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Autore: A lexie s    31/10/2014    2 recensioni
Chi non conosce il Titanic?! E' una delle mie grandi passioni, non solo in termini filmistici.
Non ci troviamo sulla Jolly Roger, bensì sull'imponente piroscafo affondato nel 1912, ma sempre di una nave si tratta.
Le vicende seguono, più o meno, quelle del film (dico più o meno perché ovviamente ci saranno delle novità).
Dal capitolo: Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titanic

Capitolo 7

“Puoi stare tranquillo Kristoff, io riesco a fiutarlo il ghiaccio!”
Il ragazzo sorrise e si sporse per vedere meglio, “guarda quei due” indicò un punto del ponte ad Elsa. Due ragazzi si stavano baciando dolcemente, stringendosi per scaldarsi dal freddo della notte. “Loro si che si stanno riscaldando, avrei dovuto farti ottenere il lavoro di Anna, così lei sarebbe con me al posto tuo.” Le diede una pacca sulla spalla ed assunse una buffa espressione.
“Sarebbe stato meglio, non avrei dovuto sopportare la tua compagnia” sussurrò l’altra con espressione scocciata, prima di voltarsi e ridergli in faccia apertamente. Lo stava solo prendendo in giro.
Risero insieme, fino a quando Elsa si voltò per osservare davanti a lei e scorse qualcosa in lontananza.
“Maledizione!” Esclamò, girandosi ed afferrando una spessa corda che le permetteva di suonare la campana posta sopra le loro teste. Il rumore assordante ridestò Kristoff che si voltò a sua volta afferrando l’apparecchio posto accanto alla sua postazione e chiamò velocemente. “Rispondete bastardi” sputò tra i denti, continuando a muoversi freneticamente in quello spazio angusto.
“C’è qualcuno?” Urlò, quando il suono dello squillo cessò.
“Si” rispose un uomo, “cosa vedi?” aggiunse poi preoccupato.
“Iceberg, dritto di fronte a noi” gridò quello, la voce si spezzò subito dopo a causa del freddo, o della paura che iniziava ad emergere, ma almeno era riuscito a trasmettere il messaggio.
“Ricevuto” fece l’altro, prima di mettere giù per avviarsi ad informare il Capitano.
Fu ordinato di virare tutta la barra a tribordo, tutti si muovevano freneticamente, eseguendo meticolosamente gli ordini che gli venivano impartiti.
“Vira, vira più veloce” urlò qualcuno. Rapidamente qualcun altro attivò lo stato d’emergenza che avrebbe avvisato gli uomini di smettere di alimentare le caldaie così che la nave potesse rallentare la sua andatura.
“Tutta la barra” gridò allora un tenente, constatando che ormai il timone virava completamente a tribordo.
Nella zona delle caldaie c’era il caos, uomini che correvano da tutte le parti, chi cercava di ridurre la produzione di vapore ed altri che si occupavano di chiudere tutti i regolatori di viraggio.
“Perché non virano?!” chiese Elsa, guardando spaventata Kristoff ed afferrandogli la mano per darsi conforto.
La nave si trovava ormai a distanza ravvicinata con il grosso blocco di ghiaccio che aveva davanti, ma ancora non accennava a virare nonostante tutte le operazioni fossero state eseguite correttamente ed in un tempo relativamente veloce.
Graham Humbert, primo ufficiale del Titanic, si trovava fuori in quel momento. Dopo aver impartito gli ordini di virata ai suoi sottoufficiali, continuava a fissare la nave dirigersi verso l’iceberg, “forza, forza” sussurrava tra sé. “Andiamo vira” continuava la lenta cantilena nella speranza di sventare il pericolo, mentre dai suoi occhi cerulei era possibile cogliere la paura che, rapidamente, si faceva largo dentro di sé.
La nave cominciò a rallentare e a virare, nonostante la distanza fosse ormai minima. “Si, si” cominciò ad esultare, e la nave effettivamente virò, non colpendo l’iceberg frontalmente, ma sbattendo comunque lungo la fiancata destra.
 


