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Autore: Koa__    06/11/2014    9 recensioni
John Watson, scrittore di successo, è un ex militare che si porta dietro un matrimonio fallito e una zoppia psicosomatica. Dopo quattro romanzi, tra cui spicca il best seller: "Blu come la neve", John è tormentato da un blocco che gli impedisce di scrivere. Dopo essersi concesso una vacanza di due settimane a Siviglia, sul treno che lo deve riportare a Londra, incontra uno strano tizio. Un violinista con la passione per le investigazioni, un certo Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Blu come la neve'
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Tag: Johnlock/Rating Giallo/Alternative Universe/Romantico/Introspettivo
Note: Io, che non scrivo mai AU mi presento con questa. Sarà una storia di pochi capitoli. Il titolo mi è venuto per caso e mi girava in testa quindi può essere benissimo che sia di qualcosa d’altro che non mi ricordo. Ho provato a googolarlo e non mi è uscito nulla, quindi suppongo che sia solo frutto della mai fantasia.
Spero apprezzerete.
Koa




 

Blu come la neve





Via da Siviglia, via da sé stessi



Siviglia è torrida, calda in quel soleggiato pomeriggio della fine di luglio. Le acque del Guadalquivir, mosse da un timido vento, si tingono di rosso e d’arancio mentre la città pare bruciare tra quei colori regalati da un calar del sole che è in grado di mozzare il fiato. Dopo aver portato lo sguardo in lontananza fino alla Torre del Oro e poi ancora più in giù, tanto da riuscire a scorgere le linee della città oltre il fiume, John Watson sospira. Il pensiero che quella è l’ultima volta che potrà osservarla lo rende un po’ malinconico e sì, decisamente triste. Non ha mai la possibilità di far perdere lo sguardo su di un panorama simile, Londra è così diversa e, seppur speciale, non possiede affatto un tramonto come quello e il Tamigi non si tinge mai d’oro. Il cielo e le acque del fiume, al limite, si confondono solo per grigiore. Ma Siviglia è, oh, speciale in questo senso. Certo, nonostante abbia trovato l’attività del turista a tempo pieno piuttosto piacevole, John si rende perfettamente conto che l’idea di trascorrere lì quelle due settimane non sia stata propriamente brillante. Si era detto che per superare quel piccolo momento di crisi, uno stacco dalla quotidianità era l’ideale e invece non è servito a niente. Stupidamente, si era convinto che i caldi paesaggi del sud della Spagna gli sarebbero stati in qualche modo d’aiuto. Adesso invece, col senno di poi, può affermare che il problema non è il luogo in cui sta, è lui ad essere sbagliato e che è tanto stufo di sé stesso, da riuscire a stento a godersi tutto quello. Perché Siviglia è bellissima e questo, John Watson lo avrebbe potuto capire anche appena arrivato, ma a quel tempo era troppo impegnato a piangersi addosso per notare alcunché. E pensare che la sua bellezza è così tanto sfacciata; quando è sereno, ad esempio, il cielo diventa di un azzurro talmente intenso che sembra esser stato dipinto dalla mano di un abile pittore. Come molte metropoli, anch’essa brulica di vita, incessante e senza morire neanche la notte, quando la musica del flamenco inonda la città facendola ballare a ritmo delle nacchere. Lì tutto quanto è diverso da come lo è a casa. A Siviglia le persone gli appaiono più gioviali, calde, spensierate. Così differenti dai suoi standard inglesi, che ne è rimasto assolutamente stregato, ma ovviamente non è servito a nulla. La vacanza, la gente che ha conosciuto, le gite al fiume, le passeggiate sotto il sole, le donne che si è portato a letto (ogni notte una diversa) non lo hanno aiutato affatto. Perché, così come a Londra, tutte le mattine dopo che si sveglia e accende il portatile, quel maledetto foglio bianco è sempre lì che lo sfida, lo sbeffeggia, lo guarda come se lo stesse provocando. Il cursore lampeggia davanti ai suoi occhi, sbattendogli in faccia quel suo gigantesco blocco, un blocco che