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Autore: Nidham    04/11/2014    0 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Continuo a chiedermi che fine abbiano fatto i due presunti amanti, visto che non possono essersi volatilizzati, né possono esserci passati accanto senza farsi vedere. Forse potrei aver frainteso la provenienza del rumore e si trovano in una delle stanze rimanenti, dove finiscono altre serie di impronte, ma, dopo aver aperto ogni porta e ispezionato una noiosa sequela di camere prive di personalità e arredate senza alcuna fantasia, mi devo convincere che non ci sia nessun altro qui, a parte noi.

Confusa, torno al punto di partenza, incapace di darmi una qualsiasi spiegazione, ma decisa a trovarne una almeno plausibile; Gabriel mi passa davanti, entrando per primo nella stanza da letto di Morel, nonostante sia ovvio, ormai, che non ci sia alcun pericolo, vero o presunto.

“Perché ti preoccupi tanto per me?”

Sembra sorpreso dalla mia domanda, quasi quanto lo sono io dall'averla posta.

“Non lo so” protesta a mezza voce. “Tra l'altro è una faticaccia.”

“Allora non farlo, non ho bisogno di una balia.”
“Hai bisogno di aiuto.”
“Non ho bisogno di niente” protesto, sapendo di mentire, ma offesa dall'idea che rimanga al mio fianco per pietà o per un'assurda idea cavalleresca. “Puoi anche andartene e non sprecare tempo.”

Vorrei continuare a bisticciare, ma c'è qualcosa di nuovo in questa stanza, un'ombra lunga e sottile più intensa delle altre, proprio ai piedi di Gabriel e, quando cerco di capire da cosa provenga, riesco quasi a strozzarmi con un grido inarticolato: sulla trave scheggiata posta in linea retta con la sedia rovesciata, dondola una robusta corda grezza, con un inquietante nodo scorsoio in fondo, a mo' di cappio.

“Spostati da lì” gli ordino, pur senza comprendere a fondo la strana paura che mi ha invaso. “Quella non c'era prima.”

Nonostante tutte le sue paranoie, stavolta il mio assurdo accompagnatore non sembra turbato, né sorpreso, si limita a fare rapidamente un passo di lato, osservando quel macabro trofeo con aria disgustata.

“E' lì che Jacques si è impiccato.”

“E la gendarmeria ha lasciato lassù quell'orrore?” sento che la mia razionalità sta di nuovo, per fortuna, prendendo il sopravvento, ma avverto anche una rabbia sorda e fiammeggiante attanagliarmi le viscere, incontenibile e imprevedibile come, poco prima, lo era stata la lussuria. C'è un pesante odore di whisky nell'aria e quell'aroma, di solito piacevole, mi infastidisce ancora di più.

“Sei anche un ubriacone?” lo aggredisco, quasi isterica. “Ti sei portato dietro una di quelle bottigliette da supermercato?”

“Io non bevo mai alcolici” si schernisce, più preoccupato che irritato. “Non mi piace. Ma sento anch'io questo strano profumo. E credo dovremmo davvero andarcene.”

Faccio fatica a ragionare e uso ogni briciolo di volontà per non urlargli in faccia qualche improperio a caso, giusto per la voglia di sfogarmi, così mi lascio trascinare via, riacquistando un po' di calma non appena mi prende per mano e il suo calore risale lungo il mio braccio a sciogliere quel grumo di collera e insensatezza che mi stava soffocando. Non mi ero accorta di avere il respiro affannoso, né del leggero velo di sudore freddo salito a imperlarmi la fronte, ma l'immagine di me che vedo riflessa nei suoi occhi preoccupati ricorda pericolosamente una delle Erinni, con l'espressione stravolta e lo sguardo allucinato, il che mi porta ad un'altra considerazione a cui non avevo fatto caso.

“Non c'è neanche uno specchio, quassù” la mia voce, adesso che Gabriel ha chiuso alle nostre spalle quella maledetta porta, ha un tono quasi normale. “Neanche nelle camere degli ospiti.”

