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Autore: _Frame_    02/11/2014    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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10. Capelli spettinati e Giacca sbottonata

 

 

1 settembre 1939, Prussia Orientale

 

Le lenti del binocolo a infrarossi distorsero lo scenario, ricoprendolo con una nebbia granulosa che brillava di un verde smeraldo. Prussia strinse la punta della lingua in un angolo delle labbra e spinse l'indice nella parte superiore dei due grossi oculari. Girò lentamente la rotella dentata e il campo si restrinse. Di fronte al blocco di guardia, due uomini in divisa si stavano parlando. Uno di loro era appoggiato al muro e la spranga abbassata del confine gli divideva in due il busto. Due stelle per spallina erano cucite sulle uniformi di entrambi. Erano tenenti.

Il tenente rialzò le spalle dal muro e si sistemò il fucile, spostandolo dal fianco alla schiena. L’altro ufficiale annuì, e pronunciò qualche parola muta. Stava fumando. La sigaretta accesa in un angolo delle labbra brillava di una luce bianca che abbagliava la visuale dell’infrarosso. Le bocche insieme agli occhi bianchi e lucenti erano macchie luminose nel panorama verde scuro. Il tenente prese la sigaretta con due dita e soffiò una nuvola di fumo che svanì dal doppio campo rotondo.

Prussia strinse la mano attorno al binocolo e spostò la visuale. Il polpastrello rullò il gradiente e allargò il campo visivo. Inquadrò l’autocarro spento davanti al posto di blocco. Il tenente con la sigaretta si appoggiò con il gomito allo sportello aperto e continuò a parlare con l’altro ufficiale. Si sistemò la cinta sotto la giacca della divisa e raddrizzò la fodera della pistola. L’inquadratura si restrinse sull’arma. Modello Radom.

“Signore.”

Prussia allontanò il braccio dal viso e staccò le lenti del binocolo dal naso. Sbatté le palpebre per riabituarsi al buio. Il bagliore delle poche stelle che macchiavano il cielo nero lo aiutò.

Un oggetto scuro si avvicinò al suo viso. La mano del sottotenente gli stava porgendo la cornetta del telefono. Il viso del giovane uomo si schiarì alla luce della luna coperta dalle nuvole.

“Dalla linea ovest, signore,” disse il sottotenente.

Prussia si sfilò dal collo la cinghia del binocolo. Lo passò al colonnello piazzato di fianco a lui e allungò quella stessa mano verso il ricevitore. Il sottotenente mise entrambi i palmi sotto il cofanetto del telefono che gli pendeva dal collo, agganciato a una fettuccina di stoffa. Vicino alle manopole argentate, il quadrante a mezzaluna era illuminato da una lucetta rossa che rischiariva i foglietti illustrativi all’interno del coperchio. La lancetta del quadrante ondeggiò verso destra, una voce gracchiò nella parte superiore della cornetta.

“Ottava Armata a Terza Armata, rispondete.”

Prussia fece rimbalzare la cornetta sul palmo e la avvicinò alla guancia. Piegò il gomito del braccio libero e si appoggiò al cofano del Blitz.

“Qui magnifica Terza Armata,” disse, sollevando un ghigno. “Ricevuto, Ottava Armata.”

“Situazione.” La voce di Germania dall’altro capo della cornetta non variò di una virgola.

Prussia ruotò gli occhi al cielo nero. Le foglie ancora abbondanti sui rami coprivano il profilo latteo della luna. “La difesa è ancora più misera di quello che ci aspettavamo, West.” Le dita di Prussia tamburellarono sulla superficie liscia dell’autocarro. I guanti ovattarono il suono. “Passo il confine e aspetto la Quarta Armata verso la linea Vistola.”

Lanciò uno sguardo al posto di blocco, a occhio nudo. A quella distanza e con quel buio, era visibile solo il bianco della sbarra. Le voci dei due tenenti – inglobati nel silenzio della boscaglia – si confondevano con lo scrosciare delle foglie. “Sarò in grado di raggiungere Varsavia in una settimana, se questo è tutto quello che sanno fare.”

“Attieniti ai piani.” I bottoncini dentro il cofanetto del telefono lampeggiarono, quando Germania parlò. La lancetta si abbassò completamente verso destra e si impennò a metà quadrante. “Fai procedere le due armate e mantieni lo schema prestabilito.”

Prussia emise un forte sospiro dalle labbra, abbassò le spalle e sbuffò l’aria dentro i fori del telefono che gli aderiva alla guancia. “D’accordo.”

