jen le incomprensioni erano all'ordine del giorno; non riusciva comunque a gettarsi tutto alle spalle.
Se anche nella discussione aveva cercato di far valere inutilmente le sue ragioni, e con orgoglio offeso se n'era andato sbattendo la porta, adesso, lontano da tutto e da tutti, prendeva lentamente consapevolezza di essere con le spalle al muro.
Messo di fronte alle sue inadempienze si era sentito patetico: troppo legato a loro per essere libero, troppo libero per sentirsi davvero legato.
Racchiuso in due stati emotivi, in un misto di timore e sfida, e con un umiliante senso di sconfitta, si era rintanato nel parco sulla collina a leccarsi le ferite.
La zona alberata non lontana dalle abitazioni, si era dimostrata più che adeguata al suo desiderio di silenzio assoluto; fino ad allora nessuno lo aveva importunato, e in gran parte era certo dovesse ringraziare la stagione.
Nonostante avesse smesso di piovere nel primo pomeriggio l'aria gravava ancora d'umidità, rivoli sospesi grondavano dalle foglie appena il vento le scuoteva, e una spessa foschia nascondeva il terreno e la bassa vegetazione intrisi d'acqua.
Non era certo il tempo ideale per starsene in giro.
“Meglio rientrare” pensò Shan.
Si alzò dalla panchina dove era seduto, e fece un breve sospiro con occhi fissi all'orizzonte, dove la luce stava sparendo in fretta dietro le nubi.
Il tramonto era sempre stato per lui il momento più solitario e triste della giornata, spesso lo portava a ripercorrere con la mente il quadro generale della sua vita, e non voleva che l'inquietudine di quella sera gli parlasse dei troppi fallimenti sentimentali, delle radici profonde che avevano i suoi problemi a vivere l'interiorità e la completezza che una relazione richiedeva.
Trovava inutile interrogarsi adesso sul passato, presente e futuro, perché non c’era ricordo che non sarebbe stato travisato dal momento che stava vivendo, non ci sarebbe stata azione che non avrebbe risentito delle sue paure, e speranza che non sarebbe stata resa precaria dalla sua pigrizia e dal quieto vivere.
Imboccò il sentiero che lo avrebbe riportato verso casa, e senza fare caso al vento gelido che gli sferzava il viso, scese la collina a un'andatura poco più che sostenuta di un lento trascinarsi.
Immerso nei pensieri com'era, non prestò attenzione all'ombra che si muoveva furtiva a lato del viale che aveva appena imboccato. Perché mai avrebbe dovuto? Si trovava a pochi passi da casa; un luogo familiare e sicuro.
Soltanto quando un fruscio proveniente da una siepe lo fece sussultare, sembrò rendersi conto che si trovava in un luogo isolato e buio, in una situazione potenzialmente pericolosa.
Per alcuni minuti rimase in ascolto ma il suono non si ripeté, e alla fine pensò d'esserselo sognato.
Il buio tutto intorno comunque rimaneva, l'isolamento era concreto, e questo lo convinse ad allungare il passo.
Altro rumore.
Si voltò di scatto, ma ancora una volta non riuscì a individuare niente nell'oscurità.
Attribuendolo a un cane randagio o a un gatto che probabilmente cercava riparo per la notte, fece un sorrisetto riluttante, e riprese a camminare non preoccupandosene oltre.
Massaggiò il braccio che aveva preso a fargli male: una vecchia caduta dalla moto gli aveva regalato quel malanno che lo bloccava come una catena, e che spesso tornava a farsi sentire.
Nuovo rumore.
Stavolta più vicino, più forte, durevole.
Indubbiamente non era solo. Indubbiamente chiunque fosse a nascondersi non era spinto da buone intenzioni.
Una scarica di adrenalina pompò nel corpo di Shannon: i sensi allertati, le orecchie tese, gli occhi insistenti nell’oscurità compatta, il petto che per la tensione crescente si alzava e abbassava a un ritmo più elevato.
Velocizzò ulteriormente il passo per arrivare alla zona illuminata, e questo costrinse l'ombra dietro i cespugli a procedere meno cautamente, a non curarsi più degli scricchiolii sinistri che producevano i rami secchi a ogni suo movimento.
Shan era pronto ad affrontare gli eventi qualunque essi fossero, e nel silenzio persino il proprio respiro gli sembrò un ruggito selvaggio.
