La Tomba
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Mi trovavo nella mia cameretta, disteso sul
letto, a leggere un articolo del New Economy sull’apertura di nuovi sbocchi
commerciali in Oriente, quando un rumore attirò la mia attenzione. Lo strano
rumore proveniva dalla finestra e mi diressi lì per controllare: uno strano
uccello dal piumaggio nerissimo batteva il becco sul vetro insistentemente.
Aprii la finestra per scacciarlo, ma lui fu più lesto di me ed entrò
svolazzando per la stanza creando un gran caos. Alquanto adirato per quella intrusione, mi diressi allora verso la porta per
prendere qualcosa con cui scacciarlo ma lo strano pennuto si posò sulla
scrivania saltellando sul legno e graffiandolo con i suoi artigli. Osservandolo
da vicino capii che era un corvo: il piumaggio nero e liscio, il becco
affusolato e le sue notevoli dimensioni mi lasciarono alquanto interdetto.
Prima che arrivassi
alla porta il corvo iniziò a fissarmi con i suoi occhi scuri e penetranti e,
come se niente fosse, aprì il becco e iniziò a parlare. La sua voce era dolce e
carismatica e le sue parole chiare e fluenti andavano a comporre un racconto
irreale e visionario che in quella strana atmosfera di sogno non mi sembrava
una cosa fuori dalla normalità. Il corvo mi consigliò
di dargli modo di spiegare il motivo per cui era
venuto. Ancora incredulo per quello che stava succedendo mi sedetti su una
sedia e ascoltai quello che aveva da dirmi. Mi spiegò di non essere un corvo
normale, ma un messaggero che aveva scelto me per intraprendere una missione
dalla vitale importanza per la quale non c’era più molto tempo: la vita di un
uomo era in gioco e se volevo salvarla dovevo accettare subito di seguirlo. Più
curioso che convinto accettai la missione; il corvo se
ne rallegrò e mi chiese di seguirlo, mi avrebbe fatto da guida fino alla meta.
Detto questo spiccò il volo e uscì dalla finestra.
Scesi in strada e subito vidi il corvo
avvicinarsi con un rapido battito di ali, si posò
sulla mia spalla e iniziò a indicarmi la
strada.
Dopo breve tempo uscimmo
dalla città proseguendo su un sentiero dissestato e abbandonato che costeggiava
il litorale. Una leggera brezza del mare iniziò a levarsi alzando la polvere e
scompigliandomi i capelli. Il Sole rosso, ancora alto nel cielo, veniva riflesso in un mare inquieto, scosso da onde che si
infrangevano sugli scogli delle coste creando spruzzi d’acqua e di schiuma; i
raggi del sole colpivano i miei occhi, costringendomi a coprirli con la mano, e
illuminavano le piume nere del corvo, ancora chino
sulla mia spalla a fungere da guida in quel viaggio surreale. Dopo un lungo tratto presi una strada in salita che portava sempre
più nell’entroterra. Il mare, ormai, non era più in vista e il sole, un tempo
alto nel cielo si stava lentamente avvicinando all’orizzonte colorando il cielo
di un rosso fuoco.
Continuando a seguire le indicazioni del
corvo, iniziai a percorrere una ripida
strada che mi portò a un bivio: due strade si
diramavano, infatti, da quella maestra; quella di destra , molto più curata,
portava ad una lunga distesa di verde, campi coltivati, alberi rigogliosi pieni
di frutti che facevano da paesaggio in quella distesa; le poche casupole dei
contadini erano gli unici segni di civiltà per molte miglia. La strada di
sinistra, invece, proseguiva lungo un
sentiero angusto e sconnesso che portava ai piedi di una catena montuosa in
lontananza. Le luci del giorno stavano lentamente lasciando il posto ai buio della notte, l’oscurità stava lentamente scendendo
nella valle rendendo ancora più disagevole il mio cammino.
Il corvo mi incitò
a proseguire ancora una volta e mi indicò la via da percorrere e con la paura che iniziava a crescere nel mio
cuore mi spinse a sinistra verso le montagne. Alberi morti e arbusti secchi
affiancavano la via a segnalare che la vita aveva lasciato già da tempo quella zona.
I miei passi si facevano sempre più stanchi e doloranti per la fatica
del lungo viaggio, quando, all’improvviso, iniziai a sentire uno strano rumore
che si propagava per tutta la valle alle pendici dei monti, un suono metallico,
forte e vigoroso, che veniva però smorzato dall’eco di quello spazio ampio e
che mal si addiceva al silenzio profondo che regnava in quella zona. L’unica
cosa che si sentiva in quella distesa sconfinata era
solo quel suono ritmato che si ripeteva con cadenza regolare. Il corvo,
accortosi della mia stanchezza mi incitò ancora una
volta a continuare, ricordandomi che non rimaneva molto tempo e che ogni minuto
era vitale. Arrivai così alle pendici della catena montuosa con i piedi
doloranti e le gambe stanche; il sentiero
che mi aveva portato fin lì si inoltrava fra due
pareti rocciose, attraverso un passaggio angusto che tagliava la montagna e si
inoltrava per molti chilometri. Il suono metallico che avevo sentito
attraversando la valle si era fatto più forte man mano
che mi ero avvicinato alle montagne ed ora potevo percepirne tutta la
misteriosità, ora che, trasportato dal vento, attraversava quell’angusto
anfratto . Deciso a non fermarmi proprio lì, a un
passo dalla mia meta, ripresi il mio cammino e mi inoltrai anche io in quel
passaggio fra le montagne. I loro fianchi mi circondavano mentre seguivo quello
stretto passaggio. La notte, infine, era arrivata portandosi via luce e calore;
il buio non mi aiutava ad attraversare quel sentiero ed il freddo,che era sceso inesorabile, rendeva ogni mio respiro sempre
più difficile facendo rabbrividire tutto il mio corpo. In quel luogo i miei
occhi si perdevano cercando disperatamente una fonte di luce.
Sapevo, però, che non ero solo e che il
corvo non mi aveva abbandonato: i suoi occhi brillavano in quella dimensione
oscura a indicarmi la sua presenza.
Continuai così per lungo tempo, camminando
lungo quel sentiero dissestato, fino a quando la luce della Luna, sfuggita a una nuvola che voleva a tutti i costi coprirla, non mi
mostrò finalmente la mia meta. La valle rinchiusa in quella conca e circondata
dalle montagne veniva ora illuminata dalla Luna, più
splendente: la sua luce soffusa e incantevole mi permise di distinguere una
strana costruzione in lontananza. Al centro di quella valle,rinchiusa
fra le montagne, si ergeva dal manto erboso un muro in pietra che delimitava
una vasta zona. Il muro continuava per molti metri fino a toccare i fianchi
delle montagne bloccando il passaggio.