Le labbra di Emma si staccarono rapidamente da quelle di Killian, un terribile scossone fece perdere l’equilibrio alla ragazza che fu afferrata al volo prima di potersi scontrare al suolo.
“Ti ho presa” sussurrò lui, stringendole la vita saldamente prima di riportarla al suo fianco e stringerla nuovamente.
“Che sta succedendo?” S’interrogò guardandosi intorno, presi com’erano da quel momento d’intimità non si erano nemmeno accorti che la nave si accingeva a scontrarsi con quell’ammasso di ghiaccio e che vi si fosse scontrata effettivamente, sebbene lateralmente.
“Tutta a babordo” sentirono urlare un uomo poco distante e si voltarono verso di lui.
Il pericolo Iceberg non era ancora superato, e loro si trovavano sul ponte più esterno ed erano soggetti maggiormente all’impatto.
“Attenta” grido Killian, tirando Emma per i fianchi prima che un pezzo di ghiaccio si staccasse e finisse sul ponte a qualche passo di distanza da loro.
Rimasero a fissare la scena completamente sbalorditi, inermi davanti alla grandezza di ciò che gli si proiettava davanti. Una volta che l’iceberg fu sorpassato, si avviarono alle grate per guardare indietro e per constatare l’effettivo danno che la nave aveva subito.
“Mio Dio, Emma!” Esclamò Killian, prendendo la mano della ragazza e portandosela al petto. Lei si avvicinò e si strinse al suo fianco, spaventata per quello che sarebbe potuto succedere. La situazione sembrava essersi stabilizzata, ma non era effettivamente così nel piano delle caldaie.
La nave aveva cominciato ad imbarcare acqua velocemente, le paratie stagne stavano cominciando a chiudersi per evitare che questa potesse allagare le zone che erano rimaste illese dall’impatto e gli uomini correvano da tutte le parti per cercare di non rimanere intrappolati lì dentro.
Tutti gli allarmi cominciarono a suonare e tutte le luci cominciarono a tingersi di rosso, “annota l’ora sul diario di bordo” mormorò Humbert, ed in quell’esatto momento il comandante, Hopper, entrò nella cabina.
“Cos’è successo, signor Humbert?” Gracchiò preoccupato, portandosi una mano tra i capelli chiari.
“Un iceberg, signore. Ho virato tutto a tribordo, ho mandato i motori indietro a tutta forza ma era troppo vicino, ho tentato una virata rapida a sinistra, ma l’ha colpito lo stesso.”
Questo non gli diede il tempo di finire ed uscì dalla cabina per appurare di persona i danni causati dall’impatto. “Fermate i motori.” Ordinò perentorio.
Nonostante la chiusura delle paratie stagne, la nave continuava ad imbarcare acqua. Il piano di terza classe cominciava ad allagarsi rapidamente mentre tutti scappavano preoccupati. Robin si alzò dal letto, svegliando Filippo e correndo nella stanza di Regina ed Aurora.
 