Era un leopardo in attesa.
E l'attesa finì.
L'ombra uscì dal suo riparo, e puntando la pistola contro di lui gli ordinò di fermarsi.
Shannon in un primo momento si limitò a studiare il suo avversario attentamente: sotto quella cappa nera, il cappello di lana calcato fino agli occhi, la sciarpa che lo copriva fin sopra il naso, c'era un piccoletto molto nervoso e che sembrava incapace di far male a una mosca.
In vita sua aveva avuto sufficienti conoscenze dirette con delinquenti della peggiore razza, per saperne distinguere uno quando lo incontrava, e non ci voleva un genio per capire immediatamente che quello era un ladro di galline.
«Dammi l'orologio e il portafoglio» - lo minacciò brandendo l'arma con tanta forza da far divenire le nocche bianche.
Stava scherzando? Il suo Rolex d'oro?
«Togliti di mezzo mostriciattolo» - rispose ostentando sicurezza.
Avanzò con passo fermo al centro della strada, continuando a tenere d'occhio la pistola: unica cosa che comprometteva seriamente la sua sicurezza, seppure iniziava a dubitare persino che fosse carica.
Un sorriso freddo gli curvò le labbra, quando in una conferma ai suoi sospetti, lo vide tremare.
Avanzò ancora di un passo.
«Ora basta» - strillò il ladro con voce acuta - «Dammi il portafoglio e quel maledetto orologio. Non vorrai rischiare di prendere un proiettile in testa per fare l'eroe».
Shannon non poté evitare di ridere sentendo quella vocina: «Sto per essere rapinato da un marmocchio?».
«Sono abbastanza grande da poter premere il grilletto» - minacciò l'altro.
Sopra le loro teste le nubi si aprirono e filtrò una luce ferale che illuminò il paesaggio intorno.
La gelida brezza agitò la giacca di Shan, mentre continuava ad avanzare verso quello che ormai era certo, fosse solo un ragazzino impaurito.
«Avrai anche l'età per poter premere il grilletto, ma è molto diverso dal riuscire a farlo davvero. Non vorrai uccidere sul serio qualcuno, vero?».
«Sta indietro».
Shannon fece un altro passo in avanti, così vicino da poter vedere gli occhi scuri terrorizzati del ragazzo.
«Vedi?» - disse afferrando il revolver per la canna - «Se tu avessi voluto davvero spararmi a quest'ora l'avresti fatto. Ora sarei a terra e tu staresti a frugarmi nelle tasche».
Il ragazzino strizzò con forza gli occhi, combattuto.
Un'improvvisa esplosione squarciò l'aria, mentre senza alcun preavviso il delinquente fece esattamente quello che aveva minacciato.
Nei minuti agghiaccianti che seguirono, il suono che Shan sentì di più fu quello del suo stesso respiro che si faceva strada dai polmoni alla bocca con sempre maggiore fatica.
Sentì man mano il dolore dopo l'impatto divenire insopportabile, affondargli nell'anima per afferrargli la vita calda che pulsava dentro di lui.
Fissò con una domanda inespressa il foro nero della canna, fino a identificarsi nell'immobilità dell'arma, pietrificato nel pensiero, nel moto cardiaco, nelle reazioni; abbandonandosi all'incubo che tutto potesse finire in quell'istante, alla paura di morire prima di vivere la vita che desiderava, di perdere una figlia, una donna con cui aveva sprecato tempo a litigare; la paura di aver sbagliato tutto e non avere modo di rimediare.
Poi il mondo all'improvviso sembrò vorticare, non esistere più: c'era solo quel dolore bruciante e il proiettile che lo aveva provocato.
Indietreggiò di un passo tremando.
L’aria fredda della notte entrò nei polmoni raggelandoli dolorosamente, fin quando il silenzio totale prese il posto di quella successione delirante di respiri.
La buona notizia era che se avvertiva dolore e si trovava ancora in piedi, il colpo non era andato completamente a segno.
Al momento della deflagrazione, la mano che teneva sulla canna della piccola taurus aveva deviato la traiettoria del proiettile, e penetrato accidentalmente nel braccio: il solito braccio dolorante.
C'era una ripetizione sistematica anche nella casualità a quanto sembrava.
