Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: GuessWhat    02/11/2014    1 recensioni
LONG SOSPESA // Weiβdorf, nella bassa Germania, è un qualunque villaggio di montagna, con i suoi problemi, le sue piccole gioie e le sue sporadiche razzie di bestie feroci ai danni dei pastori. Storia vecchia, almeno fino a che i cacciatori cominciano a scappare terrorizzati dalla montagna, urlando di guardarsi dalla maledizione del lupo.
"Eren Jaeger dava l’impressione d’essere una creatura che aspetta, in silenzio, nel suo angolo, che la tempesta passi. [...]
Eppure nelle notti di luna non c’era mai apatia in lui.

[Werewolf!Eren; hunter!Jean]
[Eren/Jean pairing principale; accenni di Erwin/Levi]
Storia scritta in occasione di Halloween. Buona notte delle streghe!
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger, Irvin, Smith, Jean, Kirshtein
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Jean si svegliò con l’impressione d’avere fatto un brutto sogno. Non male come prima notte di sonno nel suo letto nuovo! Nel suo incubo terrificante, andava per boschi di notte (lui, per boschi, di notte?) e veniva sorpreso da un lupo enorme, il più grosso che avesse mai visto. Stava per essere mangiato, aveva visto le fauci vicinissime al viso ma, chissà come, era riuscito miracolosamente a sfuggirgli. Stiracchiandosi, Jean convenne con se stesso che aveva bevuto davvero troppo!
Aveva bevuto così tanto che si era pisciato sotto durante la notte: trovò i pantaloni abbandonati in una cesta e, Dio, che fetore! Il cattivo odore si era attaccato alle pareti della stanza e doveva mandarlo via. Strano, si disse nell’aprire la finestra, come si fosse ripreso così bene dalla sbornia. Di solito si svegliava completamente rintronato, stanchissimo, incapace di mettersi in piedi e… Per quale ragione il suo borsello era sul davanzale della finestra?
Jean prese il sacchettino di tessuto in mano e lo tastò. Ricordava con precisione quanti soldi avesse e per essere certo, si mise al tavolo a contarli. Ma non aveva speso neanche una moneta, il che –se consinderava che era quasi del tutto certo che si trattasse di una sbornia- era improbabile.
Fissò lo spazio della finestra aperta, allarmato. Guardò i pantaloni intrisi della sua urina e capì, ricordando di colpo molto bene i particolari della notte trascorsa. Scese un brivido lungo la sua schiena e non si trattò di piacere. Un lupo, grande o piccolo, era un lupo. Tuttavia, la bestia gigantesca che aveva visto non poteva essere un lupo normale: era fuori discussione.
Trovarsi ad ammettere che poteva trattarsi di un lupo mannaro era una possibilità troppo agghiacciante da accettare ma, si disse sfregandosi la faccia con le mani gelate, sembrava essere la spiegazione più plausibile per tenere insieme tutti i fattori. Come si uccide un lupo mannaro? Ne doveva parlare col prete, farsi dare una benedizione, dell’acqua santa, proiettili d’argento? Sarebbe stato un cacciatore o un assassino?
Il suo stomaco gorgogliò dalla fame e Jean capì ch’era troppo presto per affollare il suo piccolo cervello di così tante domande. Controvoglia, si vestì e scese in refettorio. A giudicare dal cielo l’ora di colazione era passata da un bel pezzo, ma trovò comunque padre Georg che acconsentì di buon grado ad offrirgli un tozzo di pane bianco con della marmellata di fichi. Jean mandò giù tutto con un sorso d’acqua gelata e si diresse verso le scuderie per controllare lo stato di Jonah dopo la notte folle.
Il cavallo lo accolse con un bel nitrito vivace, Jean ne fu immediatamente sollevato e sorrise, a dispetto del malumore e delle mille paranoie. Lo nutrì, gli cambiò la coperta e controllò che fosse tutto a posto. Non mostrava ferite o nessun tipo di ammaccature, era, non per nulla, un cavallo addestrato: non un ronzino o uno di quei cavalli raffinati per cui si diceva i nobili inglesi andassero matti. C’era un solo problema: gli era saltato via un ferro.  “Ah, Jonah, credo che dovrò portarti dal maniscalco!”
Dopo essersi fatto dare un paio d’indicazioni da uno dei fratelli, Jean si armò di catana in cui fece scivolare i suoi risparmi e a passeggio, si diresse verso il luogo dove aveva sede la bottega del maniscalco Kornelius. Gli fu descritta come un edificio basso e molto largo di fianco ad un canaletto di scolo, con una grossa insegna rossa davanti e una grande porta da cui fare passare cavalli e carrozze.
“Buongiorno?” salutò l’aria. Intorno a lui non c’era nessuno nella grande bottega fatta di spazi gestiti alla bell’è meglio, a parte una figura maschile dai capelli castani, seduta di spalle, occupata a battere chissà che cosa.
“Ah? Buongiorno!” un vocione da omaccione lo sorprese alle sue spalle. Jean si ritrovò faccia a faccia con il naso aquilino e i rinomati baffoni del maniscalco Kornelius.
“Buongiorno!” ripeté Jean, meccanicamente, “Ho bisogno di assistenza per il mio cavallo.”
Assistonsa per il suo cavallo, oui?” Kornelius rise e gli fece cenno di porgergli le redini.
Jean, oramai abituato alle battute sul suo accento, si fece da parte. “Gli è partito un ferro.”
“Ahh, vedo, vedo. Ma che avete fatto a ‘sta povera bestia?” chiese Kornelius, sparito sotto alla pancia di Jonah.
“Sono andato a caccia.”
Kornelius riapparve oltre la schiena del cavallo con la faccia di chi ha capito qualcosa di molto importante. “Ohh, allora voi siete il cacciatore francese.”
“Sì, signore. Pensavo lo aveste intuito.”
“Ahah. Beh, non pensavo che i francesi potessero fare il cacciatore, di mestiere” Kornelius si raddrizzò la schiena con i palmi e prese di nuovo le redini del cavallo. “Ah, vabbé. Datemi, datemi il cavallo, ci pensa mio figlio, noi stiamo qua fuori a farci quattro chiacchiere.”
Troppi grilli per la testa, Jean, per avere voglia di chiacchierare. Fece buon viso a cattivo gioco ed annuì.