 
“Vieni, Emma” la esortò Killian, prendendole la mano e trascinandola verso il chiacchiericcio poco lontano. Gli uomini, tutti tenenti ed ufficiali dato l’abbigliamento, parlavano dell’impatto appena avvenuto. La gravità della situazione era maggiore di quella che ritenevano possibile. Videro passare Marco ed August con una serie di cartine in mano, che vennero stese rapidamente sul largo tavolo in legno e da lì le voci si fecero più acute e frenetiche, non riuscirono ad afferrare bene diverse parole, ma una cosa era certa. La situazione stava degenerando rapidamente, ed avrebbero dovuto avvertire gli altri.
“Devo dirlo a mia madre” mormorò Emma, portandosi una mano vicino le labbra. Sembrava quasi divertente, doveva tornare nella stanza dalla quale era scappata poco prima per rivedere persone a cui aveva deciso di voltare le spalle. Il peso di quella consapevolezza la fece sussultare e Killian se ne accorse subito. La strinse in un abbraccio consolatorio e portò le labbra alla sua fronte, “andrà tutto bene” promise. La ragazza chiuse gli occhi così che quelle parole potessero radicarsi profondamente nel suo animo e poi si alzò sulle punte per baciarlo. Un bacio casto, veloce come una farfalla che si poggia su un fiore per poi volare via.
“Okay, andiamo” asserì, prendendolo nuovamente per mano e avviandosi verso il piano superiore. Il pollice di lui continuava a disegnare cerchi intorno alla sua pelle candida, come a voler alleviare le sue paure e farsene carico o affrontarle insieme.
“Sono qui, non ti lascio” le sussurrò in un orecchio, e lei annuì con vigore.
“Qualunque cosa accada?” Chiese un attimo dopo fermandosi, le parole uscirono piano, esitando. Non voleva mostrarsi insicura o debole, perché non lo era dopo quello che avevano condiviso, ma aveva bisogno di sentirsi dire nuovamente che sarebbero rimasti insieme nonostante tutto.
“Si, sempre.” Le scostò una ciocca di capelli, portandola dietro l’orecchio e ripresero a camminare lentamente. Una scintilla le attraversò lo sguardo, scacciò via la paura per riacquistare decisione.
La sua mano si stringeva attorno a quella del ragazzo sempre con più decisione, man mano che si avvicinavano alla suite. Quando poi videro Jefferson fermo accanto allo stipite della porta ad entrambi tornarono in mente flashback di quella serata. Una stanzetta di terza classe, il ritratto, loro che correvano via, il momento in cui avevano fatto l’amore dentro l’automobile, il modo in cui si erano stretti come se il resto del mondo non esistesse, come se fossero soli nella loro piccola bolla privata. Purtroppo non era così, il resto del mondo c’era e spingeva per tornare prepotentemente a galla. A galla?! Sembrava un eufemismo. Un grandissimo e ridicolo eufemismo. Tutto tornava a galla, mentre loro stavano affondando.
“Vi stavamo cercando” asserì rigido, avvicinandosi ai due e facendo scivolare il prezioso gioiello nella giacca del ragazzo. Questo lo scostò rapidamente, ma non abbastanza dal rendersi conto del gesto che l’altro aveva appena fatto, quindi ignaro di tutto entrò nella stanza continuando a stringere la mano di Emma.
“E’ successa una cosa gravissima” disse lei, rivolgendosi alla madre e a Neal che si trovavano a pochi passi di distanza. I due annuirono mestamente, “lo so” suggerì l’uomo, accarezzandosi la barba con la mano, decisamente più incolta del solito.
Emma sussultò, se loro sapevano era stato inutile tornare ad avvisarli e avrebbero potuto risparmiarsi tutto quel teatrino.
“Stasera sono sparite due cose essenziali per me, e adesso che una è stata ritrovata sono certo di sapere dove si trova l’altra” fece un gesto con la mano, e Jefferson si posizionò alle spalle di Killian e cominciò a scavargli nelle tasche.
Quello si ridestò velocemente allontanandosi, ma l’altro aveva già afferrato l’oggetto che vi aveva riposto poco prima e continuava a sventolarlo di fronte al viso di una confusa Emma.
“No, Emma, non l’ho presa io.” Si giustificò Killian, “ti giuro, devono avermi incastrato” fece, avvicinandosi alla ragazza che si era spostata di qualche passo.
“Non può essere” sussurrò lei, portando una mano alle labbra e cercando di ricordare il momento in cui l’aveva lasciato solo con il gioiello.
“Io non sono un ladro, devono avermelo messa in tasca” urlò il ragazzo, rivolgendosi a tutte le persone nella stanza.
“Non può essere, sono stata tutto il tempo con lui.”
“Forse lo ha fatto quando ti stavi rivestendo cara” la schernì Cassidy con un finto sorriso stampato sul volto tirato.
“Nemmeno la tasca è tua, vero figliolo?! Infatti il proprietario è un certo signor Scarlet, proprio oggi è stato denunciato il furto” constatò Jefferson, girando il risvolto del colletto per accettarsi del marchio.
“Io l’avevo solo presa in prestito.”
“Portalo di sotto e assicurati che vi rimanga” sorrise crudele Neal, mentre Emma continuava a rimanere ferma, senza dire nulla.
“No, Emma. Ti giuro che mi hanno incastrato.” Ripeté Killian, cercando di divincolarsi dalla presa di quell’uomo corpulento, quando sentì un’arma sfiorargli il fianco si arrese e rimase fermo. Il suo sguardo era una maschera di dolore, non poteva credere a quello che stava succedendo.
“Devi fidarti di me” sussurrò piano, le parole uscirono appena e la ragazza fece un passo verso di lui, la mano protesa in aria mentre Neal la tratteneva per un braccio e Killian veniva portato via.
 