Consapevole di quello che aveva rischiato, furioso con se stesso, con il ladruncolo, accecato dal dolore; con tutta la forza residua rimasta gli sferrò un colpo brutale con il dorso della mano.
Il ragazzino volò un paio di metri più in là, e atterrato sul ciglio della strada si mise a piagnucolare come una donnetta.
Premendosi sulla ferita per arginare il sangue che usciva copioso, Shannon diede un calcio ben assestato sulla pistola fumante che finì lontana tra i cespugli, e si avvicinò al marmocchio deciso a dargliene di santa ragione.
Con il braccio illeso lo afferrò per il cappello che immediatamente scivolò via liberando una cascata di capelli neri, lunghi fino le spalle.
Shan non riusciva a credere ai suoi occhi: era una donna.
Una donna incredibilmente bella.
Illuminata appena dalla luce del lampione la sua pelle appariva perfetta come la superficie di una perla, gli occhi scuri circondati da folte ciglia erano profondi come una voragine, e le labbra tremanti di pianto, piene, invitanti.
Con lacrime che cadevano a fiumi si rivolse a lui con un mugolio supplichevole: «Non consegnarmi alla polizia».
Shannon contro ogni logica la osservò combattuto: era una ladra, una potenziale assassina, e l'ultima cosa stupida da fare era quella di lasciarla andare; ma quando mai le sue scelte erano state dettate dalla ragione? Eppure quella volta sentiva che c’era un senso.
Difficile guardarla e non ricordare come era stato lui molti anni prima.
Impossibile non pensare al destino della ragazza come a una bomba a orologeria che lui poteva disinnescare, o far esplodere a seconda della sua scelta. Tagliare il filo giusto le regalava una nuova opportunità, quello sbagliato la mandava in prigione uccidendo tutte le speranze.
Darle una possibilità era darne anche al se stesso di allora, a due esseri in cerca della strada giusta da percorrere e che nel fra tempo si erano persi.
Lui ce l'aveva fatta, e per questo motivo sentiva, a torto o a ragione, di doverle qualcosa.
«Alzati!» - le ordinò - «Ho bisogno di aiuto per fermare il sangue e disinfettare la ferita».
La ragazza immobile, lo guardò incredula.
«Preferisci vada al pronto soccorso e che sia costretto a denunciarti?» - continuò Shan serrando le labbra, e non provando neppure a nascondere l'astio bruciante che provava.
Lei scosse la testa.
«Allora alzati e aiutami!».
C'era qualcosa nello sguardo di lui che la spinse a obbedire senza fiatare, che l'avvertiva di non provare neppure a fuggire.
Con il cuore in gola ubbidì.
Lo fasciò con la sua sciarpa per creare pressione intorno la ferita e gli offrì la spalla per sostenerlo durante il tragitto.
Dieci minuti dopo entrarono nella cucina, e Shannon con le poche forze rimaste le indicò il tavolo dove lei lo aiutò a distendersi.
Intanto che strappava la giacca e la camicia per liberare l'arto ferito si guardò intorno: «Sei molto ricco».
La voce della ragazza risuonava nella sua mente come un’eco lontana mentre la nausea saliva per l’esofago; strinse il braccio perché il dolore era davvero molto forte, vide una macchia rosso sangue che si allargava a impregnare la manica ormai a brandelli, formare un cerchio scuro che si estendeva sotto il suo corpo e si spandeva sul legno.
«Aspetta d'avermi aiutato e che svenga prima di fare la conta delle cose che puoi portar via. Okay ragazzina?».
Lo guardò immusonita: «Mi chiamo Katy, non ragazzina».
«Come ti pare...» - non aveva di certo voglia, né la forza di discutere - «In fondo al corridoio c'è il bagno. Prendi la cassetta del pronto soccorso, la ketamina e le siringhe» - fu scosso da brividi freddi - «Nella stanza a fianco, trovi la camera da letto, portami delle coperte. La temperatura del corpo sta scendendo velocemente».
La mente era appannata e doveva darle istruzioni prima di perdere i sensi: «Devi mettere a bollire dell'acqua per ripulire la ferita...»
Katy esitò un attimo davanti a tante informazioni dette con rapidità: «Non è la prima volta che ti sparano, vero?»
Shan alzò appena la testa: «Non fare domande; non abbiamo molto tempo. Fa solo quello che ti chiedo. Sbrigati».