Kornelius si avvicinò, seguito da Jonah, alla figura maschile che continuava a battere il ferro e gli diede un colpo di nocche sulla sommità della testa. “Smettila di scolpire uccelli, c’è un ferro da rifare.”
La persona non rispose né alle parole, né al gesto, limitandosi a posare gli attrezzi del mestiere con calma, alzarsi ed andarsi a posizionare nel verso lo zoccolo danneggiato, ovvero in direzione della porta. Il sedere del cavallo copriva gran parte del capo della figura, ma non che a Jean importasse granché vedere in faccia chi si sarebbe occupato di uno stupidissimo ferro.
Gli urtava, piuttosto, doversene stare sulla porta a patire il freddo quando nella bottega c’era proprio un bel calduccio scaturito dalla fucina.
“Allora, che mi dite della caccia? Avete trovato il lupo?” domandò Kornelius, sfregandosi le mani piene di calli e scottature.
Kornelius non poteva rivolgergli domanda più sbagliata. “Non ancora” mentì spudoratamente, “Quella bestia sa nascondersi bene, molto bene. Ho piazzato qualche trappola qui e là ieri pomeriggio, il più vicino possibile a pascoli e fattorie.”
“Avete fatto bene. Stanotte ha ululato così forte che l’hanno sentito persino giù in paese, e noi viviamo vicino al bosco.”
“Davvero?”
“Non ci avete fatto caso?”
“…Dormivo.”
“Avete il sonno pesante, per essere un cacciatore.”
“È così” tagliò corto Jean, “Ci sono state vittime stanotte, tra il bestiame?”
Kornelius chiuse gli occhi ed annuì serio. “Una vacca del vicino. L’abbiamo trovata nel nostro cortile” e l’uomo ebbe un brivido, forse non di freddo, nel continuare il discorso, “Stamattina mio figlio si è svegliato e l’ha trovata davanti al fienile. Una cosa spaventosa. Se non l’avessimo sentita ululare, quella bestia, non andremmo mai a pensare che si tratta di un lupo: ha la forza di un orso.”
“Davvero la forza di un orso” convenne Jean.  Se solo il povero Kornelius avesse saputo. “Da quanto va avanti questa storia?”
“Ah, saranno almeno cinque anni, a dire il vero” fece spallucce, “Abbiamo perso il conto. Insomma, non che non capiti mai di ritrovarsi con una pecora sbranata, in montagna. Quindi c’è voluto un po’ prima che notassimo che stava iniziando a diventare l’abitudine.”
Jean si fece molto attento. Aveva già chiara (più o meno) la natura del mostro e di fronte ad un villico qualunque, tutto ciò ch’era in suo potere fare era fingere. “I preti mi hanno informato che ci sono già stati altri cacciatori prima di me.”
Kornelius storse i baffi (piuttosto che la bocca) e sembrò sul punto di sputare per terra. “Rammolliti buoni a nulla. Non erano meglio della gente di qua, che crede che sia un… Bah, un lupo mannaro. Scemenze.”
Jean si ritrovò, suo malgrado, ad annuire. E fino alla notte prima gli avrebbe dato pienamente ragione – tuttavia, ricordarsi che gli altri erano scappati e lui era rimasto, gli dava un pizzico di coraggio in più. “Assolutamente. Fandonie.”
“Sì, vedo che ci capiamo. Cazzate. Fandonie. Per me si tratta solo di un lupo un po’ più grosso degli altri e un po’ più minaccioso, ve lo dico io. Vah, entriamo, che sto gelando.”
Jean, infatti, iniziava a domandarsi come mai dovessero patire il freddo fuori dalla bottega. Rientrando, vennero accolti dal piacevole tepore della fucina, un calore dolce, sebbene non abbastanza persistente da convincere Jean a togliersi il suo pastrano foderato di pelliccia. Il figlio del proprietario, nel frattempo, batteva il ferro contro allo zoccolo del cavallo. Jonah cercò lo sguardo del suo cavaliere, ma tutto sommato era tranquillo e masticava del fieno.
Quel ragazzo, o uomo, era straordinariamente silenzioso.
“Vostro figlio sta bene? Non è che vedere la mucca morta l’ha terrorizzato?” chiese sottovoce Jean a Kornelius.
“No. Comunque, dicevo, sono tutte storie inutili. Non avranno cercato d’intortarvi?”
“Il parroco mi ha messo in guardia.”
“Ahhh! Quella testa d’asino del parroco! Sia maledetto il giorno in cui è arrivato in paese. Io non so che cazzo abbia combinato alla testa di mio figlio, ma più passano gli anni e più è bacato. E meno male che mia moglie dice che migliora. Sarà, ma a vent’anni nessuna se lo vuole sposare. Per me, tutto di guadagnato” Kornelius concluse il suo discorso edificante tirando su col naso.
Jean, che pure non era stato cresciuto coi guanti bianchi, fu costretto ad ammettere che suo padre non aveva mai parlato così male di lui in sua presenza. Arrivò quasi a pensare che il figlio del maniscalco fosse sordo, improbabile visto che si era alzato all’ordine del padre di sistemare lo zoccolo e non aveva potuto vederlo in faccia per leggergli le labbra.
“Che c’entra il parroco?”
“Mah, niente. È solo che mio figlio aveva delle crisi, ogni tanto, e il parroco ha pensato bene di portarlo in chiesa quando succedeva. Ma io” Kornelius agitò il dito indice in segno di diniego, guardando Jean dritto negli occhi, “Di quei preti non mi fido.”
Jean ridacchiò di circostanza. Quel ragazzo poteva avere tutti i problemi del mondo, ma ci stava mettendo troppo per la sua pazienza sempre più fine: Kornelius gli stava attaccando un pippone infinito su argomenti che o non gli interessavano, o preferiva evitare. Jean cominciava seriamente a spazientirsi.
Allungò il collo verso il ragazzo seminascosto dalla coda del cavallo e lo incalzò a voce. “Oh, ci diamo una mossa qui? Ho da fare, ragazzino!”
Il ragazzo sollevò la testa per guardarlo e Jean rimase pietrificato.
Due grandi occhi gialli gli fissarono l'anima dal fondo delle pupille, profonde come grotte. Il tempo si dilatò fino a fermarsi per la seconda volta nel giro di poche ore.