“Hai ragione. Forse Morel non amava vedere la propria immagine riflessa.”

“Strano per un fanatico del sesso all'avanguardia. E strano che sua moglie fosse costretta a truccarsi a tentoni.”

Lo squillo del mio cellulare fa trasalire entrambi e gli evita di inventarsi una qualsiasi risposta.

E' Jasmine.

Non so neppure che ore siano, ma probabilmente aspettava che la rassicurassi ore fa sul mio stato di salute, infatti, appena rispondo, la sua voce ha una sfumatura malcelata di panico.

“Ciao” cerco di apparire disinvolta.

“Stai bene?” va diritta al punto e sembra quasi in lacrime per il sollievo. “Meno male, ho appena avuto una terribile sensazione, come la sera dell'incendio, e dovevo assolutamente sapere se stessi bene e fossi al sicuro.”

“Sì, stai tranquilla. Sono solo uscita un po' e sono venuta a curiosare alla villa che dipingeva sempre Emile.”

“Quello non è un posto sicuro! È un luogo infestato dagli spiriti.”

Ignoro la strana espressione di Gabriel, che sembra quasi rivolgersi direttamente al cellulare per dire di non sprecare fiato.

“Per prima cosa i fantasmi non esistono” e guardo il mio compagno sfidandolo a contraddirmi. “E poi non sono da sola.”

“Chi c'è con te?” adesso il tono è quello giocoso da pettegolezzo. “Un ragazzo?”

“Sì.”

“Bello, ma spiantato o brutto, ma ricco?”

“Bello, ma spiantato.”

“Ehi” Gabriel protesta a bassa voce, guardandomi male. “E' bello sentirsi un uomo oggetto.”

“Ad ogni modo, Alex, ti prego, vieni via da lì” riprende Jas, con voce di nuovo turbata. “Non sono tranquilla.”

Adesso sono in due a darsi manforte inconsapevole e non ho voglia di combattere su entrambi i fronti.

“D'accordo, tanto quassù avevamo finito” sono costretta a capitolare. “Ti chiamo dopo.”

Riattacco, ignorando la smorfia soddisfatta dipinta sul volto del mio improbabile cavaliere, e comincio a scendere le scale.

C'è però un'ultima porta che non ho controllato, al primo piano, e non ho intenzione di andarmene senza aver portato a termine il lavoro, così ignoro il buon senso e le proteste e apro le pesanti ante scorrevoli che dividono l'ingresso da quella che scopro essere un'enorme biblioteca, assolutamente inappropriata al resto della casa.

Ci sono tre pareti completamente coperte da polverosi scaffali di semplice legno di noce, quasi austeri nella semplicità delle linee, squadrate e essenziali, per niente consoni alla mobili trovata negli altri ambienti, ridondante e pacchiana. Anche il grosso tavolo da lettura, al centro della sala, poggiato su un tappeto che un tempo doveva essere folto e pregiato, con sgargianti arabeschi dalle forme bizzarre, ha un aspetto solido e spartano, con numerosi segni di usura su tutta la superficie. I libri sembrano divisi per argomento, alcuni antichi, altri semplici tomi di storia e letteratura, tra cui alcuni scritti con caratteri arabi, altri con l'inquietante aspetto di volumi di occultismo e magia nera.

Ovviamente Gabriel si dirige subito verso questi ultimi, raccogliendo da un leggio un libro dalla copertina in pelle scura, di vecchia carta pergamena, aperto ad una pagina con la figura del diavolo dei tarocchi, molto simile alla statua del giardino, anzi, anche troppo simile per i miei gusti, perché il colore particolarmente vivido degli occhi raffigurati nel disegno è in tutto e per tutto uguale a quello sanguigno che mi aveva colpito su quel mostro.

“Ecco da cosa deve aver preso spunto quel pazzo.”

“Tarocchi e magia nera.”

“Intendevo per la statua fuori. È identica, se non si considera la figura femminile in braccio.”