Katy sparì in direzione del bagno senza aggiungere una parola. Dopo qualche secondo tornò con l'occorrente per curare la ferita, e una coperta con cui lo coprì.
«Devi bollire dell'acqua» - pronunciò in un lamento.
Lei annuì, si diresse agli sportelli alla ricerca di un recipiente che quando trovò, riempì d'acqua e posizionò sul fuoco, dopo tornò da Shannon in attesa di altre istruzioni.
Lui ricambiò lo sguardo, domandandosi quale male avesse portato quella bellissima ragazza a intraprendere un percorso tanto sbagliato.
Cercò di trovare dietro le pupille la traccia della donna e della sua vita, qualcosa che trasparisse dalla luce seducente dei suoi occhi.
Di lei conosceva solo il nome, eppure a quella creatura ammaliante, scomoda, e con una percezione di giustizia completamente sballata rispetto alla norma, stava concedendo il massimo della fiducia che un uomo potesse accordare. Gli stava affidando se stesso.
Pensò a quel primo pomeriggio, e alla sua preoccupazione allora più pressante, di non essere all’altezza di un modello prescelto, non sapeva bene da chi. Pensò a quella sera immersa in una nebbia umida mentre andava incontro a una donna che non conosceva, con la testa coperta di ciocche ribelli e umide, e una somma di emozioni legate a un passato che non era affatto passato, e di un futuro che cercava d'inventarsi, e che non sapeva se gli sarebbe stato concesso.
Erano passati pochi minuti da allora. Una vita e ritorno: perché davvero in un secondo le priorità potevano cambiare.
Non aveva tempo però in quel momento di far sedimentare le sue riflessioni, e tra tutti i pensieri che si erano fatti strada si arrampicò solo una frase, la più urgente.
«Metti i guanti e controlla il foro d'entrata».
Katy s'irrigidì, sbigottita: «Devo infilare il dito dentro la ferita?».
«Cosa ti ho detto a proposito del parlare?» - disse Shan rudemente, a un passo dallo svenire - «Fa quello che ti ho detto e basta!».
Lei strinse le labbra in una dritta linea orizzontale e gli lanciò uno sguardo di puro odio. S'infilò i guanti lasciandoli andare lungo i polsi con uno schiocco, poi con sadica soddisfazione, rigirò il dito dentro la ferita facendo urlare Shannon di dolore.
«C'è il foro d'uscita?» - domandò sofferente.
«Sembra di sì».
Lanciando un breve sguardo alla donna minuta che aveva di fronte e che lo fissava con un'espressione assassina, Shan soffocò a stento un sospiro.
«Bene» - almeno quella, era una buona notizia - «Prendi l'acqua adesso e ripuliscila dal sangue. Sbrigati».
Lei andò verso il piano cottura, interruppe l'erogazione del gas, travasò l'acqua in un recipiente e tornò nuovamente da lui.
«La pelle intorno è tutta nera. Il foro sembra un cratere» - gli disse con una certa sorpresa, non appena intravide l'entità del danno.
Un sorriso curvò le labbra di Shannon e la sua voce assunse un tono amaro: «Non hai mai sparato a nessuno a bruciapelo, non è così?».
Katy scrollò le spalle: «Non ho sparato a nessuno, mai».
A Shan sfuggì una breve risata, una senza allegria.
«Sono stato la tua prima volta. Una vergine: che onore».
Katy si morse le labbra, trattenendo a stento ciò che avrebbe voluto dirgli.
«Da quant'è che rubi?».
«L'ho fatto un paio di volte» - rispose lei apparentemente priva di qualsiasi rimorso.
Questo spiegava perché fosse tanto inesperta.
«Rubavo anch'io molto tempo fa, ma ne sono uscito in fretta, perché ci sono le conseguenze con cui alla fine devi fare i conti: prima o poi “i nodi vengono al pettine” e per scioglierli uno ad uno ci potrebbe volere tutta una vita. Ci sono sempre altre soluzioni, Katy».
Lei lo guardò per un lungo momento, forse incredula, forse incerta.