Il corvo si riprese dal torpore e scrollò
le ali per il freddo; intuendo la mia esitazione e la mia paura iniziò a
parlare per rincuorarmi ma le sue parole erano smorzate dal possente suono che
mi aveva accompagnato lungo il tragitto, quel suono metallico che era stato
smorzato dallo stretto passaggio e che ora potevo udire in tutta la sua
potenza. Finalmente capii che genere di suono fosse, altre volte avevo sentito
un suono simile, metallo contro metallo, quando ero piccolo e avevo ancora fede
in un credo ormai morto. Il suono che sentivo era il rintocco possente di una
campana, il suo boato si diffondeva per tutta la valle facendo tremare la
roccia e scuotendo la terra.
Il corvo mi rimproverò e mi parlò in
maniera decisa e rassicurante, per distogliere la mia mente da quel potente
suono; mi indicò le mura che ostacolavano il mio
cammino e mi disse di cercare un cancello.
Scesi il pendio erboso dirigendomi verso di
esse. Il buio e una fitta coltre di nebbia che si era
lentamente innalzata non mi mostravano appieno il loro
profilo, così che dovetti camminare per molto tempo a tentoni fino a quando non
toccai con mano la ruvida e fredda superficie di roccia delle mura.
Seguii la parete ancora per molto, camminando
rasente con la mano finché non trovai un’apertura in quella possente muraglia:
un grande cancello in ferro, l’unico passaggio per il
luogo custodito con tanto accanimento. Ma da chi, non
sapevo.
Il cancello era socchiuso, né serratura né
catena, il suo aspetto dimesso e decadente dimostrava che l’intera zona era
stata abbandonata da molto tempo .
Gli occhi del corvo parvero illuminarsi
alla vista del cancello e, con mia grande sorpresa,
prese il volo per fermarsi su un ramo di una quercia avvizzita vicino al
cancello.
La guida che mi aveva portato fin lì,
guidandomi in quello strano viaggio, sorreggendomi e rincuorandomi quando il
mio animo aveva dubitato e aveva avuto un cedimento, donandomi forza e coraggio
con la sua silenziosa presenza, era fermo sul ramo di un albero a scrutare
oltre il cancello, alla ricerca di qualcosa a me ignoto. Il buio e la fitta nebbia,
che aveva coperto ogni cosa con il suo gelido manto grigio, non gli permettevano di scorgere niente oltre quell’impenetrabile
muro.
Dopo un lungo silenzio, interminabile per
me, interrotto solo dal potente rintocco della campana che non accennava a
fermarsi, il corvo iniziò a parlami.
Mi disse che ero finalmente giunto al
termine, quello era il luogo dove la mia missione si sarebbe compiuta: il mio
viaggio non era ancora finito, ma avrei dovuto continuare da solo al di là del cancello, in un luogo inviolato da ormai molti
anni. Lì avrei trovato un’antica cattedrale in rovina e, al
di là della cattedrale, il cimitero; fra tombe e sepolcri avrei finalmente
trovato il motivo della mia missione. Le parole enigmatiche del corvo mi
diedero nuovo timore: il mio viaggio non solo non era finito, ma avrei dovuto
affrontare ogni altra incertezza da solo.
Detto questo, il corvo spiccò il volo e con un rapido battito di ali scomparve nell’oscurità che circondava ogni dove;
quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Solo e stanco mi appoggiai
al cancello, i possenti cardini che lo sostenevano cigolarono quando cercai di
aprirlo; dopo un lungo sforzo si aprì facendo un forte rumore ed entrai.
Incuriosito e al tempo stesso impaurito
all’idea di cosa avrei trovato al di là del cancello, lo oltrepassai con il cuore gonfio di
ansia e paura. La nebbia aveva ormai invaso tutto il paesaggio non offrendomi
alcun indizio su cosa avrei trovato a pochi passi da me. La campana continuava
nel suo rintocco insistente e vibrante, mai aveva smesso da quando ero entrato
in quella strana valle.
Percorsi un lungo tratto nella fitta nebbia
prima che i miei occhi potessero notare una strana sagoma che si stagliava nel buio alta verso il cielo, tagliando di netto lo spesso
strato di nebbia. Stavo avanzando verso quell’alta torre ormai a poche decine di metri da me: la sola
parte che vedevo era quella che svettava nella nebbia così che mi sembrava che
la torre non toccasse terra e rimanesse a mezz’aria.
Il rintocco della campana si era fatto
sempre più forte fino a diventare assordante; alla fine capii che il rintocco
proveniva dalla torre. Il campanile diventava sempre più alto man mano che ero
più vicino, fino a quando trovai quello che il corvo mi aveva detto di cercare:
la cattedrale.
La cattedrale era un massiccio edificio
costruito in pietra con un ampio portone in legno. La sua facciata era
imponente, abbellita rozzamente da poche finestre e da colonnati semi
distrutti; il suo aspetto decadente mostrava una rovina ormai antica, da molto
tempo non doveva ospitare riti religiosi, probabilmente sconsacrata, ma
certamente caduta in rovina e dimenticata ormai da molti anni.
Era lì, con la sua mole enorme, le sue mura
di pietra massiccia e la torre del campanile che svettava sopra ogni cosa, a
diffondere per ogni dove il sinistro suono della campana che mai aveva cessato
il rintocco. Come di ritorno da un altro mondo, mi ripresi dal mio torpore e
allo stupore per la scoperta della cattedrale si contrappose la paura e il
timore di cosa avrei ancora scoperto. Ben presto, però, al ricordo delle ferme
parole del corvo, il coraggio e la curiosità ritornarono in me e mi diedero
nuovo conforto per continuare quel mio strano viaggio. Dovevo continuare. Senza
esitazione aprii le possenti porte della cattedrale. Non erano chiuse e potei
entrare, ma non senza qualche sforzo, visto che il tempo aveva indurito i
cardini, al punto che opposero un’iniziale resistenza.
All’interno della cattedrale il buio aveva
assalito ogni angolo; si poteva sentire un pesante odore di muffa e aria
stantia; il legno del soffitto e del pavimento era diventato marcio, tanto da
scricchiolare ad ogni passaggio di vento; il soffitto sembrava in bilico, tanto
da essere portato via anche solo da una folata di vento più forte delle altre, pronto
a far crollare l’intera struttura. Senza ripensarci troppo entrai nella
cattedrale e misurai il pavimento a larghi passi; l’odore che permeava l’intero
ambiente era nauseabondo e ogni mio respiro era una condanna. L’unica fonte di
luce proveniva dallo squarcio che si era aperto nel tetto dell’abside nel corso
del tempo, la luce della Luna illuminava a stento l’ambiente con la sua luce
diafana. L’unico elemento che riuscivo a vedere davanti a me in quella confusa
oscurità era l’altare, posto al centro del presbiterio, illuminato dal fascio
di luce che attraversava lo squarcio nel tetto. All’interno della cattedrale
quello che un tempo mostrava sfarzo e ricchezza, ora mostrava rovina: i dipinti
e gli affreschi sulle mura laterali erano completamente erosi dal tempo;
dov’era il volto di un bambino, ora c’era solo una macchia di pittura senza forma né colore; non
più calici d’oro e arredi sacri, ma il vuoto desolato di un altare abbandonato
da tempo.