va avanti ormai da troppo tempo. John non avrebbe mai detto che un giorno sarebbe stato lui la vittima di un simile disastro. Lui che ha già scritto quattro romanzi, ora non riesce nemmeno a metter giù una riga. Ed è tremendamente frustrante, è allibito dal fatto che neanche rilassandosi è riuscito a venirne a capo. Proprio a Siviglia che è forse la più stupenda città che abbia mai visitato. E adesso che le due settimane sono terminate, John Watson, autore di best seller di fama internazionale, un po’ ne è rincuorato. Vuole tornare a casa e basta, si dice in quel tardo pomeriggio mentre osserva il panorama dalla finestra della sua camera d’albergo. Ha appena finito di preparare i bagagli quando Alonso, il facchino, bussa alla porta informandolo che il suo taxi lo sta aspettando di sotto. John si volta verso di lui, gli sorride con un’espressione di gratitudine annuendo brevemente, mentre recupera il bastone e lo segue in corridoio. Quel ragazzino non deve avere non più di vent’anni e gli ha fatto fin dal primo giorno una buona impressione: sorriso cordiale, occhi sereni e così generoso nei suoi confronti, da risultare eccessivo. Alonso lo ha sempre aiutato e spesso senza che neanche John si azzardasse a chiedergli qualcosa e per fortuna lo ha sempre consigliato per il meglio, tutte le volte con un caldo sorriso sulle labbra. Addirittura gli ha comperato una mappa della città per aiutarlo ad orientarsi. Per questo, prima di andarsene, gli regala una banconota da cinquanta euro. Sa che come mancia è a dir poco esagerata, ma i soldi non sono un problema e poi gli fa piacere darli a qualcuno di generoso.
«Arrivederci, Alonso» borbotta, con un sorriso e una pacca sulla spalla mentre questi chiude la portiera del taxi, augurandogli di fare buon viaggio. Ed è giusto al suo ritorno alla civiltà a cui John pensa mentre l’auto procede lenta affrontando il traffico cittadino. Non riesce neanche a godersi ciò che gli rimane di quella splendida città, perché è già troppo preso dalle sue paranoie. Riuscirà a buttare giù qualche riga mentre torna a casa? Di solito il movimento lento e gentile del treno che corre sulle rotaie gli è sempre d’aiuto per rasserenarsi, ma sarà così anche questa volta? Già, perché viaggerà su un treno e sarà anche patetico, ma odia volare. Se deve spostarsi in Europa e la distanza è sopportabile, allora preferisce la comodità e la sicurezze delle rotaie. Dovrà dividere la cabina con uno sconosciuto, certo, ma non è mai stato un problema e di sicuro non lo sarà nemmeno adesso.
«Venti» dice il tassista, dopo che la macchina si è fermata di fronte alla grande entrata della stazione. Il costo gli pare un po’ esagerato, ma non ha voglia di stare a questionare e dopo aver pagato, scende non senza difficoltà. Afferra il bastone lasciandosi aiutare a scaricare la valigia, dopodiché s’incammina e non senza difficoltà. Incedere con un bastone e un trolley non è certamente semplice, o pratico, specie se si è costretti a svicolare di continuo tra la folla esagitata, sperando al contempo di non venir riconosciuti. Ed è questo più di tutto a preoccuparlo, sa benissimo di non essere una celebrità del genere hollywoodiano, ma il suo volto è piuttosto noto nel vecchio continente. E mentre fa vagare lo sguardo fino al grande schermo con gli orari dei treni in partenza, si augura sul serio di passare inosservato perché sa di non poter sopportare di dire altre bugie, non potrebbe raccontarne ancora dicendo che sta lavorando al suo romanzo, quando non è assolutamente vero. L’ha già fatto così tante volte che ne ha la nausea. Ammette che fino ad ora gli è andata relativamente bene, il personale dell’albergo in cui ha alloggiato è stato sempre discreto. Però ne ha ugualmente le scatole piene, tanto che al prossimo che glielo chiederà, racconterà la verità: che è bloccato e non riesce a pensare a nulla che abbia un senso. Dirà che il suo cervello è piatto come una tavola e che non produce un pensiero articolato che sia uno.