«Sbrigati adesso. Prendi la ketamina, un milligrammo e fammi l'iniezione. L'anestesia dura dieci minuti, quindi avrai poco tempo per agire. Dovrai praticare un'incisione per ripulire la ferita dal tessuto della giacca che il proiettile si è portato dietro. Disinfetta con il fenolo prima e dopo, poi prendi filo e ago da sutura, cuci la ferita, e che Dio ce la mandi buona» - fece in tempo a dire prima che Katy divenisse solo un’ombra per lui.
Ormai troppo debole per resistere oltre, con gli occhi che si chiudevano lentamente, cercava di capire cosa Katy gli stesse dicendo: vedeva le sue labbra muoversi, muta come un pesce dietro una boccia di vetro. Tutto era confuso, sfocato, finché non scomparve e divenne oscurità.
Ancora disteso sul tavolo, quasi disarticolato, così come lei lo aveva lasciato, dopo ore si sforzò di aprire gli occhi che opponevano resistenza, e uscire dal buco nero nel quale era caduto in una lotta tra questi che volevano rimanere chiusi e le forze che crescevano rapidamente, e lo richiamavano a superare la zona buia.
Li aprì un istante, poi li richiuse abbagliato dalla luce di un raggio di sole, ripeté l'operazione fin quando gli stimoli luminosi non divennero accettabili.
Il processo fu lento: avvertì da prima un formicolio, e dopo il formicolio dovette affrontare il dolore, la pelle che si tendeva sulla ferita, i muscoli tesi, e la testa che gli scoppiava.
Si alzò a sedere, e non appena ne fu in grado controllò il braccio fasciato con massima cura: la garza senza ombra di sangue rappreso lo tranquillizzò sul fatto che la ferita era stata ricucita perfettamente.
Nonostante il dolore, strinse i denti e cercò di muoverlo per controllarne la funzionalità. Tutto a posto, per fortuna.
La seconda cosa da controllare era che la casa non fosse stata svaligiata durante la notte.
Scese dal tavolo e iniziò a fare un giro d'ispezione generale, ma a una prima occhiata non sembrava mancasse niente all'appello, il che lo lasciò discretamente sorpreso.
Rimaneva da verificare lo stato del garage, e in ansia per la sua Harley, percorse il corridoio fino al piccolo accesso che consentiva di raggiungere il vano inferiore.
Scese le scale, e trovando la porta appena accostata si fermò per un istante: dei suoni confusi, percepibili chiaramente da dove si trovava, lo avvertirono che la ladra era ancora dentro.
Aprì meglio il battente che cigolò.
Dannazione! Si era ripromesso mille volte di dare l'olio ai cardini senza farlo mai.
Katy in sella alla moto, sentendo il suono stridente e acuto si voltò immediatamente in sua direzione. Accarezzando il telaio gli disse: «É bellissima».
Shannon sospirò.
La moto non era la cosa più bella su cui lui stava posando gli occhi in quel momento.
Le si avvicinò: «Grazie per non avermi ucciso o derubato mentre ero svenuto».
Katy sorrise accarezzandogli il braccio lungo la fasciatura, fino a scendere verso il polso lentamente, soprappensiero: «Grazie di non avermi fatta arrestare. Siamo pari».
Quel breve tocco scatenò in Shan una serie di brividi, piccole fitte e un'emozione che non fu più in grado di dominare.
«Non proprio», disse guardandola profondamente negli occhi.
Senza riuscire a pensare al braccio dolorante o a qualunque cosa che avesse un senso, le passò la mano dietro la nuca e l'attirò con forza contro la sua bocca.
Il bacio lo travolse come un'onda e la risacca gli prosciugò i pensieri, la volontà, il buon senso; non la lasciò andare finché non terminò il respiro, e solo allora si allontanò per riprendere fiato.
Deglutì e si trovò il suo sapore dolce arrivargli fino in gola.
«Katy» - sussurrò mentre la mano saliva sotto la maglia alla ricerca di pelle nuda.
Il tessuto si alzò rendendo visibile un tatuaggio che Shan sfiorò aggrottando le sopracciglia.
Fu un attimo, poi lei lo baciò e lui smise di farsi domande.
La fece stendere con la schiena contro il telaio della moto, e le tolse la maglia, resistendo a stento dal strapparle gli abiti di dosso.
«Katy» - quasi supplicò, mentre la mano correva sui fianchi per aprirle le cosce e farsi spazio al loro interno.
«Shannon» - sospirò lei al suo orecchio.