 

August continuava a fissare le carte stese sul grande tavolo di legno massiccio. L’enorme modellino cartaceo del Titanic era lì in bella vista di fronte al suo viso e a quello del comandante Hopper.
“In dieci minuti quattro metri e mezzo d’acqua nel gavone di prua, in tutte tre le stive e nel locale della caldaia. Sono già cinque i compartimenti allagati, può sopportare uno squarcio e rimanere a galla con quattro compartimenti allagati, ma non cinque. Mentre affonda a prua, l’acqua passerà sopra le paratie del ponte E, arrivando fino a poppa e non c’è modo di evitarlo” disse sconfitto. “Qualsiasi cosa facciamo, il Titanic affonderà.”
“Questa nave non può affondare” sussurrò qualcuno alle sue spalle, nella sala si diffuse un vociare confuso che squarciava il silenzio di qualche attimo prima.
“E’ fatta di ferro, vi assicuro che può affondare e affonderà” asserì voltandosi, il tono della voce alterato dalla paura. La nave che aveva costruito con suo padre, l’ultimo progetto a cui probabilmente avrebbero lavorato insieme sarebbe affondata e non sarebbe rimasto nulla di lei.
“Quanto tempo abbiamo?” Domandò Hopper, facendo schioccare la lingua nel palato e battendo rumorosamente un dito sulla superficie del tavolo.
“Un’ora e mezza, massimo due” rispose l’altro.
“Quante sono le persone a bordo, signor Humbert?”
“Duemiladuecento anime, signore” mormorò l’altro.
“Ho l’impressione che finirà in prima pagina comunque” disse tra sé, non avrebbe dovuto ordinare di aumentare la velocità per vincere quel maledetto nastro azzurro. Non l’avrebbero nemmeno completata la traversata atlantica ed inoltre quella mancanza di accortezza sarebbe costata la vita a centinaia di persone. Ed era colpa sua.
 