Scollò la cornetta dall’orecchio, la fece saltare di nuovo sulla mano aperta e la riagganciò dentro la scatola. Le luci si spensero, la lancetta si appiattì e la linea saltò. Il viso del sottotenente tornò al buio. Prussia riavvolse il cavo legato alla cornetta e infilò il grumo di plastica nello spazio vuoto, vicino alle manopole. Il sottotenente batté i tacchi, raddrizzò la schiena paralizzandosi come un palo, e portò via l’apparecchio.

Prussia voltò il busto, schiacciandolo contro il muso dell’autocarro. Si mise in punta di piedi e batté la nocca dell’indice contro il fanale spento che si ergeva davanti al parabrezza.

“Che palle,” si lamentò. Passò una mano tra i capelli, ma il buio oscurava il suo riflesso nel vetro del faro. “Questi piani di gruppo mi rallentano.”

Il colonnello sull’attenti di fianco a lui si schiarì la voce. Bilanciò il peso sui piedi e il ghiaieto sulla strada sterrata scricchiolò sotto le suole degli scarponi di pelle. Prussia fece scivolare la stoffa del guanto sul cofano, e carezzò la vernice lucida del Blitz. Tornò ad appoggiarsi sulle piante dei piedi con uno scatto e il palmo batté un tonfo sul cofano.

“Ore?” esclamò Prussia. Una nota di eccitazione storpiava il tono aspro.

Il colonnello infilò una mano nel taschino interno della divisa a tre stelle e un luccichio argenteo scintillò tra le sue dita. La catenina dell’orologio a bulbo. Il suono dei secondi che correvano ticchettò dentro il vetro.

“Le quattro e trentanove, signore.”

“Bene.”

Prussia s’incamminò nella stradina su cui erano parcheggiati i mezzi di trasporto. Sollevò il braccio e allungò due dita verso l’alto. “Tenetevi pronti.”

Gli stivali del colonnello batterono alle sue spalle. “Agli ordini, signore.”

Il Blitz in testa alla carovana era il più grosso. Prussia fece passare il tocco su tutta la fiancata, carezzando le lastre metalliche avvolte dal telo in tinta con i colori militari della vernice. Un uomo era fermo vicino allo sportello. Le mani strette dietro la schiena, lo sguardo rivolto verso la posizione polacca dietro il confine, nascosta dal bosco. I passi di Prussia lo fecero girare di scatto. L’uomo saltò sull’attenti e batté la mano tesa sul frontalino del cappello.

“Signore.”

“Riposo.”

L’ufficiale obbedì.

Prussia appoggiò il braccio piegato sul bordo del finestrino abbassato. Un fagottino giallo rimbalzò dal sedile fino allo sportello. Le ali di Gilbird si richiusero sul dorso, le zampette saltellarono sull’avambraccio di Prussia, e il canarino si appallottolò, sfregando il beccuccio sulla stoffa dell’uniforme. Prussia allungò la punta dell’indice e gli carezzò il collo, sopra l’attaccatura delle ali.

“Situazione a Westerpalette?” Gli occhi scarlatti inquadrarono lo sguardo dell’uomo che lo aveva atteso vicino all’autocarro.

“La corazzata è già sottotiro, signore.” L’uomo sollevò il mento, la voce si aggravò. “Lo stormo dei Junker è pronto al decollo.”

Prussia distese un sorriso di soddisfazione. “Ottimo.”

Aprì lo sportello dell’autocarro e Gilbird gli svolazzò sulla spalla, accovacciandosi vicino all’orecchio. Prussia saltò sul gradino e le ruote del Blitz fecero ondeggiare il mezzo sotto il suo peso. Prussia rimase in piedi, aggrappato al tettuccio dell’autocarro. Il viso sorridente, con gli occhi che brillavano di eccitazione, fissava la strada spianata avvolta dalla boscaglia nera.

“Al mio segnale entriamo in azione.”

L’ufficiale rimasto a terra s’irrigidì in un saluto militare. “Sissignore!”

 

.

 

La mano di Germania girò la manopola affissa di fianco al cofanetto del telefono. Il rumore della linea macinò lunghi fischi metallici. La lancetta nel quadrante ondeggiava a destra e a sinistra, fischiando ogni volta in cui la luce dei bottoni brillava. Il viso dell’ufficiale che reggeva l’apparecchio allacciato al collo rimaneva impassibile.

I suoni inquieti del telefono si placarono e Germania appoggiò la cornetta all’orecchio. La plastica fredda gli fece rabbrividire la pelle della guancia.

“Ottava Armata a Quattordicesima Armata, rispondete.”

La linea gracchiò come se ci avessero soffiato sopra un pugno di sabbia. “Quattordicesima Armata, vi ricevo, signore.”

“Situazione.”