Lentamente percorsi la navata laterale fino
ad arrivare vicino all’altare. Il suono della campana era più debole a causa
delle spesse mura di roccia. Quando arrivai vicino all’altare potei notare due
porte al fianco delle navate. La porta di destra, dal lato del campanile,
sicuramente dava sulle scale che portavano al piano superiore del campanile
dove la campana non accennava a sospendere i suoi rintocchi. Un nuovo bivio
davanti a me, e ora la decisione l’avrei dovuta prendere da solo.
L’ultima cosa che avrei fatto era
sicuramente avvicinarmi di più alla campana; sapevo che non c’era niente di
normale in quella strana atmosfera di sogno e un mio passo falso avrebbe
portato al fallimento del mio viaggio.
Decisi quindi di aprire la porta a sinistra
e vedere cosa mi attendeva. La porta era in legno, semi nascosta da un drappo
di velluto ormai rovinato; la aprii senza difficoltà e scoprii che portava ad
un’altra stanza più piccola. L’ambiente era angusto e decadente come il resto
della cattedrale, arredato in modo molto spartano: solo un tavolo, qualche
sedia, un leggìo rovinato e un armadio senza un’anta. Molto probabilmente la
stanza doveva essere la sacrestia. Entrai e subito vidi che dall’altra parte
della stanza c’era un’altra porta. Attraversai velocemente la stanza e la aprii.
Quello che vidi oltre la soglia fu uno spettacolo che mi tolse il fiato.
Centinaia e centinaia fra tombe e mausolei, lapidi e incisioni, statue e angeli
in pietra si profilavano davanti a me, componendo un paesaggio suggestivo.
Avevo trovato il cimitero e lì avrei trovato la ragione della mia avventura.
Scesi il gradino e sentii la morbida terra su cui era sorto il cimitero;
l’ampio cortile della Cattedrale rivolto a Ponente era stata delimitato e destinato
all’ultimo riposo di centinaia e centinaia di persone.
Avanzai per un sentiero in pietra che si
diramava lungo il cimitero tagliando le file di tombe, di mausolei, di cripte e
di cappelle, dandomi la strana sensazione che qualcuno, nascosto in quella
moltitudine di tombe e ombre di lapidi, mi osservasse senza sosta. Il freddo si
era fatto più intenso ora che la notte era diventata a sua volta più fonda; ogni mio respiro si raggelava,
tanto che potevo vederlo; ben presto il
mio corpo fu scosso da leggeri brividi: non riuscivo a capire se per freddo o
per paura.
La nebbia che aveva reso difficile il mio
cammino fino alla cattedrale si era lentamente diradata dandomi modo di
osservare meglio le tombe e le cripte intorno a me.
Il rintocco della campana, che prima era
stato attutito dalle possenti mura della cattedrale, era tornato forte ed
imponente; mai aveva smesso, da quando ero entrato in quella valle fuori dal
mondo; molto probabilmente avrebbe continuato così per tutta la notte, se non
per sempre…
Camminai seguendo il sentiero fra le tombe
ancora per molte ore: il cimitero
doveva essere molto grande, oppure mi ero perso lì, fra corpi senza anima che
riposano in terra consacrata mentre
giravo senza meta nella nebbia senza mai trovare una fine al mio
viaggio.
La stanchezza si fece presto sentire; stavo
per accasciarmi al suolo quando, ad un tratto, nella immensità di quel
paesaggio fatto di tombe e lapidi non notai qualcosa di insolito. Vicino a me
vi erano tre tombe, tutte e tre erano vuote.
La prima tomba non aveva al suo interno la
bara e la lapide ,postagli vicino, non aveva né incisioni né graffi, nessun
nome vi era inciso sopra; molto probabilmente era destinata a qualcuno che
ancora viveva. La seconda aveva una bara al suo interno, ma nessun corpo vi
risiedeva; poco distante vi era un
mucchio di terra e una pala ; ma fu la terza che catturò maggiormente la mia
attenzione…
La
terza tomba non aveva il fondo e il suolo del terreno scavato si inabissava
creando una piccola voragine nel terreno. Le tenebre, lì ancora più fitte, mi
impedivano di vederne il fondo e neanche la luce della Luna, che ora si era
fatta più intensa permetteva ai miei occhi di scorgere qualsiasi dettaglio. Al
posto di una bara si trovava al suo interno una scala in legno che scendeva
rasente al muro in quell’abisso di tenebre.
La terza non era una tomba, ma un
passaggio, una discesa che portava chissà dove in un cuore di oscurità.
Osservando attonito quelle tre tombe nel
mio animo mi chiedevo se fosse questa la mia meta finale.
Rimasi lì per molti minuti, intento ad
osservare le tre tombe vuote che avevo dinanzi alla ricerca di un dettaglio che
carpisse la mia attenzione, ma non riuscii a capire il segreto che vi si celava
dietro. Alla fine presi una decisione, sarei sceso all’interno della terza
tomba per vedere cosa nascondeva, lì, molto probabilmente, avrei trovato la
ragione del mio viaggio.
Il suono della campana continuava ,
intanto, il suo incessante rintocco in quella strana notte.
Iniziai così a scendere la scala di legno,
sempre più giù nel cuore dell’oscurità…
Non posso dire per quanto tempo mi trovai
in quello stato, intento a scendere in una tomba che portava chissà dove, il
tempo non era più importante, si dilatava e diveniva infinito donandomi un’
ansia continua. Il suono della campana diveniva sempre più debole mano a mano
che avanzavo nella mia discesa, così come la luce della Luna prima vivida sul mio volto, diveniva sempre
più flebile, raggio incerto sopra la mia testa che a malapena mostrava
l’apertura da cui ero sceso.
Prima che potessi rendermene conto, toccai
terra: un suolo di dura roccia aveva arrestato i miei piedi dopo la lunga
discesa. Iniziai a fissare l’ambiente intorno a me.
Nella vana ricerca di una fonte di luce,
presi a camminare a tentoni; non potevo scorgere nulla, se non un bagliore
arancione che si stagliava in lontananza. Sparse qua e là delle bare.
Rumori di piccoli passi e squittii nel buio
mi fecero trasalire, quel posto era infestato da topi. Intorno a me potevo
vedere deboli bagliori di piccoli occhi che vagano nell’oscurità.
A passi lenti, per la paura e per l’ansia,
mi avvicinai sempre di più verso quella luce in lontananza fino a quando non
potei scorgere fra i bagliori di un piccolo fuoco acceso i contorni di una
strana figura, china vicino a un muro. Un vecchio uomo, vestito di stracci, dai
lunghi capelli e dalla barba grigi come la cenere, era seduto intento a
riscaldarsi vicino a quel fuoco ravvivato da alcune assi di legno prese dalle
casse sparse sul pavimento. Gli occhi dell’uomo erano chiusi.
Pensai che fosse morto, ma quando mi avvicinai
mi accorsi che il suo torace seguiva su e giù il ritmo del respiro.
