Impronte
Il cielo
intravisto oltre i vetri della finestra era troppo limpido e azzurro, lontano
dal suo umore tetro quanto la nostalgica felicità di un passato perduto per
sempre. Erano diversi giorni che non usciva nemmeno dalla sua stanza.
Era passata
una settimana… forse due. Aveva perso il conto.
Ma non
avrebbe voluto ricordarlo.
Il tempo era
fatto di polvere che si depositava sulle cose, ed era un altro avversario che
non si poteva sconfiggere, inesorabile e severo.
Non mangiava
e dormiva poco, né aveva alcuna voglia di allenarsi; i suoi genitori erano
preoccupati e lei si dispiaceva per loro, ma pensava che nessuno al mondo in
quel delicato momento potesse aiutarla. Né i suoi amici del circolo del tennis,
né la sua amica del cuore Mary, sempre pronta allo scherzo, né Madama
Butterfly, o Teddy, o chiunque altro.
Forse l’unica
che poteva capirla davvero era Rosy, la sola che stesse vivendo un dolore
simile al suo. E se non era simile, era il dolore di una sorella ed era
comunque intenso. Rosy che probabilmente sapeva.
Aveva sempre
saputo la sorte che attendeva suo fratello.
Ma non si può
essere preparati ad un simile evento. Nessuno può esserlo.
Quello era
l’unico allenamento che non aveva ricevuto. Jeremy non l’aveva preparata a questo.
La mangiatrice
di uomini [1] lasciava
addosso un peso di ineluttabilità impossibile da vincere, la sola avversaria
che fosse davvero imbattibile e implacabile, contro cui non si potevano
pretendere rivincite.
La morte non concedeva parità, era sempre
in ampio vantaggio, e la sconfitta che infliggeva era una delle più salate e
amare che si potesse subire.
Jeremy O’
Connors doveva saperlo, eppure aveva combattuto da solo la sua ultima partita
contro il terribile avversario segreto che avvelenava il suo sangue, senza dire
nulla ai suoi ragazzi, senza dire niente a lei, la protetta che si era sentita
troppe volte una come tante, inadeguata a quello sport bellissimo e faticoso,
sballottata tra i suoi desideri e rinunce, in bilico tra coraggio, paura,
determinazione, sconfitta e voglia assoluta di vittoria.
Ventisette
anni, tempo scaduto. Non esistevano tempi supplementari, né ultimi set.
E la lotta
era già in atto quando si erano incontrati solo tre anni prima.
Tre anni.
Tre anni
della sua vita.
Della vita di
Jeremy divisa con lei.
Era tutto
scritto in quel triste diario che Robin, il monaco amico di Jeremy, le aveva
dato al tempio. Leggerlo era stato quanto di più penoso le fosse capitato di
fare.
Leggerlo e
capire tutto: la sofferenza, la speranza remota in un futuro irraggiungibile,
tutti i sogni riposti in una piccola fragile adolescente, una dolce ragazzina
dal carattere battagliero e tenace, attraverso cui poter rivivere e farsi
ricordare.
Quel diario
era lì, sul pavimento con lei, aperto su una pagina lasciata bianca e
battezzata con le sue lacrime. L’inchiostro in una delle ultime pagine era
sbavato in un punto, come se la mano nello scrivere, avesse improvvisamente
tremato. Cercava di immaginarlo mentre lasciava scorrere il pennino sulla carta,
cercava di pensarlo ancora vivo.
Lo aveva
addirittura sognato, sereno e tranquillo, con un sorriso che non gli aveva mai
visto, sotto un albero di pesco fiorito, felice per la sua vittoria. Era stato
un bel sogno, durato lo spazio di un volo tra l’America e il Giappone, ma
svegliarsi era stato tremendo.
Era terribile
tutte le volte che doveva aprire gli occhi e affrontare la realtà della
perdita.
Aveva già
versato lacrime infinite, aveva urlato di rabbia e disperazione; ora non faceva
nulla tranne starsene rannicchiata contro la sponda del letto, seduta sul
pavimento, le ginocchia raccolte contro il petto e trattenute dalle braccia
come se gli arti inferiori potessero crollare sotto il peso di quel dolore.
Dopo la
vittoria conseguita al torneo in America, aveva provato sentimenti di autentica
euforia che sembravano impossibili da controllare, ma si erano dissolti in un
baleno, travolti da un’ onda nera che aveva il colore profondo dell’angoscia.
E ora non le
restava che il vuoto.
Un vuoto
abissale in cui collassava tutto il suo mondo, il mondo del tennis, un luogo
fatto di fatica, sudore e passione autentica che Jeremy aveva costruito insieme
a lei, per lei.