“Tutto regolare, signore. Pronti all’assalto.”

Germania volse lo sguardo allo spiano di terra avvolto nel buio del primo mattino. La linea rossa disegnava l’orizzonte, una manciata di stelle annebbiate dalle nuvole trapuntava il cielo nella parte più alta e nera. Le sagome dei carri e dei mezzi d’artiglieria allungavano le ombre sotto i loro piedi.

“Attendete i miei ordini,” disse Germania. “Dirigetevi verso Cracovia come da programma e aspettate l’arrivo della Decima Armata.”

“Agli ordini, signore.” Il suono insabbiato gracchiò. La linea cadde e Germania riappoggiò il telefono nella scatola di manopole e bottoncini luminosi.

Germania si strinse il colletto della divisa e premette la stoffa sulla guancia. L’aria fredda del confine polacco lo fece rabbrividire.

“Noi procediamo verso nord.”

L’ufficiale che imbracciava il telefono lo seguì nella marcia. I passi pesanti calpestavano le orme di Germania. “Sissignore.”

L’ombra nera di uno dei cannoni incorporati ai carri armati si elevava verso il cielo. La punta toccava la sagoma di uno degli autocarri cingolati. Due uomini erano chini di fianco all’artiglieria da caricare sui carri. Uno di loro stava lucidando il cannone del Flak, e l’altro bilanciava la direzione del mezzo d’artiglieria.

“Fate procedere i Jadpanzer in prima linea per aprire la strada insieme ai cingolati,” disse Germania.

Più in lontananza, dietro la linea dei carri, un uomo stava salendo su uno Stukas, ma l’elica sul muso dell’aereo era ancora ferma. Le grandi ali brillavano sotto la luce delle stelle.

Germania procedeva a sguardo alto, spalle dritte, mani dietro la schiena. “Non sprecate munizioni con i Tiger, ho l’impressione che non ce ne sarà bisogno.”

“Sissignore.”

I piedi di Germania si fermarono. Lui diede un piccolo colpo al suolo con la punta dello scarpone e strappò via un grumo di terra da cui spuntava qualche ciuffo d’erba.

“È un terreno facile, è tutta pianura.” Il vento freddo gli fece ondeggiare il colletto dell’uniforme. “Tuttavia siamo pur sempre vicino a un fiume. Fate scortare i carri armati dagli Schwimmerwagen e fateli procedere. Solo dopo introdurrete l’artiglieria e farete avanzare il resto della fanteria.”

“Sissignore.”

Germania sollevò gli occhi al cielo. Le iridi si tinsero di un indaco scuro, la luce delle stelle fece risplendere un arco attorno alle pupille. Prese un piccolo respiro e trattenne nel petto quell’aria fresca ma densa, che profumava di bosco, di muschio e di acqua di fiume. Presto avrebbe puzzato di fuoco, di polvere da sparo e di sangue.

Germania sfilò una delle mani da dietro la schiena e socchiuse le dita. L’orologio ticchettò i secondi, la lancetta più lunga e sottile scattò in avanti, si avvicinò al numero dodici.

Tic.

Altro secondo. La lancetta grossa e lunga dei minuti era pronta a scattare.

Toc.

I secondi toccarono il dodici. La lancetta dei minuti rimbalzò sul nove.

Germania buttò fuori il sospiro dalle narici. “Le quattro e quarantacinque.”

Mise via l’orologio e si rivolse all’esercito. Il buio li teneva nascosti, ma le corazze dei carri e le punte dei cannoni dell’artiglieria brillavano come se le stelle fossero cadute dal cielo. Germania allargò le gambe, gonfiò il petto. Il primo spiraglio di sole gli passò sopra la spalla, dalla linea d’orizzonte, e fece scintillare i gradi dell’uniforme. Aggrottò la fronte, e ingrossò la voce che tuonò nell’aria come il primo colpo di cannone.

“Irrompiamo.”

Alle sue spalle, i lampi della guerra illuminarono il cielo del mattino.

 

 

1 settembre 1939, Varsavia

 

Le dita di Polonia corsero tra i ciuffi di capelli biondi, la mano scese e si fermò a strofinare la nuca. Polonia abbassò il tocco e il palmo sfregò la pelle del collo. Era tiepida e umida, appena strappata dall’abbraccio delle coperte.

Polonia trascinava i passi nel lungo corridoio. I piedi stanchi emettevano un suono soffuso, calpestato dalla marcia pesante dell’uomo al suo fianco. Polonia fece scivolare la mano dal collo e la portò davanti alla bocca. Le labbra si aprirono in uno sbadiglio profondo, le palpebre si abbassarono e piccole lacrimucce gli bagnarono le ciglia. Una ciocca gli finì incollata alle labbra. Polonia si tolse i capelli dal viso e li aggiustò dietro l’orecchio.