Improvvisamente i suoi occhi si aprirono, mi fissarono e immediatamente si
riempirono di stupore per la mia presenza. Alla meraviglia seguirono poi
lacrime che rigarono il suo volto scavato. Non sapendo come reagire a quello
strano incontro mi avvicinai al fuoco e mi sedetti: la luce e il calore delle
fiamme mi fecero uscire dal buio e dal freddo della catacomba. L’uomo anziano
aveva una figura ancora più misera di prima. Dopo un attimo di incertezza iniziò
a balbettare parole sconnesse, era da molto tempo che non parlava con un’altra
persona e le sue parole stentavano ad uscire e perdevano ogni senso appena le
pronunciava.
Nel mio cuore iniziò a nascere un profondo
sentimento di pietà per quell’uomo solo e sofferente: chi o cosa ha potuto
costringere un uomo a tanto era per me una domanda senza risposta. Ripresosi
dal momento di incertezza, l’uomo iniziò a raccontare i suoi ricordi di tempi
ormai lontani e a narrarmi la sua storia.
Vent’anni prima l’uomo che avevo davanti era il
sacrestano della cattedrale che avevo attraversato. La vita in quel luogo
scorreva lentamente, scandita dalle funzioni religiose che avevano luogo nella
cattedrale ,presiedute del parroco del luogo. La cattedrale raccoglieva un gran
numero di fedeli ed il suo cimitero, posto ad ovest, aveva raccolto nei secoli
le spoglie mortali di migliaia di persone. Tutto scorreva in modo normale fino
a quando il sacrestano, mentre scavava il terreno per un’ultima fossa, non
trovò l’accesso a un’antica catacomba.
Spaventato e intimorito per quella strana
scoperta, il sacrestano nascose a tutti l’esistenza della catacomba, ma ben
presto eventi terribili turbarono l’idilliaca serenità di quel luogo. Quella
scoperta fu per lui un incubo che lo trascinò in rovina insieme alla cattedrale.
Una notte la campana iniziò a rintoccare,
senza più fermarsi: per anni e anni avrebbe continuato con il suo eterno
rintocco disturbando il silenzio che da sempre aleggiava in quel luogo di
preghiera. La paura e la superstizione così si insinuarono nelle menti della
maggior parte degli abitanti della comunità e la cattedrale, poco a poco, finì
per diventare deserta. Nessuno si spiegava come fosse possibile che una campana
non si fermasse mai e ben presto l’ignoranza accecò le persone, facendo loro
credere che quello era segno del demonio e che il rintocco della campana
annunciava un evento nefasto. I fedeli, che ogni giorno arrivavano alla
cattedrale dopo i lavori nei campi, divennero sempre meno e la cattedrale finì per
diventare il luogo silenzioso e decadente, disturbato dal rintocco incessante
della campana, che avevo potuto osservare.
La paura e la superstizione molte volte
spingono le persone ad azioni irrazionali, perché è tipico dell’uomo perdere la ragione dove essa non si può vedere.
In una notte fredda morì il vecchio parroco
che da ormai molti anni viveva in quel luogo fra le montagne; con la sua
scomparsa il sacrestano perse non solo un amico, ma anche la speranza di un
futuro migliore, un futuro in cui la cattedrale avrebbe ritrovato il suo
splendore e quei giorni bui sarebbero finiti.
Mentre meditava sulla tomba del suo amico
defunto, prese una decisione: sarebbe fuggito dal quel luogo e si sarebbe messo
al riparo dal suono della campana che aveva creato tanto dolore e paura nell’unico
luogo dove il rintocco non si poteva udire e dove avrebbe finalmente trovato
pace, la catacomba. Il suono della campana si affievolì così come la luce,
mentre scendeva sempre più giù nell’oscurità della catacomba: in cuor suo
sperava che lì avrebbe trovato finalmente la pace e che si sarebbe dissolta con
il passare del tempo la paura che attanagliava la sua mente. Ma così non fu….
Cinica è la paura perché colpisce sempre le
persone più deboli e incapaci di reagire, come un’ombra che si insinua
nell’anima senza lasciare le forze necessarie per pensare e per agire.
Passarono così gli anni e il sacrestano
aveva finalmente trovato nella catacomba un rifugio dal continuo rintocco della
campana, ma ben presto quel rifugio divenne una prigione che lo costringeva a
vivere in quel modo pietoso senza vedere la luce del Sole, senza poter sentire
le carezze del vento sulla pelle. Perso nei suoi ricordi, presto riaffiorarono
i volti dei suoi familiari. Quando mi raccontò della sua famiglia, potei
sentire tutta la tristezza e la malinconia nascosti in quei lunghi anni nel
profondo del suo animo. Per quanto tempo aveva dovuto vivere in quel modo per
colpa delle sue paure?
Le lacrime continuarono a rigare il suo
volto scavato, senza fermarsi: ormai quegli anni di isolamento gli avevano
lasciato una traccia indelebile nel cuore, privo di ogni speranza per un futuro
migliore. Aveva vissuto per tutti quegli anni come un derelitto in preda alla
disperazione ed al dolore, in condizioni miserevoli, fuori dal mondo, un mondo
che dimentica troppo facilmente i deboli ed esalta troppo rapidamente i forti.
Sentendo la sua storia non potevo avere che
pietà per quell’uomo, perché soffrire in solitudine è la peggiore delle pene.
Ma come poter aiutare un uomo in preda alle sue paure? Può il coraggio
distruggere una paura che ha creato tanto dolore e sofferenza?
Niente può sconfiggere la paura se non il
coraggio.
La vita degli uomini che non hanno coraggio
é continuamente attanagliata dalle paure e
finisce per essere intrappolata. Maledetti sono coloro che non hanno
coraggio, perché sono in preda alla paura e al dubbio, e ogni loro momento di
vita è oscurato dall’ombra delle loro incertezze e dalle fobie. Nella vita noi
dobbiamo prendere continuamente decisioni e senza il coraggio rischiamo di
sbagliare. La vita è lo specchio delle nostre scelte e se è offuscata dalla
paura non può essere misera e senza speranza.
Da troppo tempo ormai la campana aveva
continuato a rintoccare in quella valle dimenticata, facendo cadere in rovina la cattedrale e
costringendo un uomo, insicuro e timoroso, a rifugiarsi lontano dalle sue
paure. Da troppo tempo ormai la campana continuava senza mai fermarsi a
scandire il tempo con i sui tetri rintocchi, un tempo che era diventato sempre
più lungo, ma che si sarebbe fermato quella sera: la campana avrebbe finito di
rintoccare, sarebbe caduta ,e per mano mia!!
La mia decisione era stata maturata nel
tempo; durante il racconto del sacrestano non potevo che provare pietà per quell’uomo
e mi immedesimavo in lui, perché chi non ha avuto mai almeno una volta una paura così profonda da voler solo
fuggirne? Allo stesso tempo però mi chiedevo come avrei potuto aiutare quella
povera anima e nessuna idea mi parve migliore di distruggere la campana una
volta per tutte.
Il sacrestano si trovava disteso vicino al
fuoco con le spalle ricurve sul muro. Da molto tempo ormai non parlava con
qualcuno e il rievocare i ricordi e rivivere quei momenti gli aveva lasciato
una profonda malinconia. Le sue vecchie membra rabbrividivano al freddo
pungente della catacomba anche se erano riscaldate da quel debole fuoco. Ormai
le lacrime si erano asciugate sul suo volto, la maschera di dolore che prima
gli avevo visto, era caduta via e aveva lasciato posto a un volto più
tranquillo. La speranza che col passare del tempo si era dissolta, era tornata
appena i suoi occhi mi avevano scorto nell’oscurità e continuava a rincuorarlo.