Ogni colpo,
ogni palla buttata contro la rete, lanciata oltre le linee del campo, i rovesci,
le corse sulla terra rossa, le sfide e le umiliazioni, tutto era stato per lui.
Solo per lui.
Perché solo
lui, all’inizio aveva creduto in lei.
E lei, gli
era profondamente grata per questa fiducia incondizionata.
Non c’era
stato sacrificio che non fosse stata disposta a fare per ripagarlo di quella
fede riposta.
Anche
l’amore.
Sì, anche
l’amore aveva messo da parte.
E aveva
imparato ad amare il tennis, e attraverso il tennis aveva amato lui.
E tutto
sembrava andare in pezzi.
Il mondo ora era
fatto di macerie impossibili da ricostruire.
Cosa le
restava adesso?
Il sacrificio
non aveva più senso perché tutto era stato fatto per Jeremy.
Tutto quello
che ho fatto, l’ ho fatto per te, mio dolce Jeremy. Tutta la forza, la passione
che avevo dentro, me l’ hai data tu, pensò Jenny in quel momento, e i suoi
grandi occhi chiari iniziarono a piangere di nuovo.
Forse non
avevano mai smesso. Il dolore era sempre lì, inchiodato sul cuore, e non sarebbe andato via tanto presto. Forse non l'avrebbe abbandonata mai.
Era stato un
amore strano, una specie di amore platonico. Sicuramente ricambiato.
Quasi
segreto, eppure non del tutto, perché era un legame percepibile a chi stava
loro intorno. Era tangibile, visibile con gli occhi. Lo aveva sentito l’amore
di Jeremy per lei, una comunione dello spirito tra la creatura plasmata e il
suo Pigmalione.
Era una
passione autentica che la faceva vivere. E l’aveva fatta crescere.
Ma per Jenny
era finita troppo presto e troppo tragicamente, come se un impietoso coltello
affilato avesse reciso di netto il cordone emotivo che la legava a Jeremy.
C’era
qualcuno che bussava alla porta della sua stanza.
Chissà da
quanto tempo era lì dietro, che chiedeva di entrare; faticosamente Jenny risalì
dal suo limbo di silenzio in cui si perdeva per ore, dove non arrivava suono né
emozione che fosse vitale, ma solo sofferenza, e lentamente come se provenisse
da chissà quali oscure profondità, riconobbe la voce.
Taddy era lì.
Era tornato da lei e insisteva per poterla vedere.
Era un caro
ragazzo Teddy, un amico sincero dall’animo sensibile.
“Jenny, per
favore, fammi entrare. Non me ne andrò da qui, finché non mi permetterai di
parlare con te, a costo di restare dietro questa porta chiusa tutta la notte.”
Lo avrebbe
fatto davvero. Lo sapeva bene.
Era un
ragazzo determinato in tutto quello che faceva.
Jenny trovò
la forza per alzarsi dal pavimento e andare ad aprire la porta. Lo fece quasi
per inerzia, senza una reale volontà. Non trovava impulsi per fare nulla e ogni
movimento che imponeva al suo corpo, la torsione di un polso, sollevare un
braccio o piegare un ginocchio, era un gesto meccanico, quasi fosse stata un’
automa. Spalancò la porta e si trovò davanti lo sguardo franco e preoccupato di
Teddy, che la sovrastava in tutta la sua imponente statura di atleta prestante,
forte e possente.
Era un gran bel
ragazzo Teddy, e in molti momenti anche recenti le era capitato di guardarlo
con autentico interesse.
Non era così
adesso.
Lo guardò
appena, distratta, lo sguardo assente e remoto, gli occhi cerchiati di
stanchezza e lacrime seccate sulle guance. Abbassò lo sguardo al pavimento
dandogli le spalle, senza dire una parola, avviandosi verso la finestra. Lo
sentì fare un passo dentro la stanza e chiudere la porta alle sue spalle. Sentì
il fruscio dei suoi jeans, mentre si sedeva sulla sedia accanto al letto.
Quante volte
era venuto nella sua stanza?
Forse due o
tre, e mai da solo.
Jeremy non
era mai entrato nella sua stanza. Mai una volta che fosse venuto a trovarla a
casa. Non aveva ricordi di lui, lì, e improvvisamente pensò che avrebbe voluto
trovarsi altrove, in un luogo dove lui fosse stato presente.
