ESPIAZIONE
Quando mi hai scritto, qualche settimana fa, non me l'aspettavo.
Dopo anni di silenzio, ecco di nuovo le
tue parole risuonare nella mia testa. Posso aver dimenticato il suono
della tua voce, la forma delle tue mani, il colore preciso dei tuoi
occhi, ma non ho mai dimenticato come le tue parole mi sfioravano
l'anima, scivolando come piccole perle di rugiada sulla mia pelle
desiderosa ed arsa.
Dopo anni di silenzio, di vittorie
festeggiate con altri, di passioni consumate di nascosto a noi
stessi, mi chiedi di rivederci.
Abbiamo ancora molto da dirci, mi
scrivi.
Ed è vero. L'ultima frase che mi hai
regalato sembrava solo un'eco di altri discorsi, altri pensieri che
rimanevano sospesi nel vuoto, sopra le nostre teste.
Ho accettato il tuo invito. Perché ho
bisogno di conferme, ho bisogno di oblio, ho bisogno – ancora,
anche se lo nego – di te.
Mi sorridi, individuandomi subito tra
la folla fuori dal bar, mentre ti cerco con lo sguardo e chiudo
l'ombrello carico di pioggia.
Mi sorridi e mi abbracci educato e con
distacco, com'è giusto tra due amici che non si vedono da tanto,
allontanati dal tempo – e da se stessi.
La mia pelle riconosce subito il tuo
tocco, il mio corpo si adatta al tuo, memore del nostro unico
abbraccio, quella stretta così vera e confortante con cui ho
comparato tutti i mille abbracci che l'hanno seguita.
Inizi a parlare – di te, naturalmente
– e tieni banco per mezz'ora, senza quasi farmi domande su come
stia andando il mio di futuro.
Non che sia una novità.
Poi, d'un tratto, rievochi giorni che
andavano dimenticati, abbassi il tono della voce, bisbigli, sussurri
poi – finalmente – taci.
Scruti nel mio silenzio un perdono, una
magra consolazione che pensi di esserti ormai meritato, sono passati
tanti anni.
Ma le parole mi si incastrano in gola,
non emetto neanche un suono e non ti guardo.
Non voglio guardarti. Non devo
guardarti.
Mi prendi la mano da sopra il tavolo e
la stringi forte, per richiamare la mia attenzione. Fai l'errore –
no sono io che sbaglio, io che te lo permetto – di intrecciare le
dita con le mie, in un gesto così intimo da spezzarmi il fiato. Non
siamo mai stati così vicini, non ho mai sentito con così precisione
il battito del tuo cuore tra le falangi.
E non riesco, non riesco a fissare
ancora il vuoto. Una mano invisibile – la tua mano che ormai
appartiene al passato, quella che non mi ha mai sfiorato – mi
spinge a girare il viso verso di te, a incontrare i tuoi occhi.
Non è vero che ho dimenticato, non è
vero che ho perdonato. Non è vero niente.
Tu mi guardi, con una domanda in volto
e parole che cercando di dimostrarmi la tua espiazione sulle labbra.
Parole che interrompo di botto,
avvicinando le labbra alle tue per poi sfiorarle leggermente,
sentendo a malapena il tuo sapore.
Dopo un attimo mi scosto e mi alzo,
radunando in fretta le mie cose.
Tu sei immobile, segui con lo sguardo i
miei movimenti ma sembri non capirli appieno.
“E questo cos'era?” mi chiedi. E
per una volta dimetti la maschera che ti vedo addosso da quasi dieci
anni e ti mostri a me, in tutta la tua incomprensione e bellezza,
ormai lontana dal ricordo del passato.
“Un addio”.