Aspettai ancora un attimo prima di dirgli
quale decisione avevo preso perché volevo che ascoltasse con molta attenzione
ogni mia parola. Quando il suo respiro si fece più regolare gli svelai i miei
pensieri. Gli spiegai in modo semplice cosa volevo fare: distruggere la
campana. Presto sarei risalito dalla catacomba e mi sarei diretto verso la
cattedrale per distruggere la campana, così lui sarebbe potuto tornare a
rivedere il cielo e ogni sua paura sarebbe sparita. Il volto del sacrestano
parve illuminarsi a quelle parole, da tempo non aspettava altro che sentire qualcosa
di simile. Finalmente il suo incubo avrebbe trovato fine.
Prima che mi alzassi il sacrestano mi
fermò. Voleva aiutarmi in qualche modo. Nel profondo aveva sempre sperato che
qualcuno venisse a salvarlo, e per lui quella attesa era finita.
Speravo che mi rassicurasse. Non sapevo cosa
avrei trovato lassù, sul campanile, ed un consiglio era il miglior aiuto che
lui mi potesse dare.
Senza indugi il sacrestano mi spiegò la
strada per tornare alla cattedrale. Il campanile era un’alta torre posta di
fianco la cattedrale e si poteva accedere alle scale che portavano fin sulla
cima attraverso una porta, situata nella navata orientale. Le scale in roccia
col tempo erano diventate sempre più malmesse, ormai nessuno vi saliva più .
La campana era una grande cupola antica in bronzo
di notevoli dimensioni. Si trovava in cima al campanile da dove diffondeva il
suo sinistro suono in tutta la valle. Le sue oscillazioni erano prodotte dal movimento dell’asta a cui
era fissata. Un sistema di contrappesi rallentava il suo moto così che non
compisse un giro troppo largo. L’asta che dava il movimento oscillatorio alla
campana era collegata a due perni che insieme al ceppo ne sostenevano l’intero
peso. Tutto il complesso campanario si era conservato nei secoli fin dai tempi
della fondazione della cattedrale.
Per far cadere la campana avrei dovuto
danneggiare uno dei due perni. Il volto del vecchio che mi ascoltava era più
calmo e disteso e nei suoi occhi era ritornata la vita: percepivo che aveva
ritrovato la speranza.
Per distruggere i perni dovevo però trovare
un arnese, non potevo farlo a mani nude. Il sacrestano mi disse di andare in
sacrestia, molto probabilmente lì avrei trovato quello che mi serviva.
Senza troppi indugi e prima che la paura
tornasse, mi alzai e mi diressi verso la scala. Dietro di me il sacrestano fece
un debole cenno di saluto quasi per darmi coraggio.
Trovai subito la scala, il fascio di luce che
proveniva dall’esterno era ben visibile in quella oscurità. Salii lentamente
verso la luce. I pioli della scala erano sempre più scivolosi. Più di una volta
rischiai di cadere di nuovo nel vuoto. Dopo un lungo tempo che sembrava non
finire mai, toccai il suolo. Mi rialzai con fatica e iniziai a guardarmi
intorno. Ero ritornato nel cimitero. Lunghe distese di tombe e mausolei, statue
e lapidi, tutte intorno a me. La luce della Luna si era fatta ora meno intensa
e vedevo a malapena. Il mio respiro si faceva sempre più affannoso e stanco: la
paura stava lentamente tentando di prendere il sopravvento su di me. Senza
pensare oltre mi diressi per il sentiero di pietra verso la cattedrale.
Nel buio della notte, l’unico faro era il
suono della campana, passi lenti mi guidavano nel freddo dell’oscurità. Insieme
a quella della Luna si erano fatte più
deboli anche le luci delle stelle, rendendo il cielo una distesa scura sopra il
mio capo, ma non mi ero ancora perso d’animo. Dopo un lungo cammino intravidi
in lontananza la porta della sacrestia, quella da cui ero arrivato al cimitero.
Risalii frettolosamente gli scalini e rientrai in quell’angusto ambiente. Ora
dovevo trovare un oggetto per poter danneggiare la campana. Iniziai così a
rovistare la stanza fino a quando non vidi vicino all’armadio quello che cercavo: un’accetta. La presi per
il manico e la strinsi forte fra le mani. Il suono della campana era attutito
dagli spessi muri di pietra, ma potevo sentirne chiaramente l’eco in quell’edificio
in rovina. Mi diressi verso la porta per entrare nella zona centrale, verso il
campanile, esattamente di fronte a me, non mi potevo sbagliare.
La luce della Luna che attraversava il foro
creatosi sopra il presbiterio era ora meno vivida.
Attraversai la navata centrale
oltrepassando l’altare e aprii la porta di fronte a me. Una folata d’aria
spalancò la porta, facendomi raggelare. Entrai nella torre. Nell’oscurità del
luogo riuscii a vedere una strano figura che scendeva dal soffitto fino ad
arrivare al pavimento della cattedrale: si muoveva sinuosa come se avesse una
vita tutta sua. La fune rovinata che serviva a muovere il sistema di contrappesi
facendo suonare la campana, era rimasta lì, dimenticata, mossa dal vento che
filtrava dai muri. Una lunga scala si diramava intorno al muro quadrangolare
portando fino in cima, verso una botola sul soffitto. Come aveva detto il
sacrestano la scala, come il resto della torre, era diventata con il tempo
sempre più pericolante. Buchi e fessure si erano aperte lungo il muro e ,con il
passaggio dell’aria, creavano strani suoni. Le scale costruite usando le stesse
pietre della torre erano tutte rovinate, alcune si trovavano a terra frantumate
per l’altezza da cui erano cadute.
Se nella cattedrale il suono della campana
era attutito dai muri, lì si poteva udire distintamente. Era così potente che a
ogni rintocco sembrava che la costruzione ormai traballante fosse prossima a
cadere.
Strinsi ancora più forte il manico
dell’accetta e senza pensarci troppo iniziai a salire le scale verso il
campanile.
L’intera torre era alta il doppio della
cattedrale. La sua mole si poteva osservare anche fra la nebbia in tutta la
valle.
La salita era resa difficoltosa non solo
dallo stato dei gradini in pietra, alcuni dei quali totalmente assenti ,ma
anche dal difficile equilibrio che avevo lassù in balia del vento reso ancora
più impetuoso dall’altezza. Le scale non avevano ringhiera e la mia presa lassù
era sempre meno salda. Molte volte rischiai di cadere ma con molta fortuna
riuscì a continuare a salire sempre più su, verso il campanile.
Scalino dopo scalino riuscii a toccare il
soffitto: la botola che accedeva al piano superiore non era lontana. Usando
l’accetta ruppi la catena che teneva chiusa la botola, la aprii e accedetti al
piano superiore.