Il figlio del maniscalco era un ragazzo davvero grazioso, dai tratti regolari, la pelle olivastra, un bel naso nel mezzo del viso, e una zazzera disordinata di corti capelli castani. Era davvero molto carino. Persino troppo. A dispetto delle macchie di sporco e fuliggine sul suo viso, Jean riusciva a trovarlo interessante. Desiderabile, addirittura.
I suoi occhi non erano belli, però. Erano a dir poco inquietanti, lo mettevano a disagio e, al tempo stesso, il suo sguardo fisso gli seccò la gola. Dovette ricordarsi di respirare e deglutire. Percepiva il suo giudizio, il suo essere selvaggio e soprattutto, il suo ringhio cupo fin dentro le orecchie.
"Non fate caso a mio figlio" proferì Kornelius, nel frattempo fattosi vicino al ragazzo. Jean udì a malapena le sue parole ma il pugno chiuso battuto sulla testa come fosse stata un vaso vuoto, quello lo vide benissimo. Il tutto mentre il giovane lo fissava. "Eren è un po' ritardato. Scemo."
"Ah.. Ah, davvero?" chiese Jean, a disagio, con voce incerta. Tentò di alzare lo sguardo verso Kornelius ma qualcosa, negli occhi d'oro del ragazzo di nome Eren, glielo vietava. Kornelius non aveva capito niente di suo figlio. E lui, un banalissimo sconosciuto, aveva catturato la sua essenza con una sola occhiata!
Quello non era lo sguardo di un malato di mente, non poteva esserlo nel modo più assoluto!
"Eh, abbiamo avuto questa sfortuna" disse Kornelius, "Ma a modo suo non è mica stupido, sapete. Fa questo mestiere meglio di qualunque altro garzone" gli scompigliò i capelli castani e, a giudicare dall'espressione, per Eren fu come se nulla fosse accaduto. "Non parla tanto, non gli piacciono le persone, non si ammala o ferisce, si trova bene con le bestie. Il mestiere ideale per lui. Mai una volta che abbia salutato un cliente, ma i cavalli... Uuh! Tutti buoni e docili con lui!"
Di nuovo la risatina di condiscendenza. Kornelius parlava e gesticolava senza che Jean ascoltasse una sola parola: le sue attenzioni erano tutte per Eren. Mille domande gli si affollarono per la mente, gli occhi s'aprirono sulla verità, e nello stomaco una morsa fortissima gli mozzò nuovamente il fiato. S'accigliò e strinse le labbra, provando una necessità fortissima e viscerale di stare da solo con lui. Eren lo aveva trascinato in un vortice sensuale di dubbi e paura, e non gli era servito aprire bocca; era la sua semplice presenza, la sua esistenza a turbare Jean. E al contempo ad eccitarlo.
"Non fateci caso, ha l'abitudine di fissare le persone nuove" Kornelius batté le mani sulle spalle di Jean che, trasalendo, smise finalmente di ricambiare lo sguardo di Eren. "Di solito, più le fissa e più gli piacciono."
"Come fate a dirlo, se non parla?" anche se.. Fosse stato, non se ne sarebbe lamentato. Ma che diamine andava a pensare? Eren era probabilmente il mostro del villaggio e lui, da imbecille che ragionava con le proprie parti basse, ci voleva fornicare? Doveva ritornare coi piedi per terra, e in fretta! Sebbene fosse troppo presto per decidere cosa fare della creatura, certi pensieri dovevano scomparire dalla sua testa.
Kornelius si strinse nelle spalle. "A dire il vero, non lo so. Lo dico tanto per tranquillizzare la gente che ne ha paura, non è un tipo pericoloso."
Jean lanciò un'occhiata dietro di sé e, come il battere del ferro avrebbe dovuto suggerirgli, Eren era tornato al lavoro. In quel momento, Jean realizzò di avere sparato una balla dopo l'altra sul lupo, in presenza del lupo stesso: poteva essere più stupido? E quel dannatissimo lupo, gli costava così tanto essere un lupo normale, alto il giusto, peloso e sporco, e non un ragazzo della sua età?
 
****
 
Eren non lo lasciò solo per tutto il resto della giornata.
Jean aveva sempre in mente i suoi occhi selvaggi che lo fissavano, leggendogli chissà quali sporchi segreti racchiusi nel profondo: in vita sua non gli era mai capitato di sentirsi così studiato, anzi, studiato era un termine riduttivo. Eren lo aveva fatto sentire addirittura sotto processo, messo alle strette da un mostro molto attraente - Dio. Che cosa sbagliata!  Cosa gli costava rendere il mostro un essere ripugnante, vecchio, magari ritardato sul serio? Ed invece il lupo che aveva accettato di cacciare non era altri che il giovane figlioccio del maniscalco, il quale gli aveva fatto salire la pressione con uno sguardo! Che avesse fiutato il suo timore misto a malsana attrazione?
Fingere che non si stesse facendo influenzare dai propri bassi istinti era inutile, ma poteva davvero essere solo una questione di desiderio? Pure quella, a dire il vero, aveva tutta l'aria di una scusa campata per aria. C'era dell'altro che il suo cuore orgoglioso non aveva intenzione di analizzare.
Il nostro cacciatore era stato un tipo impulsivo fin da bambino e persino da adulto trovava difficoltoso sopperire simili reazioni. La situazione davanti a sé chiamava a raccolta tutta la strategia che Jean era capace di usare - ben poca, se comparata alla gravità del caso; era l'uomo meno adatto allo strano caso del lupo mannaro, a voler ammettere il vero.
Jean, però -si disse quel pomeriggio, lavando i suoi pantaloni pisciati in una tinozza nella casa canonica-, non puoi arrivare così in là e scappare, mollando baracca e burattini in favore del prossimo cacciatore in arrivo. Cosa gli assicurava che il suo successore sarebbe stato magnanimo come lui, che non l'avrebbe ucciso brutalmente, magari torturato, esposto al pubblico ludibrio? Ah, diavolo, gli era bastato sapere che il lupo mannaro fosse un suo coetaneo per diventare pappamolla - e non magnanimo! Che razza di cacciatore era, tuonava il suo fucile sul tavolo, per lasciarsi abbindolare dagli occhioni di una preda?
"Sono un cacciatore, non un cazzo di assassino!" esclamò d'un tratto Jean, rivolto, forse, al Dio di lassù.