“Forse, viste le sue fissazioni, ha voluto aggiungerci un tocco di malsana sensualità.”

Mentre mi avvicino noto che una delle larghe assi di legno del pavimento è leggermente scheggiata e, non appena vi poggio il piede, risuona in modo strano, come se non fosse poggiata su niente di solido.

Anche Gabriel l'ha notato, perché, senza che io debba insistere, è già al mio fianco con un coltello in mano, per provare a sollevarla, scoprendo una botola di pietra con un massiccio anello di ferro, appena rugginoso. O Morel voleva un accesso rapido per la cantina, nel caso avesse voglia di bere mentre si dilettava con forbite letture, o laggiù c'è qualcosa di diverso e meno legale di un deposito di vini.

“No” Gabriel non mi lascia neanche il tempo di parlare.

“Ma dai, non sei curioso neanche un po'?”

“Preferirei togliermi la curiosità sapendoti al sicuro.”

“Sai benissimo che non te lo lascerei fare.”

“Figuriamoci se lo faresti”sta diventando più ragionevole, o forse è solo rassegnato. “Fammi spazio, libero la botola.”

Sembra di essere in un film sui pirati o in qualche storia fantasy con segrete e labirinti nascosti. Man mano che Gabriel toglie i listoni di legno, scopriamo un altro strato di pavimentazione forse precedente, con un mosaico bianco e nero a spirali concentriche, tutte terminanti intorno alla botola, un compatto blocco di pietra grezza dall'aria estremamente pesante e poco adatta alla raffinata ricercatezza del pavimento circostante.

Mi chiedo come un uomo d'affari come Morel, di sicuro poco avvezzo alla fatica fisica, riuscisse a sollevarlo, dato che persino Gabriel è costretto a compiere un notevole sforzo per riuscirci, alzando lentamente un macigno assurdo, simile ad un cubo con lati di almeno un metro.

“Come diavolo hai fatto?” sono più incredula che impressionata. “Sei Superman?”

“Mi sono sfibrato quasi tutti i muscoli” la voce è appena un po' affannata, ma non tanto quanto mi sarei immaginata.

“Non stancarti, se dobbiamo fare sesso ti voglio in forma.”

“Sono pronto e attivo, madame” se non fosse assurdo, giurerei che sia arrossito leggermente.

“Non è una cosa carina da dire.”

“Cosa? Madame?”

“No, che sei pronto e tutto il resto. Cosa sei, uno stallone da monta?”

“E' così che mi sono sentito.”

“Guarda che scherzavo!”

“Anch'io.”

“Sì, certo, come se non conoscessi gli uomini.”
“Non ricordi niente, non sai se li conoscevi.”

Mi viene un dubbio assurdo: “Pensi fossi vergine?”

Mi guarda a metà tra l'esasperato e l'imbarazzato, apre la bocca probabilmente per mandarmi al diavolo, poi cambia idea e si china sulla botola, concentrandosi ad ispezionarla e decidendo di ignorarmi.

Proprio come nelle favole, c'è una stretta scala a chiocciola con gradini consunti e scivolosi, ma perfettamente puliti e privi di tracce di umidità, come mi sarei aspettata di trovare in qualsiasi seminterrato di Parigi.

“Non c'è neanche un insetto” mormora. “Neanche una ragnatela.”

Inizia a scendere, accendendo una piccola torcia portatile, appena la luce della biblioteca ci abbandona.

C'è freddo e un silenzio pesante, dove i nostri passi sembrano rimbombare con troppa violenza; sembra di entrare in una tomba, invece che in una cantina e, istintivamente, cerco di non sfiorare nulla di quanto mi circonda.

Non sono brava con le misurazioni e la spirale perfetta della scala, dopo poco, mi fa perdere la cognizione dello spazio, ma credo di essere scesa abbastanza in profondità quando, finalmente, la scala lascia il posto ad una polla indistinta di oscurità, talmente densa da provocarmi le vertigini, laddove suppongo lo spazio si allarghi nella famigerata stanza sotterranea, di cui la timida luce dalle torcia riesce a rivelare appena i primi contorni.