«Watson? Lei è John Hamish Watson? L’autore di “Blu come la neve”?» È una voce femminile a spezzare il fruire pesante ed incessante dei suoi pensieri. Si morde le labbra, senza voltarsi, mentre avalla l’idea di negare ed andarsene. Detesta venir chiamato per strada dai fan, anche se quelle persone sono di fatto il suo pubblico, i suoi lettori, il suo pane, odia essere costretto a rispondere. Perché sono sempre le stesse domande e non ne può più.
«Io amo il suo lavoro, adoro il suo modo di scrivere. A quando il prossimo romanzo?» prosegue lei, un’allegra e sorridente ragazza sulla ventina, che gli si rivolge con un marcato accento spagnolo, mentre porge con fare molto delicato una copia del suo ultimo libro per fargliela firmare. John ha un colpo al cuore nello scorgere tanta felicità sul viso di un’altra persona, perché la gioia di quella ragazza è tutta rivolta a lui e delle volte, ancora stenta a crederlo. La verità però è lì, bastarda e accucciata in un angolo del suo cervello, gli preme sulla punta della lingua e brama per uscire. Vuole dirle tutto quanto. Però non lo fa e, per l’ennesima volta, s’arrende a sé stesso. Non sa se questa volta la causa sia della luce che illumina lo sguardo di lei, ma cede. E mente. Perché John H. Watson è fondamentalmente un uomo buono e non può sopportare l’idea di smorzare quel sorriso vitale e contagioso e, ne è certo, se le raccontasse che non scrive nulla da mesi e che medita di abbandonare la scrittura, lei si rattristerebbe e per una qualche strana ragione non lo vuole. “Sei sempre tanto gentile” gli diceva sua nonna quando era ragazzo e si prendeva cura di lei, preparandole il tè e rassettandole le coperte. John però sa perfettamente che questo è anche il suo punto debole, ha troppo buon cuore e dovrebbe seriamente decidersi cambiare, si dice mentre afferra il libro.
«Ci sto lavorando» mormora, fingendo un sorriso e dandole così la solita risposta. Quella preconfezionata. Quella che dà perché non ha coraggio di ammettere che no, di quel libro non ha scritto nemmeno riga e da mesi non fa altro se non guardare il foglio vuoto mentendo a tutti, persino a sé stesso, dicendosi che la sua non è altro che una fase. Lascia pertanto la firma simpatica, la stessa che regala sempre e lo fa con il cuore che lacrima. Mente e dato che si vergogna di sé stesso, fa tutto di fretta. Dopodiché se ne va.

Il modo migliore per andare avanti è dimenticare lo spiacevole incidente. Senza neanche pensarci, si dice che deve cancellare ciò che ha appena detto a quella ragazza, riportando l’attenzione su quel che si è prefisso di fare. Dirà la verità d’ora in avanti, anche se è crudele, anche se ciò lo metterà in una posizione delicata con i suoi editori. Ed è proprio a loro, a cui pensa mentre si fa largo tra la folla dell’orario di punta e raggiunge il proprio treno, uno di quelli notturni e in cui potrà mangiare e dormire. Ha fatto la scelta giusta, si dice mentre cerca sul biglietto il numero della cabina che gli è stata assegnata. E ne ha la conferma anche dopo essere entrato perché gli interni sono di lusso proprio come pensava, ha fatto proprio la scelta migliore perché… lo ha già detto che odia gli aerei? Certamente sa quanto più comodo sia prenderne uno, ma potendo scegliere e non avendo tempistiche da rispettare o scadenze da onorare, ha sempre optato per un comodo vagone letto.