Dove sbattere la testa, dove? Chiedere l'aiuto di preti di cui non si fidava, ammazzare il lupo, provare a parlarci senza essere sbranato? Niente gli garantiva che, sotto minaccia, Eren non avrebbe potuto fargli del male; l'esperienza gli insegnava che non s'era mai troppo accorti con le bestie e le persone. Stava avendo pur sempre a che vedere con uno scherzo della natura, un lupo mannaro, e nessuno avrebbe mai potuto prepararlo a gestire una creatura delle leggende.
Coglierlo di sorpresa nella sua fase umana, tramortirlo e ucciderlo suonava pulito e veloce. Ma se l'avesse ucciso nella sua forma umana.. Lui sarebbe passato per pazzo e avrebbe di fatto preso lo scettro del matto del villaggio, strappandolo dalle mani del morto. E non era ciò che voleva ottenere dal suo soggiorno a Weiβdorf, in effetti.
Decise che per il momento l'avrebbe tenuto d'occhio. La bottega del maniscalco era proprio di fronte a una taverna: ottima posizione, in tutti i sensi. Un bel boccale di birra era ciò che ci voleva, se lo meritava eccome dopo tutto quell'assurdo casino!
Si diresse in taverna quella sera stessa, prima del tramonto, orario in cui era normale cominciare a chiudere bottega. Jean non aveva idea di cosa volesse dire l'insegna, e non per la scarsa luce dei dintorni data dai lampioni dal vetro opaco e dalle lanterne dentro al locale, ma per il fatto puro e semplice di essere un analfabeta. Un analfabeta che a malapena era capace di contare le monete in suo possesso e che schifava i villici.
Portò con sé il fucile, uno avrebbe potuto dire per vantarsi della finitura della sua arma (e in parte era così), ma Jean, per una volta, aveva scopi meno onesti del solito. Bevve poco e, nonostante tutto, le chiacchiere si sprecarono: lui più che altro stava zitto e rispondeva solo se interpellato mentre i paesani parlavano, facevano domande sul lupo e osservazioni -le solite- sul suo accento francese. Per quella sera e fino alla sua dipartita sarebbe stato il nuovo fenomeno di Weiβdorf. Ridevano di lui, e Jean se lo fece andare bene, consapevole di non essere un santo e di trovarli ridicoli con quei loro modi così squisitamente, disgustosamente crucchi.
Lanciava occhiate fuori dalla finestra, in cerca di un movimento nella bottega del maniscalco. Ormai era sceso il frettoloso buio autunnale e finalmente le luci della bottega vennero spente, proprio quando gli uomini che avevano attaccato bottone con lui cercarono di offrirgli un'altra birra; insomma, voi francesi bevete tutti così poco?
Jean, spazientito, buttò sul tavolo qualche moneta, disse loro di pagare per lui e dividersi il resto: lui andava a caccia. Questo bastò a far calare un senso di rispetto reverenziale nei presenti, qualcuno che addirittura gli augurò in bocca al lupo. Jean si fece un pensiero malizioso, poi si punì per esso, rimproverandosi tra sé e sé in silenzio.
Nell'esatto momento in cui uscì dalla locanda, Eren, dall'altro lato della strada, chiuse a chiave la porta del negozio del padre.
Jean si fermò sull'uscio a guardare la nuca del ragazzo. Corte ciocche castane sfuggivano ad una sciarpa rossa e un po' macchiata.
Eren, forse sentendo gli occhi di lui addosso, si volse e ricambiò il suo sguardo. Nella penombra, Jean ebbe l'impressione di avere visto i suoi occhi d'oro brillare, quasi un invito, prima che il loro luccicare sparisse sotto al cappuccio tirato sul capo. In un fruscio della mantella, Eren si allontanò a passo spedito.
E Jean subito dietro, al pari di un segugio addestrato.
Il cacciatore seguì la sua preda per le strade di Weiβdorf, ma ancora non imbracciava il fucile: era troppo presto. Il sangue già pulsava nelle sue tempie, le palme delle mani sudate, il fiato lento per non fare troppo rumore - come se poi i suoi passi fossero silenziosi. Le suole degli stivali scricchiolavano sul terreno allo stesso modo delle scarpe di Eren, ma per qualche motivo, Jean lo ritenne un suono irrilevante. I suoi passi percorrevano la strada del  lupo mannaro e dell'ondeggiare ipnotico della mantella e del cappuccio.
Jean aspettava il colpo improvviso allo stomaco che gli avrebbe fatto capire che si trovavano nel posto giusto. Capitò in una viuzza più stretta delle altre, in cui le finestre erano poche, non c'era l'ombra di un lampione ma solo una gran puzza di escrementi rovesciati dalle finestre. Il luogo ideale per l'agguato era il posto più brutto di Weiβdorf (dopo lo specchio in camera di padre Levi, probabilmente) e emanava fetore di latrina.
Il più velocemente che poté, Jean imbracciò il fucile e lo puntò verso la creatura, mentre il suo cuore palpitava così forte per l'emozione e la paura che a malapena udì le sue stesse parole.
"Risparmiare i cacciatori è un vizio, eh?"
L’ondeggiare della mantella s’arrestò e poi il tessuto roteò, seguendo il corpo del ragazzo che si girava verso il cacciatore. La bocca di Eren era sigillata, ma i suoi occhi erano spalancati, arrabbiati. Jean toccò col polpastrello il grilletto per assicurarsi che fosse lì.
Eren sbatté le palpebre e si avvicinò a lui. A Jean, la distanza tra di loro iniziò a sembrare davvero troppo esigua, o forse aveva l’impressione che il lupo mannaro si stesse avvicinando troppo in fretta, mentre in realtà Eren stava camminando verso di lui con molta calma. Senza batter ciglio.
Jean provò sensazioni molto simili a quelle che l’avevano posseduto la scorsa notte. Le sue gambe s’inchiodarono nuovamente sul posto e lui pregò di non pisciarsi addosso. Non davanti al lupo. Non di nuovo.
Il suo indice stava già per premere il grilletto tanto era il terrore di finire sbranato o ucciso, quando Eren si fermò a pochi passi da lui ed allargò le braccia. La rabbia sul suo viso divenne qualcos’altro, difficile dire cosa. Arrendevolezza? Jean non si sarebbe fatto infinocchiare così poco: raddrizzò subito le spalle che s’erano quasi rilassate ed assestò la mira.