Sono felice di avvertire la solida presenza di Gabriel davanti a me, perché la sensazione di ritrovarmi cieca in un luogo sconosciuto mi mette i brividi, per quanto cerchi in ogni modo di nasconderlo anche a me stessa: non credo ai mostri nascosti nel buio, ma credo di potermi spezzare una gamba infilando i piedi in una buca o di prendermi il tetano ferendomi su qualche ferrovecchio al momento invisibile.

Rimanendo sulla soglia, riusciamo a distinguere un'ampia camera con il soffitto a volta e il pavimento di terra battuta, ma non saprei dire quanto si spinga in profondità, perché il fascio di luce viene fagocitato dalle ombre a solo pochi passi da noi.

Avverto il respiro di Gabriel calmo e regolare, ma le sue spalle, a cui mi sono appoggiata in un attimo di debolezza, sono tese come una corda pronta a spezzarsi: è all'erta e, per una volta, non riesco a prenderlo in giro.

Quando mi offre di aspettarlo mentre ispeziona il resto, sono quasi tentata di accettare, ma temo che lasciarmi sopraffare da una paura irrazionale non sia il modo migliore di affrontare questa situazione, così gli afferro un lembo della giacca con mano sicura e presa inespugnabile e allungo il primo passo nell'ignoto dietro di lui.

Il pavimento, per quanto spartano, sembra solido e incredibilmente liscio, quasi fosse fatto di marmo e non di terra pressata. Le pareti sono di mattoni e pietra, in squadra perfetta rispetto al terreno, e sul lato destro presentano una serie di strampalate fessure della grandezza di un pugno, sistemate su tre linee sfalsate a partire da poco più di un metro dal pavimento.

Procediamo piano, a tentoni, facendo precedere ogni passo da un'esplorazione luminosa, ma non sembra esserci alcun pericolo e inizio a rilassarmi, costringendo Gabriel ad afferrarmi di scatto per non farmi cadere, appena col piede sfioro un tratto di terreno smosso che cede sotto il mio peso verso quello che si rivela essere una specie di pozzo privo di barriere e, all'apparenza, anche di fondo.

“Che diavolo ci fa questa buca in mezzo al pavimento?” maschero lo spavento con la rabbia. “Sembra di essere in The ring.”

“Ti sei fatta male?”

Scuoto la testa, incapace di parlare perché, all'improvviso, dalle ombre intorno a noi avverto provenire un sibilo sordo che mi fa accapponare la pelle, prima di comprendere che debba trattarsi solo di una corrente d'aria tra le scale e questo pozzo.

Per quanto mi sporga, non riesco a intravederne la fine: le pareti sono di pietra, perfettamente levigate e asciutte, se si trattava di un deposito per l'acqua è secco da tempo. Proprio quando sto per disinteressarmene, attenta solo a girarci alla larga, sento uscirne un uggiolio roco, come il lamento di un cane ferito. Anche Gabriel l'ha sentito, perché sposta di nuovo il raggio della torcia e afferra uno dei suoi pugnali; dubito che un animale possa essere finito laggiù, ma la cosa più assurda è che adesso riesco a vedere un immoto strato di acqua putrida in quel buco, a circa dieci metri da noi, e sono più che certa di non averla notata prima.

Il suono lamentoso si trasforma in un un cupo latrato, poi in una cacofonia di ringhi selvaggi che crescono di intensità rimbombando nel vuoto della cantina, fino a svanire improvvisamente in un guaito funereo che ci lascia nel più assoluto silenzio e smarrimento emotivo.

“C'è un passaggio che collega al giardino?” dico quando mi sono stancata di rimanere a fissare il vuoto con l'aria ebete. “Nessuna bestia potrebbe sopravvivere lì sotto.”