Quando misi la testa su per la botola potei
vedere un enorme corpo scuro muoversi avanti e indietro. La sua notevole
mole,fatta in liscio bronzo scuro,stava quasi per colpirmi la testa prima che
la tirassi indietro.
Aveva continuato a muoversi senza mai
fermarsi per vent’anni. Definita opera del diavolo fu lasciata a continuare il
suo rintocco creando paura e dolore tutt’intorno per anni e anni.
E ora l’avevo proprio di fronte ai miei
occhi. Risalii velocemente dalla botola facendo attenzione alla campana che
continuava a muoversi. Occupava quasi tutto lo spazio ed era difficile restare
in equilibrio lì in cima.
Il vento , ancora più forte a
quell’altezza, sferzava con violenza dalle quattro grandi finestre ad arco che
formavano i muri del campanile, su cui poggiava il tetto. Gli angoli della
costruzione erano colonne in pietra che salivano in cima fino a formare una
lunga guglia .
La campana si muoveva avanti e indietro,
attraversando prima l’una, poi l’altra finestra. Il suo rintocco era così
assordante che, ancor prima di accorgermene, avevo le mani sulle orecchie,
cercando di attutire quel suono profondo che rimbombava sempre più nella mia
testa.
Lentamente mi rialzai facendo leva sul muro
in pietra e ripresi equilibrio. Mi aggrappai alla corda che cadeva giù dal
ceppo e pendeva giù fino ad arrivare alla base del campanile. Ripresi l’
accetta in mano, la strinsi salda fra le dite affinché non scivolasse.
Lentamente mi diressi verso la scala in legno che portava al di sopra della
campana. Inizia a salire gli ultimi gradini mentre al mio fianco la campana
continuava avanti e indietro senza fermarsi.
Nessuno la muoveva eppure lei continuava come se una forza invisibile la
costringesse a muoversi e a suonare, un rintocco infinito che andava senza
tempo.
Lentamente salii i pioli con l’accetta
stretta in mano, facendo forza sul legno mi alzai sulle assi che formavano il
soppalco del campanile. Intravidi nell’oscurità di fronte a me i sistemi di
contrappesi che muovevano e allo stesso tempo tenevano salda la campana.
Strinsi ancora più forte il manico dell’accetta nelle mani fino a farmi male. La alzai fin sopra la testa per
caricare il colpo. Con rapidi passi mi avvicinai sempre di più alla struttura
in legno. Velocemente e inesorabilmente la lama scese giù e colpì. Continuai a
colpire sempre di più, con forza, prima scalfendo, poi danneggiando sempre di
più il perno che sosteneva il peso della campana. Il legno del perno era duro e
resistente, superava in spessore il mio braccio e non sarebbe crollato facilmente.
Continuai a colpire fino a che la lama non aveva lasciato un profondo solco nel
legno. Schegge cadevano dal ceppo come fosse una ferita aperta. Il peso della
campana si fece infine sentire e l’intera struttura cadde.
Fu un volo da ricordare. L’enorme peso
della campana facilitò i miei sforzi. Presto il legno cedette e la campana
senza più un sostegno cadde nel vuoto con una tale forza che potei vedere
soltanto una grande ombra nera muoversi nell’aria. L’urto con il suolo innalzò
una grande colonna di polvere e detriti. Il suono dell’impatto si propagò per
la valle come l’ultimo urlo di un mostro che muore. Con quell’ultimo atto la
campana aveva finito la sua storia. Paura, dolore, miseria e rovina erano cadute
insieme a lei senza far più ritorno in quel luogo dimenticato.
Il mio respiro era sempre più affannato per
la stanchezza. Le gambe tremavano e le mie braccia erano senza forza. Lasciai
cadere l’accetta dalla mano sfinito. Mi sedetti. Osservai attonito il paesaggio
da lassù. Finalmente un momento di riposo dopo quel lungo cammino.
La Luna ritornò a illuminare la cattedrale
con la sua luce soffusa. L’aria fredda che sentivo da lassù faceva rabbrividire
la mia pelle.
Quando il mio cuore ritornò a battere
normalmente mi rialzai e scesi le scale. Mi diressi alla botola e rientrai
all’interno della torre. Gradino dopo gradino ridiscesi giù fino a toccare di
nuovo terra. Uscii dalla porta e rientrai nella cattedrale. L’ambiente sembrava
ora più vuoto senza il suono della campana: nulla disturbava quel silenzio.
Camminai lungo la navata principale,
oltrepassai l’altare illuminato dalla luce che filtrava dallo squarcio nel
tetto dell’abside e mi diressi senza esitazione verso la sacrestia, lasciai
l’accetta al suo posto e uscii per ritornare al cimitero. Ripercorsi di nuovo
il viale di pietra fra tombe e mausolei per un lungo tratto.
Infine ritornai alle tre tombe vuote. Ora non avevo più paura e discesi
la scala nella terza tomba con la gioia nel cuore. Come l’avrebbe presa il
sacrestano, la notizia della caduta della campana? Sarebbe di nuovo scoppiato
in lacrime dalla gioia, oppure sarebbe risalito dalla catacomba per poter
essere certo della caduta della campana? Scesi velocemente le scale e ritornai
alla catacomba.
Il fuoco crepitava ancora creando bagliori di luce nell’oscurità. Mi
diressi con passo svelto verso il fuoco e intravidi nella luce la figura del
vecchio seduto vicino al muro a riscaldarsi.
Il suo volto subito si illuminò quando mi vide arrivare. Lentamente mi
sedetti vicino a lui e raccontai l’esito della mia azione. Dopo tanti anni la
campana era stata distrutta, portando con sé il segreto di quell’eterno
rintocco. Di nuovo il vecchio scoppiò in lacrime dalla gioia. Il suo incubo era
finalmente finito e poteva trovare ora la dignità che aveva perso da troppo
tempo, uomo senza coraggio prima, pieno di speranza ora. Anch’io rimasi lì,
seduto vicino al fuoco, a ridere e a gioire; finalmente ero arrivato alla fine,
o almeno così pensavo.
Tra un singhiozzo e l’altro, il sacrestano si asciugò le lacrime e
fermò con la mano il mio braccio. C’era ancora dell’altro, il mio compito non
era ancora finito.
Con commozione il vecchio iniziò a raccontarmi che vent’anni fa, prima
che quell’incubo iniziasse, conduceva una vita felice in campagna. Una vita
ritirata dallo stress della città ma comunque felice e appagante. Quando decise,
sulla tomba del suo vecchio amico, di nascondersi nella catacomba lasciò
insieme al mondo anche i suoi cari che l’aspettavano ogni sera. Il suo unico
desiderio era ora ritornare da loro e poter rivedere i loro volti un’ultima volta. I ricordi dei suoi cari
erano ancora vividi nella sua mente e la loro perdita era una ferita non ancora
risanata.
Abbassai lo sguardo verso il fuoco. Ero ancora stanco per il lungo
cammino e sfruttavo quel momento di tranquillità per riposarmi. Il vecchio, dopo il suo racconto, rimase ad
aspettare in silenzio.