“Fallo” le labbra di Eren si mossero e ne scaturì una voce adatta alla sua età, piacevole, non troppo profonda, che risultò gradita al cacciatore, “Non aspetto altro.”
Jean abbassò di poco il fucile e rimase a fissare la sua preda con tanto d’occhi e la bocca spalancata. Non credeva alle proprie orecchie. Aveva sentito bene? Il mannaro gli stava chiedendo di ucciderlo?
Sii ragionevole, si disse, ti vuole fregare. Adesso approfitterà del momento che ti sei distratto per saltarti addosso, squartarti e ucciderti. Non farti ingannare dai suoi occhioni, quello che hai davanti non è altri che un mostro. Solo un mostro.
Jean s’ingrugnì e con uno sbuffo dal naso, tornò a prendere la mira sulla creatura.
Eren non si mosse. Il ragazzo rimase immobile con le braccia aperte, in attesa della morte come un caro amico da abbracciare dopo tanto tempo. Guardava il cacciatore e Jean percepì l’attesa, ma oh, il lupo poteva starne certo, non si sarebbe fatto aspettare ancora per molto!
Doveva solo smetterla di figurarsi il bossolo che veniva sparato verso il torace del ragazzo, gli perforava le carni e per via del colpo ravvicinato, la forza dello sparo faceva saltare via pezzi d’osso, cuore e polmoni, ed il ragazzo –il ragazzo- cadeva sulla strada puzzolente di urina e feci in un mare di sangue, indifeso negli ultimi momenti della sua vita mentre il cacciatore utilizzava il secondo bossolo a disposizione per finirlo definitivamente, liberando per sempre Weiβdorf dalla creatura immonda. Lasciando un padre senza un figlio e un aiuto in bottega. Un vuoto nella vita di una famiglia. Un manifesto ricercati con la sua faccia e una taglia sulla propria testa in tutta la regione.
Boccheggiò ed esitò, Jean, e le braccia divennero molli. Sono un cacciatore. Sparo agli animali che danno problemi. Non sono un assassino.
Le braccia ancora aperte, Eren era sorpreso. “Credevo che volessi uccidermi.”
“Che cosa sei?” soffiò Jean a mezza voce, “Dammi una risposta, prima che mi penta di non averti sparato.” Temeva che sarebbe potuto accadere molto presto.
Eren diede una rapida occhiata avanti e indietro, poi si tirò meglio il cappuccio sul capo e nascose le mani dentro alla mantella. Jean s’accorse troppo tardi di fissare il ragazzo con interesse, colpito da lui e per questo profondamente irritato. Era lui a colpire nel segno, non gli altri. Non i mostri.
“Non qui” disse il ragazzo in un sussurro. Si fece vicino a Jean, ma non abbastanza perché il cacciatore potesse allungare le mani per afferrarlo. “Andiamo al tuo rifugio.”
Jean si decide ad abbassare il fucile. Se la creatura avesse voluto attaccarlo, probabilmente lui sarebbe già finito a terra col collo lacerato; era troppo presto per fidarsi di lui, comunque. “Già, il mio rifugio. Tu come lo sai?” chiese, scocciato.
“Non qui” ripeté Eren. La mantella roteò ancora e lui prese a camminare spedito fuori dal vicolo, Jean alle calcagna.
Aveva capito che fargli altre domande era inutile al momento, Eren avrebbe avuto la bocca più che cucita per un bel po’.
 
****
 
“Levi!”
“Eh!”
“Non dormire.”
“..’n sto ‘rmendo.”
“Su, sveglio.”
Padre Levi scosse furiosamente il capo, si sfregò la mano sulla faccia e strabuzzò gli occhi, guardando fuori dalla finestra.
A vederli, i due preti erano un’immagine abbastanza inconsueta. Originale, in effetti. Padre Erwin sedeva di fronte alla finestra della propria camera, un’alta finestra di quelle delle canoniche di una volta che dovevano comunicare autorità e timore di Dio, avvolto in una coperta di lana. Sulle sue cosce, padre Levi, che seduto su una sedia normale non sarebbe mai stato in grado di vedere oltre il davanzale. Padre Erwin aveva il mento appoggiato sulla spalla di padre Levi e teneva caldi entrambi, con la coperta e con la massa del proprio corpo, più alto di quello dell’altro e di conseguenza anche più largo.
“Che c’è?” farfugliò padre Levi. Aveva quarant’anni, ma appena sveglio si comportava ancora come un ragazzino. Tentò di rigirarsi e gli ci volle un attimo per realizzare che la struttura su cui posava non era il materasso, ma il corpo del suo compagno. Per cui sfregò la guancia sulla sua e abbandonò il capo contro quello di lui.
“Dài” incalzò sottovoce padre Erwin con un bacio sulla sua tempia, “Guarda fuori.”
Padre Levi sbuffò un “Guardo fuori”, ma dato che il bacio era stato un buon incentivo, si fece coraggio e fece come aveva detto.
La luna, non più piena ma calante, disegnava le sagome di due persone che si avvicinavano al rifugio canonico. La massa informe e bianca con l’affare di metallo sulla schiena, subito dietro alla figura incappucciata, doveva essere per forza il cacciatore.
“Credi che sia..”
“Non saprei” bisbigliò padre Erwin. “Dopo tanti anni, credo di riconoscere la sua sagoma.”
“Perché segue il cacciatore, perché?”
Padre Erwin esitò e poi sospirò. Padre Levi percepì le sue angosce.
“A volte temo che non veda l’ora di consegnarsi alle braccia del Signore- Ahia, Levi!”
Padre Levi, dopo avergli pizzicato il capezzolo da sopra la maglia da notte, s’aggiustò meglio sulle sue cosce e gli passò un braccio attorno al collo. “Guarda che Eren non è mica come te, sai.”
“Io non ho desiderio di morire.”
“Lo hai, quando dici certe cazzate.”
Forse non s’erano giurati amore al cospetto di Dio, ma la loro relazione era poi così diversa da un buon matrimonio, in cui gli anni rendono i difetti sopportabili, addirittura apprezzabili e caratteristici? Padre Erwin non riprese il suo amato per la parolaccia. Appoggiò la testa alla sua spalla, guardando Jean che sembrava armeggiare con le chiavi ed apriva la porta.