Un occhio si socchiuse, lucido di sonno, e puntò l’uomo che marciava alla sua destra. Quattro stelle sull’uniforme. Un generale.

“Non mi hai nemmeno lasciato pettinare.” Le dita di Polonia si sciolsero dai capelli e lui tuffò la mano nella tasca. Le spalle s’ingobbirono, e i capelli tornarono sulle guance. La voce era ancora risucchiata dallo sbadiglio. “Cioè, hai almeno idea di che ore sono?”

Il viso del generale s’irrigidì come una maschera di pietra. L’uomo serrò la mascella, le labbra ebbero un tremito. Una goccia di sudore scese dalla tempia, corse lungo il collo disegnando una linea lucida sopra il pomo d’Adamo che si alzava a ogni respiro. Scomparve dentro il colletto inamidato della divisa.

“Non c’è tempo, signore.”

Alla fine del corridoio rettilineo li attendeva la porticina scura dell’ufficio. Dalle finestre non entrava luce, il cielo era ancora scuro.

“Il generale ha richiesto un colloquio immediato con lei.” Gli occhi dell’uomo si restrinsero per un attimo. Lui deglutì e la voce divenne impastata. “È un’emergenza.”

Polonia sollevò un sopracciglio, arricciando le labbra. Ma quanti caspita di generali ci sono nel mio esercito? Dico, ma non ne basta uno solo?

Polonia aprì anche l’altro occhio. Si strofinò di nuovo i capelli scompigliati e rivolse un’occhiata interrogativa al generale. “Mhm, cos’è successo?”

Il generale non abbassò gli occhi. Lo sguardo di ghiaccio rimase gelido. Il corpo teso, e la marcia pesante. Le guance dell’ufficiale assunsero un colore grigiastro, e le labbra diventarono bianche. Lui le inumidì. Passò la punta della lingua sulla carne e fece un piccolo respiro. “Lo vedrà, signore.” E tornò in apnea.

Polonia emise un piccolo gemito di disapprovazione. Si diede una sistemata ai vestiti. Spazzolò la stoffa dei pantaloni e aggiustò la mantellina sopra le spalle. Si strofinò il braccio fino al gomito, placando i brividi. Il tessuto era ancora freddo.

Il generale aprì la porticina alla fine del corridoio, e una luce soffusa come quella calda e tenue di una candela brillò sul viso latteo di Polonia. Polonia sbatté le ciglia e si massaggiò una palpebra con le nocche di un pugno chiuso. Una lampada a cono dondolava dal soffitto. La lampadina abbagliava il tavolo centrale, ricoperto di mappe geografiche scarabocchiate con croci e cerchi, fascicoli spiegazzati che pendevano dai bordi, e cartelline cartacee sventrate del contenuto. Alcune penne erano rotolate a terra.

I due uomini nella stanza sollevarono i pugni dal tavolo e si voltarono verso l’entrata. Entrambi s’irrigidirono sull’attenti, i tacchi batterono a terra. Piegarono i gomiti e colpirono le fronti col saluto militare.

“Signore,” esclamarono in coro.

Polonia sventolò la mano. “Sì, sì, riposo. O quella roba lì.”

Il generale che lo aveva accompagnato entrò nella stanza dopo di lui. Andò verso il tavolo e si mise in penombra, dietro il cono di luce che si apriva al centro della stanza. Uno dei due uomini indossava la stessa divisa, le stesse stelle e gli stessi gradi. Il colletto della sua uniforme era sbottonato. L’uomo allargò di più la stoffa con due dita e prese un profondo respiro con le narici, come se avesse voluto farsi notare. La pelle del collo era lucida, madida di sudore come la fronte aggrottata. I suoi occhi scuri si abbassarono sul tavolo.

Polonia inarcò di più il sopracciglio, fino a toccare la radice del naso. “Perché accidenti mi avete svegliato?”

Il generale con la giacca sbottonata abbassò le palpebre. Strinse le labbra e la bocca tremò. “Signore.” Gonfiò il petto e sollevò il mento. Gli occhi rimasero nascosti dietro le palpebre, e la penombra della stanza gli oscurò il viso come una maschera. Un rivolo di sudore gli bagnò il collo, passandogli sopra una vena gonfia. “I confini che si separano dalla Prussia orientale e dalla Germania sono stati valicati.”