«Posso aiutarla?» gli domanda un tizio in divisa. Questa volta non deve tentare di capire ciò che dice interpretando (o almeno provando a farlo) da strani accenti, l’uomo infatti parla perfettamente la sua lingua.
«Dovrei avere la cabina 221, ma non ho idea di dove si trovi.»
«Venga, l’accompagno» si offre questi gentilmente, prendendosi addirittura l’onere di aiutarlo con la valigia e sì, per quello gli è immensamente grato; quei corridoi sono decisamente stretti ed è piuttosto complicato incedere con il bastone.
«Eccola, la 221» mormora l’addetto, accennando alla piccola porta di legno sul quale capeggia un numero scritto in caratteri dorati. «Penso sia già occupata dal suo compagno di stanza.»
«Sì, la ringrazio per il disturbo» borbotta John, imbarazzato e sta per sganciargli una sonora mancia quando questi gli fa un leggero cenno col cappello e si allontana, esclamando un “dovere” pronunciato a mezza bocca. Se n’è andato prima che lui… Beh, meglio così. Si guarda attorno, non c’è nessuno in corridoio, ma si decide lo stesso a darsi una mossa ed apre la porta con un gesto secco, maledicendosi quando questa sfugge e va a sbattere violentemente. Forse è fin troppo brutale perché il ragazzo seduto sul piccolo divano al suo interno, sussulta vistosamente. John dà una rapida occhiata alla stanza costatando non è piccola, ma che al momento appare davvero minuscola dato che è invasa dagli oggetti di quel tizio. Questi deve avere poco più di trent’anni, non sa dargli un’età precisa, però è certo che sia più giovane di lui. Stranamente, e ad un primo sguardo, John lo trova attraente. È molto magro ed anche se sta rannicchiato sul divano, gli pare che quelle gambe siano piuttosto lunghe, pertanto deve superare il metro e ottanta. Ha il volto scavato e allampanato, la pelle bianchissima e una folta chioma di capelli neri e ricci che, ribelli, ricandono sulla fronte. Lo sconosciuto ha anche un paio di occhi azzurri che da quando è entrato, tiene puntati su di lui. Indubbiamente si sente osservato, John, anzi molto di più: è come se lo stesse studiando. Quel ragazzo è davvero bellissimo e non riesce a togliergli gli occhi di dosso. Si sente un perfetto idiota e di certo deve apparire come tale, perché se ne sta imbambolato con una valigia tra i piedi e un bastone da passeggio in mano, lo sguardo attonito e la bocca spalancata. In una perfetta immagine di un cretino.
«Mi scusi» esordisce, ad un certo punto, con voce incredibilmente arrochita. «La porta mi è sfuggita di mano. Sono Watson, J-John Watson» bofonchia, imbarazzato, porgendogli poi una mano che questi non stringe, mentre il suo nuovo compagno di stanza solleva lo sguardo su di lui fissandolo in maniera strana. Non riesce a decifrare che cosa stia pensando, c’è una maschera di indifferenza su quel volto sbarbato, ma dai tratti ruvidi. È quasi certo che si stia per voltare dall’altra parte, ignorandolo, quando questi lo sorprende con una domanda a bruciapelo.
«Sopra o sotto?»
«Come prego?»
«Intendo, dove? In quale letto preferisci dormire?»
«Io…»
«Già, hai ragione, mi rendo conto che la domanda è stupida e che non meriterei nemmeno una risposta, scusa, ero semplicemente curioso. Data la tua esperienza passata nell’esercito ti sarai abituato a tutto, è anche vero che non solo è passato molto tempo da che stavi sotto le armi, ma che con quella spalla malandata e il disturbo psicosomatico alla gamba, mi dirai sicuramente che preferiresti stare più comodo e quindi nel letto di sotto. Tuttavia pur facendomelo notare, lasceresti che sia io a decidere dove preferisco dormire. Sei troppo buono, John, troppo buono e spesso non riesci ad importi sugli altri il che è ridicolo se si pensa che eri un militare e hai anche fatto carriera! Certo, in questo caso sono perfettamente d’accordo con te: non bisogna perdere tempo con questioni del genere. Ti dico subito che dal canto mio non dormirò affatto, non importa poi molto quale letto sceglierai di occupare.»