La figura incappucciata si volse e osservò intorno, con l’atteggiamento della bestia che fiuta in cerca di presenze inaspettate o inattese. Padre Levi afferrò un lembo della coperta scura e lo tirò fin sopra la testa di Erwin.
I preti rimasero zitti e immobili finché Eren non entrò nella casetta e la porta si chiuse.
“Sai, Erwin” sussurrò padre Levi, assottigliando gli occhi già fini, “Non ho più sonno.”
 
****

Jean accese la lanterna sul tavolo e si sedette sul letto a braccia incrociate. Eren si era seduto sulla sedia alla parete davanti al letto e da quando era entrato, non s’era mosso neanche per abbassarsi il cappuccio.
Il cacciatore batté il piede sul pavimento, succhiandosi la lingua e deglutendo per l’ansia di stare soli nella stessa stanza. Il suo olfatto non era molto sviluppato, probabilmente non quanto quello del mannaro, ma riuscì comunque a catturare una scia di un odore non proprio gradevole che forse proveniva dal corpo di Eren. Beh, non dava l’idea di una persona molto pulita, ma stare in camera da soli, occhi negli occhi, gli stava facendo roteare lo stomaco da tutte le parti.
“Allora?” esordì, scocciato.
A quel punto, e solo a quel punto, Eren accennò un movimento. Jean l’osservò incuriosito ed attento mentre si abbassava il cappuccio, scioglieva il nodo della mantella e se la faceva scivolare sulle spalle, rivelando i poveri vestiti nascosti al di sotto. Eren si mise in piedi, piegò la mantella e la posò sul tavolo, poi fece lo stesso con la sciarpa rossa e infine si sedette di nuovo.
Jean aggrottò le sopracciglia e sbuffò silenziosamente alla fine di tutto quel teatrino, domandandosi se alla preda facesse piacere tenere il cacciatore sul filo del rasoio. Di sicuro, sì.
“Allora?” ripeté Eren, con una calma fastidiosa.
Jean giunse le mani e si sporse in avanti, appena oltre il bordo del letto, e studiò il viso grazioso di Eren: gli zigomi, i capelli castani scompigliati e un po’ sporchi, gli occhi, gli occhi, gli occhi. Se solo avesse potuto dare una priorità alle mille domande che doveva fargli o che gli stavano bruciando l’anima di curiosità…
Si ritrovò, come spesso succede in questi casi d’indecisione, a porre la domanda più banale.
“Cosa sei?” gli chiese, un sopracciglio alzato.
“Non lo so.”
Le sopracciglia si alzarono e Jean raddrizzò la schiena. “Come sarebbe a dire che non lo sai?”
Eren scosse il capo. “Non lo so.”
“Ma.. Ma devi saperlo” insistette Jean. Era troppo inverosimile che Eren non sapesse cosa fosse.
Eren lo guardò come se gli facesse pena. “E invece non lo so” soffiò appena tra i denti.
La cosa ebbe un impatto su Jean: era il caso di non farlo arrabbiare, no. “D’accordo” s’arrese, passandosi una mano sulla nuca, “Non lo sai. Allora, dimmi come funziona.”
“Come funziona, cosa?”
“La tua trasformazione” spiegò Jean, che iniziava a spazientirsi – faccenda che capitava abbastanza spesso, sebbene negli ultimi anni, crescendo, l’irritabilità si fosse un po’ appianata- “Cosa succede, perché lo fai.. Perché mi hai ridato il borsello? Perché non mi hai ucciso? Perché non hai ucciso tuo padre?”
In risposta ottenne solo silenzio e le palpebre di Eren sbattute lentamente. Il suo stomaco roteò un’altra volta.
“..Ho capito, una domanda alla volta, giusto?”
Eren annuì.
“Altrimenti mi fai scena muta e fingi di essere ritardato come coi tuoi compaesani, giusto?”
Eren annuì di nuovo.
“…Bene” Jean sospirò ed allungò le sue gambe da spilungone per finta oltre il materasso. Eren ritirò i piedi sotto la sedia, anche se non si sarebbero toccati lo stesso. “Una domanda alla volta. Cazzo, non è mica facile…” Jean si alzò in piedi e appoggiò la nuca contro alle mani giunte. Gli occhi puntati sul soffitto, iniziò a camminare avanti e indietro, nel tentativo di dare un ordine alle domande che voleva fargli, davvero troppe per una notte sola.
Quando fu sicuro di averne finalmente trovata una, si fermò di fronte al ragazzo e si mise le mani sui fianchi. “Perché lo fai?”
“Perché tu respiri?” ribatté Eren. Dio! Era così irritante! Così interessante!
“Lo faccio e basta, è ovvio.”
“Allora non sei stupido come sembri..”
“Eh?!” Jean scattò alla provocazione, “Io non sono stupido!”
Eren piegò la testa di lato e gli sbatté nuovamente le palpebre. Il cacciatore di fronte a lui non lo sapeva, o forse non se ne accorgeva, ma ogni volta che Eren batteva le ciglia piano, quel coglione di Jean deglutiva vistosamente. Era divertente, anche se Eren non immaginava perché accadesse. “Forse hai ragione. Sei riuscito a farmi parlare.”
“Ah… Da.. Davvero?”
“Bravo.”
“Grazie. Ah! No, grazie un corno” borbottò Jean e si rimise a sedere sul letto. “Stiamo girando intorno all’argomento.”
Stringendosi nelle spalle, Eren chiuse gli occhi. “Sei tu che mi volevi fare delle domande.”
Diamine, Eren aveva ragione. Non era mai bello ammettere di avere torto, per Jean; l’orgoglio lo stava pizzicando un po’, come fa la barba quando preme da sotto la pelle. Dà un sacco fastidio. “Sì, sì, va bene. Allora, ricominciamo. Quindi non sai perché lo fai. Lo fai e basta. Ma lo fai sempre? Cioè, quando ti pare?”