Ripensai a tutto quello che mi
era successo: il corvo alla mia finestra, il viaggio verso la cattedrale, il
passaggio per la catacomba, la campana caduta. Avevo salvato il vecchio dalla
sua paura ma sapevo che non bastava ancora, il mio compito non era ancora
finito. Un nuovo viaggio mi attendeva e questa volta il sacrestano mi avrebbe
accompagnato.
Distolsi gli occhi dal fuoco e con fatica mi rialzai sulle mie gambe. Avevano
già camminato abbastanza e il mio corpo chiedeva solo riposo, ma per questa
volta non l’avrei accontentato.
Il vecchio mi fissava con occhi pieni di apprensione e timore. Non
potevo lasciarlo là a continuare a vivere in quel modo, quell’
uomo meritava di rivedere i suoi cari.
Gli confidai allora l’idea che si era fatta strada nella mie mente:
riaccompagnarlo dalla sua famiglia.
Il sacrestano non seppe reprimere un moto di entusiasmo a quelle
parole. Non desiderava altro che riabbracciare i suoi familiari ma aveva paura
di chiedermi un altro favore dopo tutto quello che avevo fatto per lui.
Fermai con un cenno della mano i suoi ringraziamenti . Non era ancora
tempo di ringraziarmi. Il cammino era ancora lungo e il tempo era ormai volato
via.
Lo aiutai a tirarsi sulle
proprie gambe. Il lungo esilio in quella catacomba avevano lasciato conseguenze
gravissime sull’uomo sia psicologicamente che fisicamente. Ormai il suo corpo
emaciato e senza forza non gli avrebbe permesso la lunga camminata che si
profilava all’orizzonte.
Senza che dicesse nulla, mi chinai e lo feci salire sulle mia schiena,
il suo corpo era diventato troppo debole per affrontare un lungo viaggio come
quello e non avrebbe potuto fare un altro passo senza il mio aiuto. Lentamente
mi diressi verso le scale per risalire in superficie. Una volta tornati
all’aria aperta, il viso del vecchio si illuminò. Da anni non respirava aria
fresca e non sentiva il cielo aperto sopra la testa . Mi diressi senza indugio
di nuovo verso la cattedrale, seguendo a ritroso il sentiero in pietra.
Quando in lontananza il vecchio riconobbe la sagoma della cattedrale,
non riuscì a trattenere un moto di meraviglia. La valle cinta dalle montagne era
ora più vuota senza il rintocco della campana che disturbava il suo silenzio.
Attraversai il viale di tombe e rientrai nella sacrestia. Una grande
malinconia pervase il vecchio mentre si perdeva nei ricordi che quei luoghi gli
avevano risvegliato.
Mentre attraversavo la navata
centrale il sacrestano mi raccontò della grande prosperità e ricchezza che
aveva raggiunto la cattedrale quando era ancora nel massimo del suo splendore.
Oltrepassai il grande portone in legno e attraversai il grande spazio
verde verso il cancello fra le mura. L’erba del prato era ancora bagnata
dall’umidità e il terreno era soffice sotto i miei piedi.
Quando volsi lo sguardo ad est ,potei vederla di nuovo: la campana. Si
trovava ora ai piedi del campanile, il suo colore scuro nel verde dell’erba
alta e la sua grande mole la rendevano visibile nell’oscurità. Il sacrestano,
accortosi del mio disagio, volse lo sguardo per capire cosa aveva attirato la mia
attenzione.
Il respiro gli si fermò e potei percepire il suo disagio quando i suoi
occhi si fermarono sulla grande mole che si stagliava a decine di metri da noi.
Nessuna parola fu riferita e il lento camminare ci portò ben presto
lontano dalla vista la sagoma della campana.
Oltrepassai il grande portone in ferro con l’ uomo ancora sulla
schiena. La foschia, che prima aveva invaso tutto il paesaggio, si era ora
diradata lasciando il mio cammino sgombro da ogni difficoltà. Il vecchio, chino sulla mia
schiena, sonnecchiava allegramente; per lui quel giorno era stato pieno di
emozioni e ora reclamava un attimo di riposo.
Presto attraversai l’ultimo tratto e arrivai al passaggio che si apriva
nella catena montuosa. Dopo un breve tratto nella stretta gola, accerchiato
dalle pareti delle montagne uscii dalla valle e tornai sul sentiero che mi
aveva portato in precedenza fino alle montagne.
Quando tornai al bivio che già avevo oltrepassato, il sacrestano mi
fermò e mi indicò la via così come aveva fatto in precedenza il corvo.
La strada di destra era la strada scelta dal sacrestano, il sentiero
che portava verso le casupole che vedevo in lontananza.
La notte stava ormai finendo e
La notte non era ancora scesa e avevo timore
di svegliare gli abitanti di quella casa, ma il vecchio non accettò obiezioni
dicendomi che i suoi familiari sarebbero stati felici di rivederlo, niente e
nessuno avrebbero potuto fermarlo ora. Troppo tempo era stato lontano dalla sua
famiglia e ora non voleva perdere un solo istante.
Accettando le ragioni del sacrestano mi
diressi verso la porta della casa. Lasciai percorrere quegli ultimi passi al
vecchio. Bussai una prima volta sulla porta in legno, poi una seconda e una
terza. Sentii rapidi passi all’interno della casa e borbottii stanchi. Dopo un
breve silenzio la porta si aprii.
Un giovane uomo si presentò sulla soglia
chiedendo chi fossi io e l’uomo anziano in mia compagnia. Senza aspettar oltre
il vecchio si lanciò verso quel giovane uomo e lo abbracciò con forza. Il
sacrestano non poteva non riconoscere suo figlio, ora divenuto uomo, anche se
erano passati così tanti anni. L’uomo sulla soglia rimase interdetto da quel
gesto inaspettato e dovette aspettare qualche minuto per lasciarmi spiegare
l’intera storia che mi aveva visto protagonista prima di capire l’ identità
dell’uomo che lo aveva accolto con così tanto calore. Quando il figlio capì di
aver ritrovato il padre che aveva perduto tanti anni fa, non poté trattenersi
dalla gioia e svegliò tutta la famiglia per festeggiare quell’ ospite inatteso.
Da molti anni, ormai, aveva perso la speranza di ritrovare quel padre perduto e
ora voleva che tutti fossero partecipi alla sua gioia. Tutti erano lieti e
felici di rivedere il loro caro dopo tanti anni e più volte gli chiedevano di
narrare ancora la sua incredibile storia. I giorni bui erano ormai dimenticati
e ora una nuova speranza stava pian piano sbocciando. Almeno così credevo…
Il
sacrestano fu felice di rivedere i suoi cari, ma in cuor suo sapeva che quella
non era l’ultima meta del suo viaggio e un altro luogo reclamava il suo corpo e
la sua anima.
Quando si profilavano all’orizzonte i primi
raggi di un Sole prossimo a rinascere, il vecchio fermò tutti e diede una
notizia che rattristò tutti: il suo tempo era giunto e presto sarebbe morto.