«Come…»
«Faccio a sapere queste cose?» lo interrompe il ragazzo, che ora porta un sorriso sghembo. «Osservo, John, osservo con attenzione. È chiaro dalla postura, che hai un trascorso militare alle spalle. Esercito? Di certo non aviazione altrimenti avresti preso l’aereo di cui hai evidentemente il terrore. La ferita alla spalla la si può dedurre facilmente dal modo con cui ti porti dietro la valigia: compi un evidente sforzo ad ogni passo, forse perché pesa eccessivamente. Hai un solo bagaglio che non è nemmeno troppo grande, ma la vacanza è durata più di qualche giorno. Ritengo una decina o addirittura quindici. In ogni caso la trascini lo stesso con la mano sinistra dato che è la tua mano dominante, il che è ottimo: mi piacciono i mancini. Sono imprevedibili.»
«Come può sapere che il mio disturbo alla gamba è psicosomatico?» gli chiede, ostinandosi a mantenere un tono formale nonostante quello sconosciuto abbia di molto superato i limiti della presentazione. Non gli è mai capitato di incontrare una persona del genere e adesso non si riferisce esclusivamente all’aspetto esteriore, ma più che altro alle cose che ha detto. Vero. Era tutto vero e c’erano dettagli in quell’enorme quantità di informazioni che gli ha riversato addosso, che non conosce nessuno. Come fa a sapere che è stato ferito alla spalla sinistra? Come può aver capito che il bastone non lo porta per via di una vecchia ferita di guerra? Ma soprattutto, come fa ad aver compreso tutto in quei brevissimi secondi?
«Semplice: il tuo bastone non poggia a terra in questo momento e non ti stai reggendo nemmeno al trolley. Non hai accennato a volerti sedere sul divano nonostante la fatica. Un invalido con dolori ad una gamba lo avrebbe fatto come prima cosa, poi si sarebbe presentato. Comunque ti consiglio di smettere di andare dal terapista, non ti è di nessun aiuto.»
«Come diavolo fa a sapere che ho una terapista?» sbraita; il che è eccessivo perché quell’uomo non lo sta accusando di niente, ma lui è lo stesso allibito ed ora anche lievemente infastidito. Di solito, durante le interviste è sempre bravo a scansare domande private di questo genere, tuttavia non può credere che qualcuno sia così sicuro del fatto che abbia una psicologa.
«Elementare: se c’è un disturbo psicosomatico, c’è anche un terapista o una terapista, in questo caso. Una incapace, tra l’altro.» John è a dir poco sconcertato. Se prima teneva la bocca spalancata per via di quella sfacciata bellezza, ora la tiene aperta come un idiota perché è completamente strabiliato. Chi diavolo è quel tizio? E nemmeno se ne rende conto, ma in tutto quel trambusto il bastone che fino a poco prima gli pareva la cosa più importante della sua vita e che non aveva mai lasciato, lo ha fatto cadere contro la parete, nell’angolo dietro la porta. E quando gli si avvicina, sta già zoppicando un po’ di meno.
«Questo è… fantastico.»
«Davvero?» chiede il giovane, evidentemente sorpreso.
«Certo che sì, come ci riesce?»
«Mi pare d’averlo già detto: osservo. Noto dei dettagli che ai più sfuggono» gli risponde, facendo spallucce quasi fosse la cosa più naturale del mondo. «Da bambino volevo fare il detective! O il pirata, non mi sono mai deciso.»
«Il pirata?» ripete John, ridendo mentre si lascia cadere sul piccolo divanetto con un grande sospiro sfinito. «E cosa ha finito per fare?»