Era strano, per Eren, sentirsi fare così tante domande. Razionalmente, sapeva che avrebbe dovuto sentirsi a disagio. Ma in fondo, non gli ci volle molto per comprendere le reali intenzioni del cacciatore: il suo istinto non sbagliava. Jean sarebbe potuto balzare verso il tavolo, afferrare il fucile e sparargli, o prendere il coltello che portava alla cintola e sgozzarlo, e Eren aveva la certezza profonda che Jean non gli avrebbe torto un capello. Per paura, o chissà che altro. Questo proprio non lo capiva e a dire il vero, neanche gl’importava: parlare con qualcuno al di fuori di padre Erwin e padre Levi era come muovere i primi passi. Strano, difficile, faceva paura, ma era bello.
“Se fossi in grado di controllarmi, tu non saresti qui a farmi tutte queste domande” gli rispose e continuò lo stesso, a dispetto della faccia piccata di Jean, “Ed io non sarei qui a darti tutte queste risposte. Mi succede da sempre, tutte le notti che c’è luna piena: cala il buio, esce la luna ed io non sono più un ragazzo.”
“Di questo me ne sono accorto…”
“Te l’avevo detto che non eri stupido.”
“Basta!”
“Te lo potrei spiegare con paroloni complicati ma, a parte che non sono sicuro che li capiresti,” e qui, Jean si fece scuro in viso, “non ce n’è motivo. Te, quando ti prendi un raffreddore e starnutisci, non devi fare il poeta con gli altri mentre spieghi che ti succede.”
“Perché” chiese Jean, curioso, “Non ti viene mai un raffreddore?”
“No. Non mi sono mai ammalato.”
“Ah.”
“Non pensare quello a cui stai pensando.”
“Eh?”
“Non vorresti essere come me  solo per non prenderti qualche malanno.”
Jean, sentendosi colpevole, non rispose: Eren aveva già capito.
“Sai, le prime volte non era così” prima ancora che Eren potesse accorgersi di stare parlando a ruota libera, lo stava già facendo. Le sue stesse emozioni gli erano qualcosa di sconosciuto e lì per lì, inesperto, non seppe che nome dare a quella sensazione piacevole e briosa nel suo petto. Era così indescrivibilmente bello avere trovato qualcuno che s’era seduto con lui e voleva parlare, capire, conoscere, anziché sparargli e basta. “Davo solo di matto. Come quando i bambini fanno i capricci, solo che avevo molta più fame. Per poco mi sarei mangiato anche le sedie…”
Lì, Jean ridacchiò e Eren lo lasciò fare. “Scusami” disse Jean, tornando serio, “Immagino che non faccia ridere.”
Eren non gli rispose, facendogli tornare il senso di colpa, e proseguì. “Era come essere matti da legare, ma solo per una notte. Mi saliva un’assurda fame, per la quale mi sarei mangiato ogni cosa, dei mal di testa con i quali avrei giurato di morire, e una frenesia inspiegabile. Avevo sempre cercato di uscire e di andarmene. Mia madre, padre Erwin e padre Levi sono usciti a cercarmi più volte perché io mi prendevo su, aprivo la finestra e scappavo.”
“…Padre Erwin e padre Levi?”
“Mi hanno cresciuto come un figlio.”
Jean rimase sorpreso nell’udire l’affermazione di Eren: avrebbe giurato che quei due fossero totalmente incapaci a gestire le persone, o meglio, che lo fosse padre Levi, e poi il licantropo gli confessava di essere stato cresciuto da loro. Aveva tirato giudizi troppo affettati, come quasi sempre.
“E sono gli unici a sapere la verità a Weiβdorf” proseguì Eren, ancora serio ma quieto, “In realtà, è come se l’avessero sempre saputo. Si occupavano di me tutte le notti e furono loro a rendersi conto, quando avevo quindici anni, che non avrei continuato a dare di matto e basta ad ogni luna piena.”
Ci fu una lunga pausa in cui Jean si sentì schiacciato dal peso della verità e della consapevolezza che quei preti avevano saputo tutto fin da subito. Lo avevano preso per il culo, praticamente, e neanche troppo alle sue spalle.
“Se non mi avessero accompagnato nella foresta, non avresti trovato nessuno a Weiβdorf ieri, probabilmente.”
“..Co.. Cosa intendi?”
“La prima notte feci fuori qualcosa come… Trenta pecore e otto vacche.”
“Trenta pecore e otto vacche—“
“Non avevo controllo di me, lo so anche se non fai quella faccia. Le prime volte fu sempre così. Era come essere immersi in un incubo lunghissimo, sapere di esservi dentro, e non potere fare niente per svegliarsi.”
“E come hai fatto a.. controllarti?” domandò Jean, e si stupì di essere onestamente curioso; la notte scorsa, Eren non aveva tentato di ammazzarlo: ripensandoci, gli sembrava una specie di avvertimento.
“Mi ha insegnato padre Levi.”
Jean per poco non balzò in piedi. “Anche lui è un—“
“No. Mi ha solo insegnato a controllarmi. Con degli esercizi della mente.”
“Esercizi della mente..?”
“Sì, ma lascia perdere, non sto neanche a spiegateli. Tu sei troppo stupido.”
“…Basta!” lagnò ancora Jean. Lo avrebbe colpito con un bel calcio alla tibia, ma aveva ancora troppa paura. “Vabbè, ma com’è che.. Cioè, perché proprio loro due? Perché non padre Georg?”
Lo sguardo di Eren si rannuvolò, persosi in qualche oscuro ricordo lontano. “Sono uomini di chiesa, ma fanno parte di un sotto-ordine di cui non molti sono a conoscenza… e che studia il soprannaturale, circa come degli esorcisti. E poi.. Padre Erwin è la persona che mi ha trovato.”
“Trovato?”
“Mio padre, il maniscalco, non è mio padre. Mi hanno adottato. Diceva che mia madre era sterile, ma…”
“Ma?”
“È il seme di mio padre ad essere pigro.”
Jean, più sorpreso per il dettaglio indecente  della vita intima di Kornelius che per l’adozione di Eren, raddrizzò la schiena. “E tu come lo sai, scusa?”
Eren gli rispose con un tono che aveva dell’ovvio e lo fece sentire ancora più stupido. “Istinto. Come faccio a sapere che non mi salterai addosso” e qui, Jean fu quasi sul punto di ribattere chiedendogli se ne fosse poi così sicuro – e si punì mentalmente, una seconda volta, per quel pensiero sconcio, “E cercherai di ammazzarmi?”
Il cacciatore ci mise poco a rispondergli. “Fiuti la mia paura?”