La lampada a soffitto oscillava lentamente. La sottile corda di cavi emetteva un ciglio a ogni dondolio. La lampada ronzò, la luce dentro il bulbo sfarfallò e piccoli lampi abbagliarono la stanzina. Il respiro pesante dell’altro ufficiale – un colonnello – attraversava l’aria della stanza come una soffiata di vento. Era tornato a chinarsi sul tavolo, la sua ombra tremante si allungava sulle cartine e sui documenti.

Polonia separò le labbra. Restò zitto. La nebbia si dissolse dentro gli occhi assonnati, il viso latteo divenne prima rosso, colorando le guance, e poi sbiancò di nuovo. Un piccolo e debole gemito gli uscì dalle labbra. Polonia stropicciò lo sguardo e sbatté le palpebre un paio di volte. Gli occhi allucinati posati sul generale dalla giacca sbottonata.

“Cosa?”

Giacca Sbottonata chinò il capo. La luce rossastra della lampada gli fece brillare la guancia. Sottili vene rosse gli attraversavano il bianco dell’occhio. “Ci invadono, signore,” disse con voce più debole.

Il colonnello strinse i pugni sul tavolo e si sentirono le nocche scricchiolare.

“L’assalto è iniziato alle quattro e quarantacinque di questa mattina.” Giacca Sbottonata guardò Polonia negli occhi. Lo sguardo dell’ufficiale tornò una maschera di granito. “Dobbiamo muovere la difesa attorno a Varsavia e sulle linee di demarcazione.”

Passi scricchiolati risuonarono nel buio della stanza. L’altro generale si era messo nell’ombra, i suoi stivali di pelle gemevano a ogni movimento.

Polonia fece un passo indietro. Le spalle incontrarono la superficie della porta e lui trattenne un gemito, mordendosi un labbro. Un brivido gli corse lungo tutta la spina dorsale, fino a mordergli la nuca. “Ma...” Le gambe tremarono. Un piede scivolò di lato e non si mosse più. Polonia sollevò i palmi delle mani. Anche quelle tremavano.  

“Germania sta per firmare un trattato di non aggressione con Russia.”

“Ma come...”

La vista appannata offuscò la sagoma delle mani, le braccia si sdoppiarono e le ombre fioche si fusero con il pavimento.

“Lo stanno facendo per non entrare in contrasto quando dovranno invadere te.”

“...quando?”

“Venga qui, signore,” disse Giacca Sbottonata.

L’ufficiale si tuffò sotto la luce della lampadina. Si mise di fianco al colonnello e gli toccò il braccio per fargli togliere il palmo dalla cartina. Il colonnello si mise in disparte come l’altro generale. Giacca Sbottonata si piegò su una delle mappe. Scoccò un’occhiata a Polonia e gli indicò il tavolo con un palmo aperto. Polonia strinse i denti. Sollevò il piede solo di pochi millimetri e lo fece scivolare in avanti. La suola dello stivale singhiozzò contro le piastrelle. Polonia inghiottì un grumo di saliva che sapeva di bile e lo ricacciò nello stomaco. Le labbra lucide e tremanti ebbero un fremito. Polonia prese un sospiro e camminò verso il tavolo a pugni stretti, fiato in gola.

Giacca Sbottonata prese una penna da sotto un fascicolo aperto. Era chiusa, e l’uomo appoggiò il cappuccio nero sulla punta della regione della Danzica, a ovest. Dava sul mar Baltico, chiusa da Germania e Prussia orientale. Un cerchio tracciato più volte contornava l’insegna della città.

“Il primo allarme è arrivato da Westerpalette, signore.”

“Weste...” Polonia fece un salto. Premette entrambe le mani sulla bocca, e gli occhi s’infossarono nelle orbite. “Ah, la corazzata!”

“È...” Giacca Sbottonata abbassò la fronte. “Distrutta, signore. Abbiamo contratto danni enormi.”

Le dita di Polonia scivolarono lentamente dal viso e rimasero rigide davanti al petto. Le labbra socchiuse tremavano, tutto il corpo era scosso da una pioggia di brividi.

“L’esplosione ha raggiunto i depositi di munizioni ed è tutto saltato in aria,” finì Giacca Sbottonata.

L’altro generale rientrò nel fascio della lampada. Il suo sguardo contratto incrociò quello di Giacca Sbottonata. “Sono avanzati dalla Danzica?”

Giacca Sbottonata scosse la testa. “No.” Il tappo della penna passò più volte sull’arco di confine con la Prussia. Due pesanti croci marcavano i territori. “Abbiamo contato due armate a nord, provenienti dal territorio prussiano. Si stanno entrambe dirigendo verso la linea Vistola.” La penna scivolò in avanti fino alla linea irregolare che correva sulla regione polacca. La penna risalì verso la punta della Danzica e si fermò più in basso. Una croce segnava il confine ovest. “Ma allo stesso tempo stanno accerchiando il confine sud della Danzica.”