“Jenny… -
Teddy l’aveva chiamata per nome, e lei parve ridestarsi dal suo torpore. Puntò
lo sguardo su di lui e non ricordò di averlo mai visto così triste. Una
tristezza che le fece male. – Devi trovare la forza di reagire. Devi farlo per
te stessa, e poi per Jeremy. Per Reika, Rosy… e anche un po’ per me.”
Le ultime
parole furono quasi un sussurro inudibile.
“Oh Teddy… io
non ho più voglia di giocare a tennis. Non ha più senso continuare…” confessò
Jenny, senza poter nascondere tutta la sua afflizione.
“Non devi
neppure pensarlo. Il tennis è il tuo mondo, la tua vita: non puoi buttare via
anni di sacrificio serviti per arrivare fin qui. Renderesti vano tutto il
lavoro di Jeremy, e sono certo che non lo vuoi.”
“Avevo ancora
bisogno di lui, dei suoi consigli. Non posso farcela Teddy, non posso… è troppo
difficile…”
I brevi
singhiozzi di Jenny erano come spine contro il cuore affranto dell’amico. Teddy
lasciò che si sfogasse, la guardò in silenzio, mentre appoggiava la fronte al
vetro freddo della finestra. Attese pochi minuti, poi si alzò dalla sedia per
avvicinarsi alla ragazza che continuava a volgergli le spalle.
Lei non lo
sentì avvicinarsi.
Si accorse di
lui, solo quando avvertì le mani calde del ragazzo posate con dolcezza sulle
sue spalle. Senza che se lo fosse aspettato, provò un subitaneo senso si
sollievo per quella vicinanza inaspettata. Gliene fu grata.
I suoi
singhiozzi si calmarono, pur non cessando del tutto.
“Puoi contare
su di me, Jenny. Ce la farai e io ti aiuterò se me lo permetterai. Non
arrenderti, ti prego. Appoggiati a me e io ti sosterrò in questo momento
difficile.”
Non è giusto…
non è giusto… non è giusto…
Jenny non
faceva che ripetere le stesse parole ossessive, un lamento che aveva il suono
insistente di una cantilena. Teddy all’udirle, accentuò la pressione delle mani
sulle spalle della ragazza. Avrebbe tanto voluto circondarla in un abbraccio
consolatorio, stringerla con la schiena contro il suo petto, ma si trattenne.
Restò fermo,
in attesa, le mani sempre appoggiate su di lei a cogliere i fremiti convulsi
del suo corpo, che pareva sul punto di scoppiare di dolore.
Voleva che
fosse lei, e lui voleva essere pronto, preparato a quella deflagrazione e
attutire il colpo.
La sentì singhiozzare,
prima sommessamente, nel disperato, impossibile tentativo di soffocare le
lacrime che spingevano per uscire. E quando gli argini di quella pena si
ruppero, Teddy avvertì uno scossone violento e crudele sul cuore: il pianto di
Jenny si fece disperato e senza più controllo, si sciolse bagnando le guance
della ragazza fino a scivolarle sul mento. E quando Jenny straziata e vinta
affondò il viso e le mani contro il maglione di Taddy, lui sentì l’ umidità
arrivare fino alla sua pelle.
E sulla
lingua gli parve di sentire un sapore di sale. [2]
Non gli era
mai sembrata così fragile, sul punto di spezzarsi come cristallo sottile. Se
fosse accaduto, i cocci non si sarebbero mai più ricomposti. Anche Robin diceva
la stessa cosa, temeva addirittura qualche gesto sconsiderato, e tutti gli
amici erano in ansia per questo.
Era un’ idea
che lo atterriva, e faceva ogni possibile sforzo per allontanare da sé quel
pensiero orribile. Ma poteva non bastare.
Amava Jenny.
Forse un
tempo anche lei aveva provato qualcosa per lui, un pensiero che qualche volta
era stato perfino consolatorio, quando non si ammantava di amaro rimpianto.
L’amava in
silenzio, da anni, di un amore sincero, costante e profondo, consapevole che
prima di tutto c’era sempre stato Jeremy.
Eppure non
l’aveva mai invidiato e aveva nutrito per l’allenatore sempre e solo un grande
rispetto. Certo, avrebbe voluto prenderne il posto, ma mai in un modo simile.
Fu terribile
sapere della sua morte, di quanto fosse stata rapida e improvvisa, e fingere di
fronte a lei per proteggerla dalla terribile verità che le sarebbe comunque
piombata addosso.
Eppure lo
aveva fatto, con indicibile sforzo.
Per amor suo.
E sempre per
amore, ora era lì a offrirle il suo sostegno, a infonderle coraggio per uscire
da quella stanza, e tornare a lottare su un campo da tennis, a sfidare la vita.