 
Emma rimase in camera con Neal, mentre la madre aveva ritenuto opportuno lasciarli soli per “chiarire”. Prima di andarsene aveva riservato ad Emma uno sguardo carico di rimprovero per ciò che aveva fatto, ma anche di speranza nell’aggiustare le cose, peccato che la ragazza non voleva aggiustare nulla.
Cassidy si avvicinò con passo felpato, un lento e pesante incedere, fissò la ragazza negli occhi ed alzò un braccio per colpirla, ma Emma non si lasciò cogliere impreparata. Non era una bambola di porcellana, ed aveva imparato a suo tempo a difendersi dai possibili attacchi, così si abbassò prontamente lasciando che la mano dell’uomo andasse a vuoto e si allontanò di qualche passo rapidamente.
“Sei una sgualdrina” le urlò arrabbiato, cercando di riavvicinarsi, ma in quel momento qualcuno aprì la porta scusandosi per il disturbo e informandoli che avrebbero dovuto recarsi al ponte principale.
“La discussione è solo rinviata” fece Neal, avviandosi verso l’armadio per prendere il suo pesante soprabito.
“Non c’è nulla da discutere, non sono la tua bambolina ed ormai neanche la tua fidanzata” asserì Emma, la voce dura. Sapeva che la situazione era più grave di quanto volessero far credere, non erano semplici precauzioni quelle che stavano prendendo. Lui fece per afferrarle il braccio, lei si scostò bruscamente, afferrò un salvagente dalla mensola vicino la porta ed uscì in fretta.
“Emma, torna qua” le urlò contro, ma lei era già corsa via.
I corridoi erano affollati, tutti si spostavano freneticamente da una zona all’altra indossando indumenti pesanti per proteggersi dal freddo.
“E’ solo una precauzione” cantilenavano i membri dell’equipaggio, invitando tutti a mettere anche il salvagente, mentre il ponte cominciava a riempirsi.
Distante da occhi indiscreti, il primo ufficiale stava impartendo ordini di salvataggio. Quasi tutti erano impegnati nel posizionare le scialuppe in modo da permettere alla gente di salire, ma nessuno dei passeggeri era stato informato, tutti credevano che si trattasse di un’esercitazione o di semplice burocrazia da seguire per precauzione.
Ben presto, il freddo pungente cominciò ad entrare fin dentro le ossa delle persone convincendole a spostarsi nella sala antecedente a quella da pranzo, uno spazio abbastanza grande da poter ospitare quasi tutti i membri di prima classe.
Emma incrociò il viso pallido della madre dirigersi verso di lei e cambiò strada per non incontrarla, si nascose dietro un signore grassoccio e scorse Neal passare dietro questo per avviarsi verso Mary Margaret.
Dall’altra parte un uomo elegante camminava con sguardo vitreo, il suo incedere lento suggeriva qualcosa di profondamente spaventoso.
“August, che sta succedendo?” Chiese preoccupata, avviandosi verso di lui e sfiorandogli il braccio con una mano, “per favore, dimmi la verità” lo pregò.
“Emma” gridò Neal alle sue spalle avvicinandosi, ma la bionda non gli prestò attenzione e continuò a fissare quelle iridi spaventate. Qualcosa nello sguardo della donna, spinse l’uomo a non tacere. “La nave affonderà” ammise, abbassando lo sguardo e fissandosi le scarpe. “Tutto questo si ritroverà sul fondo dell’Atlantico” concluse, puntellandosi sui piedi e cercando di trasmettergli delle mute scuse.
“Che cosa?” Intervenne l’altro che ormai era vicino abbastanza ed aveva sentito la discussione.
“Avvertite solo chi necessario, non voglio essere responsabile di una crisi di panico e trovatevi una scialuppa. Emma, ricorda ciò che le ho detto sulle scialuppe?” Domandò, rievocando la discussione di un pomeriggio soleggiato sul ponte. La ragazza capì subito a cosa si riferisse. Le scialuppe non erano abbastanza per tutti e molte persone sarebbero morte per questo.
August le appoggiò le mani sulle spalle per un breve lasso di tempo, poi le fece un cenno ed andò via.
 

 “Muoviti” gracchiò Leroy, il sottoufficiale, spingendo Killian verso un palo di metallo e stringendogli delle manette attorno ai polsi. Un uomo alle sue spalle lo chiamò, dicendo che c’era bisogno di lui per una rissa che si era scatenata in terza classe, il panico li aveva sicuramente raggiunti e cominciava a dilagare imperterrito.
“Può andare, ci penso io a tenerlo d’occhio” disse duro Jefferson, estraendo nuovamente l’arma dalla fondina appesa ai pantaloni eleganti.
Si sedette su una sedia e cominciò ad osservarlo senza dire nulla.
 