Giacca Sbottonata scollò il cappuccio di plastica dalla mappa. Giunse le mani dietro la schiena e si rivolse a Polonia. “Temo che stiano isolando la regione, signore.”

“Ma...” Polonia scosse la testa. Le pieghe di paura e confusione si infossarono, diventando rughe di rabbia. Polonia fece uno scatto in avanti e poggiò l’indice tremante sotto la Danzica. L’unghia graffiò il confine. “Ma non possiamo mettere tipo tutte le difese lì e...”

“Tre armate tedesche stanno procedendo anche da sud ovest, signore.” Giacca Sbottonata poggiò la punta della penna tappata sotto una delle linee irregolari che segnavano i fiumi. Warthe era segnato a caratteri corsivi. Il generale indicò i confini sotto il fiume. “Due, invece, stanno accerchiando l’altra linea Vistola.” La penna scese verso la Slovacchia. Risalì sulla catena di monti che la separava dal territorio polacco.

Il generale che aveva scortato Polonia fece un passo avanti. Lo sguardo assottigliato brillò nella penombra. “Puntano Cracovia.”

La città attendeva l’armata poco più sopra della catena di monti.

Polonia affondò di nuovo i denti nel labbro. Due fili di capelli gli scivolarono davanti agli occhi, sfuggendo dalle orecchie. “E la terza armata dove va?”

I due generali si guardarono. Gli occhi di Giacca Sbottonata saettarono nell’ombra e incontrarono quelli vacillanti del colonnello. Giacca Sbottonata inspirò, e tenne il petto gonfio. La penna risalì il confine, si fermò dietro il fiume e la mano del generale tremò per un istante. Il tappo valicò il fiume, la plastica che sfregava la carta era l’unico suono nella stanza. La linea invisibile tracciata da Giacca Sbottonata stava salendo verso una delle due armate prussiane. L’ufficiale fermò il braccio, la penna si bloccò sopra una scritta in stampatello maiuscolo più grossa delle altre.

Polonia ebbe un fremito. Lo stomaco in subbuglio si attorcigliò e il conato di vomito lo lasciò senza fiato. Polonia strinse una mano fra i capelli e le dita premettero sulla fronte pallida come un lenzuolo.

Un debole piagnucolio strozzato. “Varsavia.”

Giacca Sbottonata buttò fuori la boccata d’aria. Annuì senza che nessuno lo notasse. “Abbiamo già mobilizzato la flotta aerea.” Bilanciò il peso sui piedi e gli stivali di pelle scricchiolarono. “Ma gli stormi della Luftwaffe hanno bombardato i nostri ancora prima che potessero decollare, poi hanno letteralmente incendiato le campagne e le città più aperte.” Questa volta, fu l’indice di Giacca Sbottonata a indicare la mappa. “Wielun è già a terra, signore. Se le armate tedesche procederanno di questo ritmo, c’è il rischio che superino il fiume in pochi giorni.”

“E rinforzare la difesa su ambo i lati, sia tedesco che prussiano?” chiese l’altro generale.

Giacca Sbottonata scosse il capo. “È impossibile far arrivare più munizioni o altra artiglieria.” Sollevò la mano e si massaggiò il collo scoperto. “Hanno già raso al suolo le nostre reti ferroviarie e le strade. È impossibile comunicare con le nostre armate via terra.”

Polonia emise un guaito. Un profondo e lungo lamento, come quello di un cucciolo abbandonato sul ciglio della strada. Socchiuse le palpebre e gli occhi si gonfiarono, annaffiati dalle lacrime che brillavano davanti alle pupille vacillanti. Arricciò le labbra. Le guance e il naso si tinsero di rosso.

“Perché?” piagnucolò.

I tre ufficiali gli lanciarono un’occhiata confusa.

Polonia si tuffò sul bordo del tavolo intrecciando le braccia davanti al viso. I fini capelli biondi scivolarono sui polsi incrociati e toccarono le mappe ammucchiate. Un singhiozzo gli fece gonfiare la schiena. “Perché?” Batté i pugni sul tavolo come un bimbo che fa i capricci. Il tono di voce aumentava a ogni colpo. “Perché? Perché? Perché?” Polonia sollevò il viso. Le lacrime brillarono sulle guance e scesero fino alle labbra. Gonfi occhi lucidi spremevano il pianto isterico che incollava i capelli alla pelle umida delle guance.

Polonia tirò su col naso e il singhiozzo si liberò nell’ultimo lamento. “Perché tutti mi attaccano?”