“Forse c'è un passaggio laterale, vado a vedere” mi passa la torcia, gettando una gamba oltre l'apertura, ma l'afferro prima che si incastri del tutto in quel buco largo appena quanto le sue spalle.

“Tu non scendi là sotto” non voglio lo faccia, non voglio che nessuno si cali in quello schifo. “Scendo io.”

“Neanche per idea.”

“Che c'è, tu sei per caso un esperto di free climbing, per cui sapresti muoverti meglio di me?”

“Ho fatto anche quello, ma non è per questo che non ti permetterò di fare una simile sciocchezza.”

“Non la farai neanche tu.”

“Ottimo” ringhia quasi come quelle bestie infernali. “Allora rimaniamo tutti e due quassù.”

Getto in acqua un un sassolino e la superficie rimane immota, inghiottendolo senza generare increspature, probabilmente per uno strato troppo denso di alghe o sporcizia che ancora non riesco a intravedere, in compenso devo aver disturbato qualcosa, perché avverto di nuovo un brontolio di protesta, che non so se venga dal pozzo o dalle mie spalle.

“Non sembra di vedere gallerie nelle pareti. Forse il rumore non viene dal pozzo, rimbomba solo laggiù, ma proviene da fuori, magari scivola lungo quei fori sul muro di fronte, per qualche strano fenomeno di propagazione del suono che non riesco a capire.”

Forse quelle strane fessure erano condotti per il deflusso dell'acqua piovana, da raccogliere in questa cisterna per i momenti di siccità estiva, anche se un pavimento di terra non è proprio l'ideale per un simile scopo.

Mi avvicino con cautela a uno di quei fori, illuminata dalla torcia, e non riesco a sopprimere un gridolino patetico, perché, per un attimo, mi sembra di vedere un occhio bianco privo di palpebre intento a osservarmi dal buio del condotto.

“Che succede?” ovviamente Gabriel si mette subito in allarme, ma è solo il reflusso delle droghe che, a volte, mi provoca ancora allucinazioni.

Non ci sono segni di tubature, ma intravedo qualcosa verso il fondo che non riesco a interpretare.

“Fammi un po' di luce” mi sposto per lasciargli spazio.

“Infilo io la mano lì dentro” prova a fermarmi, col risultato che riusciamo solo incastrare i bracci di entrambi in quel cubicolo sudicio e puzzolente, senza che nessuno dei due riesca a raggiungere l'oggetto misterioso.

“Leva la manona” lo rimprovero, per ignorare il conforto che, nonostante la situazione ridicola, mi dà sentire la sua mano grande e forte sulla mia, completamente inglobata dalle sue dita lunghe e affusolate. “Siamo incastrati.”

Storce leggermente il polso e, nello stesso tempo, cerca di spingermi fuori, stando anche attento a non farmi graffiare, ma in pratica ottiene solo di lasciarmi sgusciare più in profondità nella fessura, fino a farmi sfiorare qualcosa di vagamente sferico e levigato, simile ad un pomello per le porte.

“L'ho preso” esulto, ignorando i suoi rimproveri e tirando fuori un manico di cuoio perfettamente conservato, con allegata una cinghia spessa come due delle mie dita e lunga quasi più di me.

Un flebile gemito femminile mi fa morire in gola l'ultima cazzata che stavo per pronunciare, tirando in ballo Indiana Jones, e mi fa alzare tutti i peli sulle braccia.

Viene dalle nostre spalle, in quella zona della stanza che non abbiamo ancora esplorato e, per quanto mi sembri assurdo che qualsiasi forma di vita diversa da un batterio possa essere sopravvissuta qui sotto, non riesco ad escludere un brivido di incertezza e terrore: posso capire che la stanza faccia da eco ai rumori del giardino, dove, tra l'altro, avevo già sentito l'abbaiare di cani, ma questo sospiro non può derivare dall'esterno, è troppo leggero, e non è neanche il rumore di uno spiffero, ma un chiaro e inquietante miscuglio di sofferenza e voluttà.

  
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