Come una bufera inaspettata che spazza via i
germogli prossimi a crescere, così la speranza scomparve dai cuori dei
familiari riuniti intorno al loro caro. Nessuno si aspettava una notizia del
genere; tanto meno il figlio, che dopo aver creduto morto suo padre dopo tanti
anni ora scopriva che lo avrebbe perso comunque. Il sacrestano pregò i suoi
cari di non rattristarsi troppo, affinché il suo addio non fosse per lui troppo
doloroso. Calorosi furono gli ultimi saluti che i familiari diedero al vecchio,
così da infondergli la forza per continuare il suo viaggio. Quando i saluti
furono finiti il sacrestano mi prese da parte e mi chiese il suo ultimo
desiderio: voleva tornare alla cattedrale e riposare nella tomba che egli
stesso aveva scavato tanto tempo fa per lui. Una nuova ombra si addentrò nel
mio cuore al pensiero che sarei dovuto tornare in quel luogo dimenticato da
tutti, persino da Dio…
Dovevo finire quello che avevo cominciato,
non potevo tirarmi indietro proprio ora e se il mio fato aveva deciso che sarei
dovuto tornare in quel luogo, l’avrei fatto senza indugi. La paura, che prima
aveva trovato terreno fertile ,nel mio cuore pieno di dubbio e incertezza, dove
poter germogliare, trovava ora il coraggio, rafforzatosi nel corso della mia
avventura, a contrastarla.
Acconsentii con piacere ad accompagnare per
l’ultima volta alla cattedrale il vecchio sacrestano e senza indugi consigliai
di partire subito. L’addio che diede il figlio a suo padre fu un lungo
abbraccio dal quale i due non volevano uscire; piccole lacrime rigarono il
volto di entrambi. A malincuore il sacrestano lasciò i suoi familiari, ma il
cammino davanti a noi era ancora lungo e non rimaneva più molto tempo.
Tornai sul
sentiero che mi aveva portato fin lì con il sacrestano di nuovo sulla mia
schiena per affrontare quell’ultimo viaggio.
Il sentiero verso
le montagne era deserto e silenzioso e niente sembrava disturbare
quell’atmosfera sacrale. Le mie gambe erano provate dalla lunga fatica e mi
costrinsero a rallentare il mio cammino; sia io che il sacrestano rimanemmo in
silenzio, le parole sembravano ormai fuori luogo in quella strana situazione. L’atmosfera
intorno alla cattedrale era calma e silenziosa e sembrava che niente
dell’oscuro passato di cui quel luogo era stato teatro fosse sopravvissuto a quella
notte. Arrivai ben presto alla sacrestia e tornai a camminare sul sentiero in
pietra diretto nel cuore del cimitero. Il sacrestano era ancora poggiato sulla
mia schiena perso ormai nei suoi pensieri, il suo respiro si era fatto sempre
più affannoso lungo il cammino facendomi preoccupare del poco tempo che ormai
gli rimaneva. Le tre tombe vuote si presentarono presto ai miei occhi. Il
sacrestano mi fece fermare lì e mi chiese di farlo riposare un attimo. Lo feci
sedere vicino a una statua che ritraeva un angelo piangente; il suo respiro era
diventato più stanco e i suoi occhi erano più vitrei. Le sue pupille erano ora
piccoli puntini neri e lo sguardo sembrava perso nel vuoto. Mi chinai verso di
lui per confortarlo e asciugargli il sudore che bagnava la sua fronte. Il suo
volto sofferente lasciava trasparire tutta la sua paura che in quel momento
aveva intrappolato il suo cuore. Usando le ultime forze che gli rimanevano mi
diede le ultime indicazioni che dovevo seguire.
Mi raccontò che
le tre tombe vuote che avevo davanti erano le tombe che egli stesso aveva
scavato tanto tempo insieme a tutte le altre, prima che la campana trascinasse
in quel terribile incubo l’intera zona. La prima tomba senza lapide sarebbe
toccata al figlio quando la morte lo avrebbe reclamato; la seconda con la bara
era invece del sacrestano, lì sarebbe stato posto per riposare per sempre nel
luogo dove per tanto tempo aveva vissuto, fra tombe e lapidi, all’ombra della
cattedrale. Le ultime parole sofferte del sacrestano furono per me: mi
ringraziò con tutto il cuore per quello
che avevo fatto e per la gioia e la felicità che gli avevo donato nell’ultimo
momento della sua vita. Mi ringraziò per il coraggio che avevo dimostrato e mi
confidò di essere stato profondamente colpito dalla grande forza d’ animo che
avevo mostrato di possedere, la migliore fra tutte le qualità che un uomo possa
avere. Detto questo il sacrestano morì…
LA sua testa si accasciò
sulla spalla e un espressione calma ma felice rimase sul suo volto ormai
freddo.
Mi alzai e presi
fra le braccia il corpo senza vita ; con calma lo adagiai nella bara vuota .
Sistemai la cassa nella fossa; presi la pala poco lontano e iniziai a ricoprire
di terra la tomba . La vita del
sacrestano era finita nel luogo che per tanti anni era stata per lui una
seconda casa e una ragione di vita. Nessuno più lo avrebbe disturbato,
lasciandolo riposare in pace in eterno…
Rimasi lì ancora
qualche istante, in silenzio sopra la tomba per dare l’ultimo omaggio a
quell’uomo che uno strano gioco del destino mi aveva fatto incontrare per
aiutarlo forse a redimersi e morire così in pace.
Presi un lungo
respiro e mi volsi verso la cattedrale. Finalmente il mio compito era finito e
potevo tornare a casa. Attraversai la cattedrale con ancora in mano la pala e oltrepassai
il cancello fra le mura per tornare al passo fra le montagne. Tornai da dove
ero venuto, seguendo il sentiero che avevo attraversato con il corvo in un
tempo che mi sembrava ormai lontanissimo. Proseguendo su un strada lungo il
litorale potei osservare uno spettacolo che mi costrinse a fermarmi e ad
osservare estasiato il cielo. Il Sole stava ora sorgendo all’orizzonte
spazzando via la notte che aveva dominato per tutto il mio viaggio. I suoi
raggi, riflessi dalle acque calme del mare, illuminavano il cielo donandomi una
serenità a lungo agognata e finalmente ottenuta.
Seguendo il
sentiero sul litorale tornai presto in città; quei luoghi a lungo dimenticati
sembravano ora ai miei occhi cambiati, ma forse non erano loro a essere
cambiati ma io. Difficile pensare che dopo l’avventura che avevo vissuto non
fossi cambiato, la mia anima si era arricchita da quella esperienza e ogni mia
esperienza sarebbe servita in un prossimo futuro. Tutti noi ci prepariamo
all’ultimo viaggio che ogni essere umano deve affrontare e dipende solo da noi
decidere come affrontarlo.
Salì le scale il
più velocemente possibile per poter tornare nell’unico posto dove mi sentivo al
sicuro: la mia cameretta. Quando vi entrai vidi che niente era cambiato e tutto
era al suo posto. Lentamente posai la pala e mi sdraiai sul letto in un lungo
sbadiglio.
Finalmente ero
tornato e niente e nessuno mi avrebbe più disturbato. Come ultimo atto presi il
New Economy per leggere un articolo sul commercio del
tonno in Norvegia.
Fine