I tre uomini irrigidirono. Giacca Sbottonata tese una mano verso di lui ed esitò, come avesse paura di toccarlo. Il suo viso si piegò in una ruga di confusione. “Signore...”

Polonia si strofinò il viso con la manica della maglia. Batté più volte il pugno su tavolo. Strizzò gli occhi facendo sgorgare altre lacrime che gli annacquarono il viso. “Non voglio! Cos’ho fatto di male?” Chiazze scure si aprirono sulla mappa. Gli aloni si estesero sulla carta bagnata. Polonia prese un sospiro e alzò il viso al soffitto. “Perché nessuno mi aiuta?” Tornò a tuffare il viso tra le braccia, e il pianto si soffocò. La schiena e le spalle continuarono a tremare, scosse da singhiozzi.

Giacca Sbottonata si avvicinò lentamente. Le mani insicure, sempre allungate verso Polonia, si avvicinarono alla sua schiena.

“S... signore...” Giacca Sbottonata chinò le spalle. Posò una mano sulla schiena di Polonia e cercò il suo sguardo. “La prego, non si butti giù. Possiamo ancora trovare una soluzione.”

I lamenti di Polonia si spensero, come se il generale avesse premuto un bottone. Polonia ruotò il viso arrossato e sciupato verso Giacca Sbottonata, ma rimase chino sulle braccia. Il labbro inferiore tremò, gli occhi lucidi e rossi brillarono sotto la luce. Polonia tirò di nuovo su col naso ed emise un gemito.

“D-davvero?”

“Signore.” Giacca Sbottonata raddrizzò la schiena. Si mise una mano sul petto, sopra i gradi dell’uniforme. “Non ho intenzione di arrendermi senza lottare.”

Polonia si strofinò la faccia, le dita sfregarono le palpebre e stropicciarono la pelle del viso, ripulendola dalle lacrime. Sollevò il petto dal tavolo e abbassò gli occhi ancora arrossati sulla cartina. Arricciò le labbra. La punta dell’indice roteò sopra il confine della Danzica.

“Hai detto che i tedeschi sono tipo qui, giusto?”

Giacca Sbottonata annuì. “Sissignore.”

“Fate saltare il ponte.”

Il colonnello ebbe un sussulto. Tutti rimasero di sasso, e il colonnello fece un passo indeciso verso Polonia. La sua voce tremava. “S-signore...”

“Se togliamo il ponte, l’armata non potrà attraversare il fiume, e gli impediremo di arrivare a Lotz, e intanto ingigantiremo la difesa sugli altri fronti,” disse Polonia.

Il generale che lo aveva portato nella stanzina si avvicinò alla mappa. Lanciò un’occhiata ai segni tracciati, al dito di Polonia che indicava i confini, e i suoi occhi si allargarono.

“Sì, potrebbe funzionare,” disse.

Giacca Sbottonata sollevò un sopracciglio.

Il generale posò una mano su un angolo della carta, spostando una delle due penne sopra i fascicoli sbudellati. “Si tratterebbe solo di una demolizione, non ci sarebbero vittime.” Il suo dito seguì tutto il confine sinistro della Polonia. Da nord, a ovest, a sud. “Ci sono cinque armate nemiche, no? Bloccare una non sarà molto, ma almeno potrebbe rallentarli, e darci tempo di respingere anche le altre.”

Il colonnello si mise sull’attenti. Le spalle tremavano ancora, ma le braccia tese fasciarono i fianchi rigidi. “Sissignore, invio subito l’ordine.”

Il colonnello uscì dalla stanza e richiuse la porta. Tornò il silenzio.

Polonia si chinò sulla cartina. I capelli contro le guance avvolsero il viso nell’ombra. I pugni del ragazzo si strinsero sui bordi della mappa.

“Voglio una difesa a cuscino,” disse Polonia.

Giacca Sbottonata sbatté le palpebre, non capendo. “Come dice?”

Polonia posò due dita sul suo territorio. Le unghie avanzarono con piccoli passi. “Carpazi,” l’indice avanzò, “Cracovia,” il medio lo superò, “Lodz.” A ogni passo, un nome. Le labbra di Polonia si muovevano lentamente. “Poznan, Pomerania, Modlin, Narew.”

Polonia si raddrizzò e annodò le braccia al petto. I capelli sempre sul viso. “Gonfiate le difese di ogni nostra armata come se stessimo creando una specie di barriera di cuscini.” Aggrottò la fronte, lo smalto dei denti stridette. “Non li lasceremo entrare.”

I due generali scattarono sull’attenti. I menti alti e le spalle larghe. “Agli ordini.”