E forse,
chissà quando, sarebbe arrivato anche per lui il momento di ricominciare.
E forse, no.
Ma non
importava.
La cosa
veramente importante era che Jenny superasse quella difficile prova, a
qualsiasi costo, anche se voleva dire rinunciare a lei, che continuava a
bagnare di lacrime il suo maglione, e lui la stringeva a sé, immobile.
“Lo so che
non è giusto, Jenny. Lo so cosa provi. Ma sarebbe ancora più ingiusto se tu ti
lasciassi vincere dal tuo dolore. Considera questa la tua partita più
importante, una sfida che non devi assolutamente perdere. Perché se tu perdi,
perdiamo tutti e anche Jeremy avrà perso.”
A quelle
parole Jenny sollevò lo sguardo verso il suo viso.
Incontrò gli
occhi seri e dolci del ragazzo, che la guardavano mesti, eppure con estrema
decisione. Lo fissò qualche istante, poi Jenny abbassò nuovamente lo sguardo,
ma Teddy le sollevò delicatamente il viso.
“Ti prego
Jenny, devi andare al tempio.”
“A fare cosa?
Non vedo a che servirebbe…” obbiettò lievemente sorpresa.
“Invece ti
aiuterebbe. È stato Robin a chiederlo; ci ha detto che dobbiamo convincerti ad
andare là. Jeremy ha lasciato a Robin il compito di proteggerti, e tutti noi, i
tuoi amici vogliamo solo il tuo bene. Faresti questa piccola cosa per me,
Jenny? Se non per me… allora, ti prego, fallo per Jeremy.”
“Oh…”
La vide
sussultare lievemente, e altre lacrime rigarono ancora le sue guance pallide.
Teddy si allontanò un poco da lei, solo per raccogliere quel diario che era
rimasto abbandonato sul pavimento. “Posso?” Le chiese. Lei annuì.
Iniziò a
sfogliarlo, a scorrerlo velocemente con gli occhi; la scrittura di Jeremy era
ordinata e riempiva i fogli di sogni, speranze, delusioni e inevitabile
amarezza. Improvvisamente il suo interesse si focalizzò su una pagina, su
alcune frasi particolari.
Lo porse a
Jenny perché lei lo leggesse.
“Sono parole
sue.” Le disse.
(…) Robin, amico
mio, devo chiederti un ultimo grande favore, e so che potrò contare su di te.
Quando non ci sarò più, dovresti stare vicino a Jenny, aiutarla e sostenerla
nel difficile momento che si troverà ad attraversare. È forte e fragile allo
stesso tempo, ma ho paura che il trauma potrebbe essere troppo forte.
Non lasciare che l’angoscia prenda il sopravvento su di lei, non permettere che
si arrenda, a qualsiasi costo. Il suo destino è diventare una campionessa, ho
consacrato gli ultimi tre anni della mia vita a questo, e la mia morte non
dovrà essere la fine di tutto. Così io vivrò in lei, e lei andrà avanti con la
sua vita. Ti prego, fa che sia così (…)
Teddy si
diresse verso la porta e la aprì, ma prima di uscire si voltò ancora a guardarla, quel diario sempre aperto tra le mani.
“Jenny,
affronta questa prova e ricomincia a vivere.”
Combatti
amore mio, pensò.
Varcò la soglia e la chiuse dietro sé.
Jenny, gli
occhi troppo stanchi, brucianti e ancora lucidi di pianto, tratteneva il diario
aperto stretto contro il petto.
Le sembrava
scottare contro la pelle, come se le parole di Jeremy fossero impronte impresse
col fuoco sulla sua anima.
Come se
fossero vive.
Impronte che
aveva lasciato Jeremy su di lei.
Improvviso,
il pensiero sovvenne alla superficie da chissà quale remota profondità della
coscienza.
Lo erano
davvero.
Vive.
Lei poteva
sentirle.
********
Salve a tutti. Mi
è capitato di recente di vedere la seconda serie di “Jenny la tennista” (gli
OAV del maestro Dezaki, il compianto regista della mia amata Lady Oscar) e l’
ho trovata bellissima nei disegni, profonda e commovente nella storia più
adulta, rispetto alla prima serie vista nella mia infanzia.
La morte
dall’allenatore Jeremy mi ha lasciato di sasso, mai avrei immaginato una tale
tragedia.
Il tono della mia
fiction logicamente è triste, ma non senza speranza, almeno spero che si
percepisca.
Grazie a chiunque
avrà la bontà di lasciare un piccolo commento.
Ninfea.