«Ma il violinista, naturalmente» gli risponde, con un’evidente punta d’orgoglio nel tono di voce che non si lascia scappare, accennando alla custodia scura sistemata con accortezza su uno dei due letti. Già, aveva fatto caso a delle cianfrusaglie sparse ovunque, ma non aveva notato lo strumento. Quell’uomo è davvero strano e non solo per le cose che dice, ma anche per il modo in cui si esprime. Pare essere estremamente sicuro di sé, come se fosse certo che non stia sbagliando affatto. Gli sembra anche molto pratico e spiccio, uno che non ama perdere tempo in cose inutili e forse, anche se non sa come mai stia formulando un pensiero del genere, con lui, non sarà costretto a mentire.
«Tu invece quando pubblicherai il prossimo romanzo?» Quasi gli avesse letto nel pensiero, questi gli fa la domanda che mai avrebbe voluto gli ponesse. Aveva sperato fino all’ultimo che almeno lui lo lasciasse in pace. E mentre si ritrova a distogliere lo sguardo, abbassandolo sino al pavimento, si rende conto di non voler dire una bugia. La situazione è ben diversa da quella vissuta con quella ragazza spagnola. Sente che se gli dicesse il vero, quell’uomo non ne rimarrebbe deluso. Quindi non annuisce e non sorride in modo finto; è come se fosse certo del fatto che sarebbe in grado di stare immediatamente una balla. Se è riuscito a capire la sua vita in qualche istante, di sicuro saprebbe snidare una menzogna prima di subito. Alla fine opta per una domanda e un sorriso, questa volta furbo. Spera che, provocandolo, lui gli dica dell’altro. Perché John le vuole sapere, tutte quelle altre cose che ha capito di lui, vuole che lo legga ancora e che gli dica chi è. Ne ha bisogno disperatamene. Per una frazione di secondo si ritrova a addirittura a desiderarlo ardentemente, forse lui glielo può dire chi è diventato. Magari quello strano tizio decisamente molto sfacciato che con una sola e breve occhiata è stato in grado di svelare le sue psicosi e paure, sa dove è andato a finire quel John Watson che, ancora in Afghanistan, la notte scriveva al posto di dormire. Magari sa come mai la scrittura, ovvero l’unico appiglio al quale si aggrappava con disperazione, lo ha abbandonato. Perché non riesce più a scrivere? Forse quell’uomo lo sa che cosa ne è stato della sua ispirazione, della sua voglia di raccontare.
«Le è piaciuto il mio lavoro?» chiede, dopo una breve riflessione poco prima che il suo sguardo si adombra appena. Deciso a non farlo notare però (per quanto lo ritenga impossibile) persiste a sorridergli con fare furbo, in un modo ora molto più forzato. 
«Per l’amor del cielo, no» sbotta questi, alzando le mani in un gesto che la guerra gli ha insegnato essere di resa. Dovrebbe essere infastidito e arrabbiato, ma no: John ride. Perché, per assurdo, tanta sincerità lo diverte. In un mondo in cui viene osannato persino dai critici più duri, in un ambiente falso e malsano in cui nessuno ha il coraggio di dirgli che il suo ultimo romanzo è stato un enorme fiasco, è raro trovare una persona che gli dica sfacciatamente che cosa pensa. E quella verità sbattuta in faccia in quel modo duro e pungente, è come una ventata d’aria fresca. Quel tizio gli sta sbattendo addosso la realtà più difficile da sopportare e lo fa in modo brutale e crudo. E a John piace perché finalmente è riuscito a trovare una persona onesta e sincera ed è assurdo, ma fa bene, fa incredibilmente bene al cuore. Quindi ride, stirando dapprima un ghigno lieve che dopo un poco sboccia in una sonora risata.
«Ho letto Blu come la neve» prosegue questi, forse rincuorato dal non aver reagito male da parte di John, cosa che lui stesso ipotizza come plausibile specialmente dal fatto che lo sconosciuto ora ridacchi senza farsi troppo notare.