 
Più il tempo passava, più la nave imbarcava acqua inesorabilmente. Tutti i signori e le signore di prima classe erano stati radunati vicino alle varie scialuppe. L’ordine era quello di far salire solo donne e bambini per il momento, i membri dell’equipaggio cercavano di mantenere l’ordine, invitando tutti a stare calmi. Il buio della notte era squarciato soltanto da alcuni razzi luminosi che venivano lanciati verso il cielo per dare l’allarme, una sorta di SOS che le navi vicine potevano cogliere.
Il capitano continuava a camminare sul ponte, le mani nelle tasche dell’uniforme ed il mento sporto verso l’alto.
“Capitano, una nave ha risposto al messaggio di soccorso!” Disse un ufficiale alle sue spalle, bloccando il suo passo e facendolo voltare verso di lui.
“Solo una?”
“La Carpathia è l’unica nelle vicinanze, signore!” Asserì quello.
“Quanto tempo ci metterà ad arrivare?” Domandò allora l’uomo, accarezzandosi il mento ed aggiustandosi il cappello sulla testa prima che volasse a causa del vento. Che pensiero stupido da fare in quel momento si disse.
“Quattro ore!” Affermò l’altro deciso.
“Quattro ore?” Chiese sbalordito, poi riacquistò compostezza, lo ringraziò e lo congedò.
Il Titanic sarebbe affondato in appena due ore, non le avevano quattro maledette ore. Si tolse il cappello, lasciò che il vento gli scomponesse i radi capelli chiari e si appoggiò rassegnato al parapetto, quella avrebbe dovuto essere la sua ultima traversata e lo era davvero, in tutti i sensi.
I violinisti adagiarono delle sedie sul ponte, si sedettero e cominciarono a suonare una marcia nuziale. La musica si dissolveva nell’aria ed il vociare preoccupato della gente la sovrastava, ma loro continuavano imperterriti. Emma, poco distante, continuava a guardarsi intorno come in stato di trance. Sapeva quello che doveva fare, quello che voleva fare, ma non riusciva a muoversi.
Vedeva le madri che stringevano i propri bambini e che si avvicinavano piano in attesa di salire sulle scialuppe, vedeva i violinisti ancora dediti al loro lavoro anche in quel momento critico, non accennavano a voler abbandonare la loro postazione. Sentiva gli ordini impartiti dagli ufficiali e gli squarci di luce che dilaniavano il cielo, vedeva le coppie che si stringevano strette nella speranza di continuare a stare insieme e continuava a chiedersi che accidenti stava facendo lì. La madre era accanto a lei, Neal alla sue spalle e lei continuava a domandarsi perché si trovava lì da sola.
 
“Sai, credo proprio che questa nave affonderà” constatò Jefferson, alzandosi dalla sedia in cui era rimasto fino ad allora. L’acqua aveva ormai coperto quasi del tutto l’oblo, mentre all’interno cominciava ad allagarsi allo stesso modo. Killian lo guardò di rimando, ostentando sicurezza e lo sguardo fiero di chi sa il fatto suo.
“Mi è stato chiesto dal signor Cassidy di darti un segno della nostra riconoscenza” si avvicinò e gli assestò un pugno in pieno stomaco, facendolo contrarre per il dolore. Un ghigno si dipinse sul suo volto, afferrò la chiave delle manette dal tavolino ed andò via lasciandolo lì a morire.
 
 