Era la prima volta che sentiva il suo nome pronunciato da quelle labbra: aveva un suono meraviglioso e gli procurò immediatamente un'altra scarica d'eccitazione.
Sopraffatto dalla forza devastante di una fiamma liquida che gli scorreva dentro e si intensificava, prese ad accarezzarla con più rapidità mentre ne studiava il viso, i capelli sparsi sulla moto, i seni schiacciati contro il suo petto.
L'aria era colma di respiri frenetici intanto che i movimenti perfettamente sincroni li univano.
Sfinito dalla ferita e da quel sentimento intenso che l'aveva dominato completamente, da un trasporto incontenibile che lo aveva vinto e accecato, Shannon si addormentò tra le sue braccia.
Un sonno senza sogni, denso, pastoso, che si infiltrò in ogni cellula a ripararne i guasti, a rigenerarlo.
Disteso a terra si risvegliò dopo ore al suono del rombo di un tuono che lo fece sobbalzare.
Immediatamente si rese conto d'essere solo.
Pioveva. Era uno dei pochi elementi di cui percepiva l’assoluta verità, l'unica compagnia esistente: pioggia e una luce intensa, grigia, che non sarebbe dovuta filtrare all'interno del garage.
Si rannicchiò dolorante, e alzando la testa in direzione della luce ebbe conferma che la porta basculante era sollevata.
Si mise seduto, facendo attenzione al braccio ferito, poi alzandosi con sforzo, quasi trascinandosi, raggiunse il punto dove una volta c'era la sua Harley e raccolse i pantaloni rimasti a terra.
La sua adorata Harley...
Quanta importanza aveva dato a quella moto fino ad allora, come fosse stata una sua estensione.
Non era davvero adatta a un uomo che aveva intenzione di mettere su famiglia e adottare una bambina... questo aveva detto mille volte Jen, e come si era sentito chiuso in gabbia quando lei lo faceva.
Una gabbia circolare senza via d'uscita: Jen e Sally fuori ad aspettare che fosse pronto, e lui a rigirarsi dentro, condannato a ripetere gli stessi errori, incapace di diventare ciò che avrebbe voluto essere per loro.
Con estrema sorpresa, scopriva in quel momento che della moto e della libertà vera o ipotetica che rappresentava, non gli importava più niente.
S'era aperto un varco in quella gabbia, e la vastità di quel cambiamento lo attraeva e lo spaventava insieme.
Rischiare la vita, vedersela passare davanti agli occhi, l'aveva ricollocato nella giusta dimensione dell’universo, molto più marginale rispetto al centro nel quale si era sempre sentito.
Gli sembrava che le ultime ore fossero state solo una preparazione a quella nuova consapevolezza; per imparare l'abbandono, la privazione, il rimettersi in gioco, e cambiare così il corso della strada che stava percorrendo.
Ogni cosa, esattamente come la vita, aveva un suo inizio e una sua fine che fin troppo in fretta poteva giungere, non seguire a pieno il corso naturale del proprio evolversi era regalargli morte certa. Un chiudersi in gabbia.
Jen e Sally erano forse il suo destino?
Non poteva saperlo, sapeva soltanto che per adesso erano la richiesta che lui poneva al suo futuro, e che in loro era contenuta la nuova vita che aveva scelto.
Aveva la domanda... per la risposta avrebbe dovuto aspettare, quella sarebbe venuta solo dopo, con il tempo.
Sapeva adesso che doveva vivere piuttosto che scappare, alzare lo sguardo e vedere al di là di se stesso e dirigersi senza preoccupazione verso le sue domande.
Bisognava vivere e rischiare. Non c’era alternativa.
La circostanza concedeva la scelta, e la scelta racchiudeva l'opportunità.
Katy era stata l'ultima libertà che s'era concesso, perfetta per mantenere in vita ancora per qualche ora l'illusione di non avere i legami che invece sentiva profondi, e in un certo senso trovava giusto che con lei fosse sparita la parte della sua esistenza che non gli apparteneva più.



Note dell'autore: Storia partecipante al contest organizzato dal gruppo "EFP - We're Nothing Without Music". Da regolamento è stato
richiesta una One Shot a tema musicale. La storia doveva essere autoconclusiva e inedita, composta da un massimo di 4000 parole. La canzone da me scelta è Perfect Weapon dei Black Veil Brides. 



   
 
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