«Non posso dire che mi sia piaciuto, è troppo sdolcinato e romantico… Voglio dire, è irreale che una persona sana di mente e con un’intelligenza al di sopra della media, decida di lasciare ogni cosa pur di seguire il suo amato in capo al mondo. È fuori dalla realtà, sei troppo romantico, John.»
«Lei quindi non crede nei rapporti che finiscono bene» afferma, con fare sicuro. Questa volta non ha bisogno di domandare. Lo sa per certo. D’altra parte è uno scrittore e se c’è una cosa che gli viene piuttosto naturale, è capire la gente. Sa osservare e ha sempre creduto d’essere piuttosto bravo nel farlo ed anche se le abilità di quel tizio hanno ridimensionato di molto il suo concetto di capacità deduttive, è certo d’averci visto giusto. Gli pare sul serio qualcuno di molto poco abituato a reazioni positive.
«L’amore è una balla per gli sciocchi, John. Questo è tutto ciò che conta» afferma, indicandosi la testa con un dito che posta sulla tempia. Ma ciò che lo sorprende, non è quell’affermazione forte e dura, quanto piuttosto il fatto che lo guardi con determinazione come se lo stesse sfidando a dimostrargli il contrario. Forse sta esagerando, magari sta fraintendendo e probabilmente è solo il suo modo di esprimersi ad essere molto diretto, ma raramente si sbaglia su cose del genere.
«Questo è molto triste.»
«Ma molto vero» ribatte subito, senza lasciarsi intimidire «e tu dovresti saperlo meglio di me, dato che ti ostini a portare una fede nuziale di un matrimonio finito da tempo. Ti ha lasciato lei, giusto?»
«Questo lo hai letto sui giornali» borbotta, ridendo non facendo nemmeno caso al fatto che gli stia dando del tu mentre si rialza dal divanetto e inizia a recuperare il proprio pigiama che subito appoggia sopra il cuscino di uno dei letti.
«Allora, quanto ho indovinato?» John sospira, di nuovo stira le labbra con fare sincero rendendosi conto che era davvero tanto tempo che non sorrideva così spesso.
«Ho lasciato l’esercito più di cinque anni fa» mormora, annuendo «ero di stanza in Afghanistan quando mi hanno sparato ad una spalla durante uno scontro a fuoco. Sono stato operato in un ospedale da campo e l’operazione era andata bene, ma il proiettile aveva lacerato dei tendini. Dopo quell’incidente non riuscivo più ad imbracciare il fucile e mi hanno rispedito a casa. A fare fisioterapia, hanno detto all’inizio. Di fatto mi sono ritrovato congedato, con una pensione misera e il numero di una terapeuta che mi avevano gentilmente offerto. Detto brutalmente: mi hanno sbattuto fuori. Da allora non ho più smesso di utilizzare il bastone per camminare anche se, è vero, lì non sono stato ferito. La spalla ancora mi fa male quando è sotto sforzo e sì, sono mancino e a Siviglia ci sono rimasto due settimane.»
«Ho fatto bingo!» esclama, voltandosi gonfiando addirittura il petto con fare tronfio.
«Più o meno: sono stato io a lasciare mia moglie e non il contrario e questa non è la fede nuziale del mio matrimonio, ma quella che mio padre aveva quando ha sposato mia madre. La porto per ricordarli.» L’uomo non gli risponde e cade in un mutismo che gli appare pensieroso, perché porta subito lo sguardo fuori dal finestrino. Nella cabina, quindi, cala il più assoluto silenzio. Si sente soltanto il rumore del treno che corre sulle rotaie ed il vociare di altri passeggeri proveniente dalle cabine accanto alla loro. John si ritrova così indaffarato nelle proprie faccende che non bada a nient’altro, è impegnato con la valigia e a fare avanti e indietro dal piccolo bagno in cui ha risposto spazzolino e rasoio. Il suo compagno di stanza, di cui ancora non conosce il nome e che ha ribattezzato come “sconosciuto” se ne sta invece in piedi di fronte ai vetri e guarda lo scorrere del paesaggio all’imbrunire. Sta già avallando l’idea di aprire il portatile e tentare di scrivere qualcosa, per l’ennesima volta durante la sua settimana di ferie, ma la voce scura e profonda del suo compagno di stanza, lo fa desistere.