“Le scialuppe sono divise per classe?” Chiese Mary Margaret guardandosi intorno con fare altezzoso, dalle porte cominciavano ad uscire donne e bambini di terza classe, mentre gli uomini erano ancora trattenuti al piano inferiore per non permettergli di creare confusione. “Vorrei che non fossero troppo affollate.”
“Mamma, che dici? Sta zitta” l’ammonì Emma, scuotendole le spalle profondamente irata. “Non ci sono scialuppe sufficienti, la metà di queste persone morirà” disse risentita, portandosi una mano al petto.
“Non la metà che conta” fece Cassidy alle sue spalle. Sfacciato, arrogante e presuntuoso.
Granny lì vicino salì sulla scialuppa ed invitò Mary Margaret ed Emma a fare lo stesso.
“E’ un peccato che non mi sia tenuto quel disegno, varrà molto di più domani” disse l’uomo in modo sprezzante, esplicitando il fatto che Killian non aveva opportunità di scampo. Quella fu la scossa che spinse la ragazza a muoversi, a smettere di stare ferma. In ogni caso, sapeva che non sarebbe riuscita a salire su una scialuppa e lasciarselo alle spalle. Non avrebbe mai potuto voltare le spalle a colui che l’aveva salvata, non solo quella volta quando aveva tentato il suicidio, ma anche cento volte dopo. L’unico che riusciva a farla sentire viva, a farle vibrare l’anima, a sfidarla.
“Sei un maledetto bastardo!”
Lo fissò disgustata per qualche secondo e poi lo sorpassò per andarsene. Sua madre continuava a gridarle dietro di salire sulla scialuppa, ma lei non voleva nemmeno sentirla, quella possibilità non era nemmeno contemplata nella sua mente. Non lo avrebbe lasciato, lo sapeva anche prima, aveva soltanto bisogno di sbloccarsi dalla paura di essere ferita, dalla paura di essersi sbagliata sul suo conto.
“Cosa? Stai andando da lui?” Chiese Cassidy furente, la tirò per un braccio e la spinse a voltarsi. “Per fare la puttana di un topo da fogna?” Le urlò contro strattonandola.
“Preferisco essere la sua puttana, piuttosto che tua moglie” si rivoltò, ma lui non accennava a lasciarla andare nonostante l’avesse ferito con quelle parole.
“No, ho detto no!” La riportò contro di lui, afferrandole le spalle con forza, imprimendo le dita nella sua carne con eccessiva pressione. Ed Emma fece ciò che Killian le aveva insegnato qualche giorno prima su quello stesso ponte, prese un respiro profondo, espettorò e gli sputò dritto in un occhio.
L’uomo rimase sconvolto da quel gesto tanto da lasciar andare la presa sulle sue spalle, allora la ragazza approfittò della situazione e corse via velocemente.
Aveva freddo, si sentiva tutti i muscoli intorpiditi ma questo non le impedì di correre con tutta l’energia che aveva in corpo, varcò la soglia e si diresse verso i corridoi.
“August” gridò. L’uomo si voltò e si avviò verso di lei, “Emma, che sta facendo ancora qui?” Chiese preoccupato.
“Quando il sottoufficiale arresta qualcuno dove lo porta?” Domandò lei, in preda al panico.
“Che sta dicendo? Vada a rifugiarsi una scialuppa.” Rispose l’altro in tono perentorio, passandole un salvagente.
“Farò questa cosa in ogni caso, solo che sola ci metterò molto di più!” Affermò, la mano di August si avvicinò alla sua schiena e la sospinse verso il corridoio vicino.
“Prenda l’ascensore fino al ponte E, passi dal corridoio riservato all’equipaggio e poi svolti a sinistra, si troverà di fronte ad un lunghissimo corridoio, prosegua sempre dritto fino a quando si troverà una porta davanti.”
“Grazie, August.” Gli strinse la mano e riprese a correre.
Nella foga urtò diverse persone, ma dopo qualche minuto si ritrovò di fronte all’ascensore. L’inserviente si rifiutava di portarla giù, asserendo che la parte inferiore si stava già allagando ed era impossibile scendervi.
“Ho detto di portarmi giù” lo minacciò, spingendolo con forza e convincendolo a cedere, ci misero qualche secondo ad arrivare al piano inferiore, l’acqua le arrivava quasi fino al ginocchio e ciò le rendeva difficili i movimenti. I corridoi erano tutti bianchi di fronte a lei, continuava a dimenarsi da una parte all’altra cercando quello riservato all’equipaggio e alla fine lo trovò.
“Killian, Killian, dove sei?” Gridò, senza ottenere alcuna risposta. Continuò a camminare per alcuni metri e poi riprovò a chiamarlo con tutto il fiato che le era rimasto.
“Emma, sono qui!” Una voce le giunse in lontananza, chiuse gli occhi per cercare di capire da dove venisse e poi si avviò verso quella direzione. Cercò di correre, nonostante l’acqua, nonostante il vestito, nonostante tutto e finalmente arrivò alla porta bianca di cui le aveva parlato August.
“Killian” chiamò entrando e fiondandosi nella sua direzione. “Killian, mi dispiace, ti prego devi perdonarmi, io lo so che non sei stato tu e che non l’avresti mai fatto.”
“Emma, tranquilla. Vieni qui!” Disse disperato. Non poteva muoversi a causa delle manette che gli impedivano qualsiasi spostamento, ma aveva bisogno di averla vicino per un momento prima di ripensare a tutto quello che dovevano affrontare.
“Vieni qui” ripeté lentamente, lei si avvicinò scostando una sedia che le stava galleggiando davanti intralciandole il percorso.
Si fiondò letteralmente verso di lui, gli circondò il collo con le mani e lo baciò.
Le mani di Killian formicolavano incessantemente dal bruciante desiderio di toccarla e stringerla, ma l’unico movimento che poté concedersi fu una rapida carezza al suo viso quando lei si avvicinò spontaneamente alle sue mani, poi cercò di nuovo la sua bocca, trovandola poco dopo e sentendosi nuovamente in pace.
 
 
 
  
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