Polonia e Giacca Sbottonata uscirono dalla stanza per primi. Polonia imboccò il corridoio a passo deciso, i colpi dei tacchi rimbombarono tra le pareti. I primi raggi dell’alba colorarono il corridoio di un blu pallido, e le ombre dei due si allungarono fino al soffitto.

Giacca Sbottonata si mise di fianco a Polonia. Le mani giunte dietro la schiena, e il passo deciso. “Altri ordini, signore?”

“Fammi raggiungere Thorn.” Polonia aveva sfilato i guanti dalla tasca. Tirò il lembo della stoffa e indossò l’ultimo tendendolo fino al polso. Il suo sguardo era dritto davanti a sé. La luce del primo mattino gli oscurava il verde delle iridi. “È direttamente sotto il confine della Danzica, no?” Intrecciò le dita tra i capelli e li pettinò. “Sarò io a ricevere gli ospiti, se riusciranno in nonsoché maniera a intrufolarsi.”

Giacca Sbottonata aggrottò la fronte. “Signore.” Il respiro si fece pesante. “Penso sarebbe meglio che lei stesse al sicuro, signore.”

Polonia non gli rispose. Sollevò entrambe le mani e fece sventolare la mantellina sopra le spalle. Le dita si aggrapparono di nuovo alla pioggia di fini capelli. Le mani tremavano. Ci vollero tre tentativi per portarsi le ciocche dietro le orecchie. Il volto di Polonia era bianco, gli occhi vitrei e infossati nelle palpebre. Le labbra increspate trattenevano i respiri singhiozzanti.

“Chiama...” Polonia scosse piano il capo. Prese un altro respiro dai denti serrati. Profonde pieghe di sofferenza segnarono il volto. “Chiama Francia e Inghilterra.”

Giacca Sbottonata ammorbidì lo sguardo. Annuì e abbassò il tono. “Sissignore.”

Il generale si fermò, i passi di Polonia si persero nel corridoio. Il collega raggiunse subito Giacca Sbottonata, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di guardarsi negli occhi.

Giacca Sbottonata scosse il capo. “Va male, generale.”

Il generale gli scoccò un’occhiata. “Signore?”

Giacca Sbottonata si massaggiò le tempie e le dita passarono sulla fronte. “Va male, molto male.” Si fermarono sulle palpebre, stropicciando gli occhi. “La partita è già persa.”

 

.

 

Diari di Polonia

 

Quel giorno, quando Liet mi ha telefonato, io non potevo proprio credere a quello che mi diceva. Cioè, gli dissi: “Liet, sei andato totalmente fuori”, no? Poi mi ero anche appena svegliato e pensavo di non sentirci io, e che anche Liet si fosse appena alzato e che avesse il cervello, tipo, ancora tutto addormentato. E allora io gli dissi: “Cioè, mi sembra totalmente la cosa più folle del mondo. Perché Germania dovrebbe attaccarmi?” Poi io in quel periodo ero ancora sotto il controllo di quell’altro tipo, Russia, e pensavo che, sì, sarebbe stato inutile. Poi Liet aveva detto di averlo sentito proprio da Russia che è un po’ come il suo capo, no? E allora pensai: “Ehi, ma che senso ha che Germania si metta d’accordo con Russia per prendere un suo territorio? È totalmente assurdo.”

E allora semplicemente non ci pensai. Liet non si è fatto più sentire e allora ho pensato che avesse preso un colpo in testa o un’altra cosa tipo così. Poi però sono venuti gli altri due tipi, Inghilterra e Francia. Io a quei tempi ero quasi tipo un loro alleato e loro piombarono da me di punto in bianco dicendo: “Polonia, devi stare in guardia e rafforzarti perché Germania ha sicuramente intenzione di invaderti.” E poi un mucchio di altre chiacchiere che non mi andava di sentire e che mi sono dimenticato. Io comunque ho riso in faccia a tutti e due. Cioè, era una cosa totalmente incomprensibile. Prima Liet, e ora questi altri due. Cioè, io mi sono sempre fidato più di Liet che di chiunque altro, ma continuavo a non voler credere a nessuno.

Poi forse era perché non volevo pensare che potesse davvero succedere tipo una cosa simile. Ero messo ancora un bel po’ male, ma lo eravamo tutti, e io pensavo: “Ehi, ma dove diavolo li troverebbe i soldi e le forze per invadermi, quel tipo di Germania?” Poi, be’, è successo. Forse se mi fossi, tipo, armato prima avrei potuto almeno evitare di ridurmi in quella maniera, ma sicuramente non è stata mia la colpa per tutto quello che è successo dopo.

Io sono stato il primo, ma credo che comunque ci sarebbero finiti in ballo tutti, anche se io avessi, cioè, provato a resistere.

 

   
 
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