«La faccenda è seria» esordisce. John si volta, aggrottando le sopracciglia con fare confuso. Per un momento è quasi sicuro d’aver sentito male o che non stesse parlando con lui, d’altronde succede di pensare a voce alta. Tuttavia questi subito riprende a parlare: «E la domanda che ci dobbiamo porre è» prosegue, mantenendo gli occhi fissi sullo scorrere del paesaggio al di fuori «è stato Grossman a rubare i gioielli di Lady Canterbury?»
«Chi ha fatto cosa?» Non pensa d’aver capito, o meglio, non riesce a credere alle proprie orecchie. Anche questa volta, però, non fa nemmeno in tempo a domandare spiegazioni, che questi lo precede.
«Tu hai fame» gli dice, prendendolo per un braccio e costringendolo a seguirlo in corridoio. Lo sconosciuto blocca la porta e si mette la chiave in tasca e immediatamente dopo s’incammina verso il fondo del vagone trascinandoselo dietro. John arranca e fatica a stargli dietro, ma sta correndo e neanche se ne rende conto.
«No, veramente non molta» si lamenta mentre, tenta di liberarsi da quella presa ferrea.
«Tu hai fame, fidati.»
«Ma io non…» Lui prendere a camminare per lo stretto corridoio, con fare svelto e raggiunge la porta che conduce al vagone adiacente. La spalanca e come a voler sedare una volta per tutte le sue lamentele, si volta trucidandolo con uno sguardo. Uno dei più gelidi che John abbia mai visto in vita sua e che ha il potere di paralizzarlo. Non riesce a credere a quel che sta pensando, ma il prepotente desiderio di fare tutto ciò che gli dica è forte e incontrollabile. Sente di volergli dire di sì e no, non gli interessa nulla. Perché badare a dettagli come il fatto che non ha idea di chi sia o di che cosa stiano per fare; sta incredibilmente bene in sua compagnia e per ora a contare è soltanto questo.
«Certo che ce l’hai. Sono quasi le otto e l’ultima volta che hai mangiato è stato a mezzogiorno con un panino al tonno. Quindi sì, hai fame.»
«Ehi, ma come…»
«Lo so e basta.» Lo sconosciuto sbuffa e rotea gli occhi prima che, agile, apra la porta sparendo nel vagone adiacente. John nemmeno se ne rende conto, ma ha preso ad andargli dietro ed il bastone è già dimenticato.
«Non so neanche come ti chiami» urla e sì stanno correndo. Lui, lo scrittore zoppo, sta correndo e neanche ci pensa. Non vuole fermarsi a rifletterci. Perché sembrano due idioti. Anzi lo sono.
«Il mio nome è Sherlock» grida «e per favore vedi di smetterla con le domande idiote. Abbiamo da fare un sacco di cose.» John annuisce, non realizza il fatto che nessuno parla più al plurale per lui da una vita. Non gli importa del motivo per cui Sherlock stia già utilizzando uno stranissimo noi che in bocca, oh, suona divinamente bene. Non pensa a niente, è solo affascinato. Ammaliato dalla maniera con cui quell’uomo gli si rivolge, dal tono della sua voce, dalle strane espressioni del suo viso e confuso dai repentini cambiamenti d’umore. E poi è incuriosito da quel nome. È insolito e particolare, gli suona in un modo strano in testa, ma sussurrandolo è molto dolce. E gli piace.
«Muoviti, John» ordina. E, incredibilmente, lui lo fa.


 
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