Eren si dilettò nel suo nuovo giochino. Le sue palpebre si abbassarono lentamente e le lunghe ciglia scure sfiorarono le guance. Celò lo sguardo a Jean per qualche secondo e quando riaprì gli occhi, lui stava deglutendo. Ma perché faceva così? Percepiva qualcosa provenire da lui, ma era un senso nuovo e sconosciuto che gli scaldava pancia e inguine e gli faceva allargare le narici, nulla di mai provato fino ad ora. Tutto ciò lasciava una scia appena fastidiosa eppure molto piacevole, curiosa e buffa.
“Sì, Jean.”
Il cacciatore ebbe un lieve spasmo ed in seguito aggrottò la fronte.
“Tutto bene?” gli chiese Eren.
“Ah” esclamò Jean, una punta di nervosismo, incrociando le braccia al petto, “Mi trovo in una stanza con una creatura mai vista e mai conosciuta che potrebbe uccidermi con un’artigliata e che fiuta la mia paura, è ovvio che va tutto bene!”
Eren sporse appena il viso in avanti. Li separava più di un metro e mezzo, ma Jean ebbe un balzello allo stomaco, l’ennesimo nel giro di un paio di minuti. “Perché dai per scontato che io voglia ucciderti?”
“Perché è quello che fanno le bestie” e Jean si morse subito la lingua. Un altro giudizio affrettato.
“Perché stai parlando con una bestia?”
“Ma tu non se- … Oh.”
“Cosa non sono, io?” insistette Eren.”
L’orgoglio di Jean sputò fuori a fatica: “Non.. Sei.. Una bestia” e il cacciatore diede il profilo a Eren, con un sonoro sbuffo dalle guance gonfie.
Eren ritenne un peccato che lui si fosse girato e non avesse potuto vedere il suo solito giochino, ma pazienza, in cuor suo era più che certo: avrebbe avuto altre occasioni per rifarglielo. Se non quella sera, le successive.
“Cos’hai intenzione di fare con me?” gli domandò, a bruciapelo. Non si stranì del quasi totale disinteresse con cui aveva pronunciato la domanda, a riprova del fatto che il suo destino era lasciato al vento; la voglia di combattere per sé, oramai, si circoscriveva alla lotta per la sopravvivenza a se stesso e per mandare avanti la famiglia. Per il bene di Annedore, non di Kornelius.
Jean arrossì come un rosso pomodoro maturo e lo guardò con tanto d’occhi. “..Cosa? Perché me lo chiedi?”
“Perché sei venuto per cacciarmi, no? Sei proprio stupido come un cavallo.”
“Il mio cavallo non è stupido.”
“Però un po’ gli somigli.”
“..Non è vero! E comunque..” Jean s’alzò in piedi e si avvicinò al tavolo. Prese il fucile, ma Eren rimase tranquillo a guardare il ragazzo un po’ più grande di lui. “Non lo so” ammise in un sospiro. Nel silenzio che calò nella stanza, Jean si prodigò a mettere via il fucile nella sua sacca di pelle. Eren aveva ragione, per quanto gli seccasse ammetterlo: non c’era bisogno di parole complicate o ragionamenti astrusi, ad una domanda semplice serviva una risposta altrettanto semplice. Posò il fucile nell’armadio e si decise a dargli una risposta, guardandolo di sottecchi ed accorgendosi, con l’ennesimo balzello dello stomaco, che Eren ricambiava lo sguardo. “Mi serve tempo per decidere.”
“Come vuoi. Io non ho fretta. Ho aspettato tanto qualcuno che avesse le palle di finirla.”
“Cosa.. Cosa cazzo stai dicendo?” sbottò Jean, chiudendo le ante dell’armadio con un gran fracasso. “Non pensare neanche per scherzo che io ti voglia ammazzare!”
Eren, sorpreso, sgranò gli occhi. “Ah, no?”
“No” ribadì Jean, andando a sbattere contro al tavolo col piede per via dell’astio che l’affermazione di Eren gli aveva fatto salire, “Ci deve essere un’altra soluzione” borbottò, lasciando l’altro sempre più sbalordito. Allora qualcuno con un cuore al di fuori di padre Levi, padre Erwin e Annedore esisteva!
Giunto vicino alla finestra, tirò le tende di panno e poi si girò verso Eren, fissandolo con accusa. “Sia chiaro: non lo faccio per te, lo faccio per me.” farfugliò, cercando di darsi un tono da duro, “Non voglio essere un assassino o un complice di suicidio.”
Se Jean non avesse piantato su quella scenetta dell’uomo che non deve chiedere mai, Eren avrebbe quasi creduto al suo cinismo. Che pagliaccio.
“Sì, certo. Ed io non mi chiamo Eren Jaeger.”
Jean, che intanto dissimulava le sue confuse emozioni togliendosi gli stivali, sollevò il capo alle ultime parole di Eren. “Jaeger? Come cacciatore?”
“Sì, si pronuncia uguale, ma si scrive diverso” gli spiegò, “Non hai letto l’insegna della bottega?”
Jean lanciò gli stivali in un angolo e arricciò la faccia un po’ a destra e un po’ a sinistra, prima di annuire con falsissima convinzione. “Beh, ovvio. Mastro Jaeger fabbro maniscalco, no?”
“No.. Veramente è solo Jaeger maniscalco.”
Jean aprì la bocca. Espirò. La richiuse, sulla lingua il sapore della figuraccia. “..Ah.”
Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, il viso di Eren s’illuminò. Strinse le mani alle braccia, e le gambe l’una vicino all’altra, sollevò appena i piedi e tirò tutta la bocca mentre strizzava gli occhi.
“Tu.. Tu non sai leggere!” esclamò. Eren rovesciò la testa all’indietro e la stanza si riempì della sua risata, limpida, corposa, bella.
Il suono meraviglioso colpì Jean dritto al petto, poi tante piccole frecce gli fecero roteare tutti gli organelli in pancia e gli spezzarono il fiato, gli fecero sbarrare bocca ed occhi. Bevve quel trillo stupendo, inaspettato, con stupore nei confronti di se stesso, capendo al volo che il suo cervello e il suo cuore l’avevano cacciato in un bel guaio.
Colpo di fulmine..? Meglio dire colpo di luna!
 

 
   
 
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