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Autore: chrisisalive    07/11/2014    2 recensioni
Si era perso in un piccolo temporale estivo, quel temporale estivo che aveva messo i limiti alla sua felicità. Era rimasto ustionato da quelle gocce salate che scendevano dal cielo e scivolavano leggere sulla sua pelle, e soprattutto dalla bellezza senza tempo di Alexandria. Continuava a vivere solo per raccontare la favola che quella ragazza era stata in grado di fargli vivere. E ora lo vorrebbe scrivere ovunque che Alexandria era magia allo stato puro.
[Sono presenti versi della lirica di Gabriele D'Annunzio "La pioggia nel pineto"]
[Zayn Malik x nuovo personaggio]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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IT WAS LIKE LIVING IN A FAIRY TALE 

And maybe we’re hoping for a fairytale too
WAKE ME UP - ED SHEERAN 

 

Ai dolci pensieri che l'anima schiude,
a Iacopo e ai suoi "Passo per un bacio"
a tutte le ore del giorno.

E a te, dolce lettore.


E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
 
Alexandria, così si chiamava. Era un’impresa anche solo riuscire a guardarla negli occhi. Così puri e schivi da svuotarti in un attimo. Ti svuotava da tutto quello che negli anni eri riuscito a metterti dentro, da tutto quello che riuscivi a provare, da qualunque tipo di sentimento.

Non sono mai riuscito a capire se mi faceva stare bene. Ma stare con lei era la fine e l’inizio di tutto. La fine di qualcosa di già visto. E l’inizio di qualcosa di talmente nuovo da renderti nuovamente felice. Nuovamente vivo.

Ricordo che con lei sembrava di vivere due vite costantemente separate, perfettamente allineate, ma incapaci di incontrarsi.

Una vita (quella che avrei voluto vivere per sempre) era con lei, con quella chioma di capelli perfettamente disordinati.

L’altra (quella che sono stato costretto a vivere) era senza di lei, priva di qualsiasi riflessione, priva di lei. Della sua fantastica compagnia che nonostante tutto mi faceva provare qualcosa.

Io mentivo spesso, anzi quasi sempre.

“Alexandria, tu hai quell’assurdo potere di destabilizzare qualsiasi uomo su questa Terra.”

Era vero. Lei era in grado di farti credere che con lei tu non provassi alcuna emozione, io me n’ero accorto invece. Quando stavo con lei il cuore faticava a stare insieme, avrebbe voluto esplodere come un palloncino rosso di un bambino paffuto, pressato con troppa forza.
Mi faceva provare un tripudio di emozioni, invece.

“Adoro la pioggia, Zayn.”

Se l’adorava lei, l’avrei adorata anch’io. E così ho fatto.

L’ho adorata. Alexandria e la pioggia entrambe.

Ogni qual volta scoppiava un temporale, acquazzone o anche se solo il mio vicino accendeva l’irrigatore lei veniva a suonare il campanello di casa mia. Bagnata. Fradicia.

“Vieni Zayn, ti farà sentire vivo.”

Mi prendeva per mano, sempre. Quella sua manina delicata e sottile. E poi cominciava a saltare, danzare, urlare e ridere come un mix di vita istantanea.

Mi ha insegnato a vivere quella ragazza, quella che di vivere ne sapeva di meno l’ha insegnato a me.

Mi faceva sentire vivo, eccome. Dopo averla vista, una volta sul letto, con le coperte sopra il corpo i muscoli non la smettevano di pulsare, gli occhi si aprivano continuamente portandomi a vedere lei, quella visione, quella donna tanto bella da sembrare una sirena.

Le piaceva tanto quello scrittore italiano, Gabriele D’Annunzio, l’aveva stregata.

“Alexandria fammi sentire la tua voce.”

E ogni volta che le chiedevo una cosa del genere lei mi citava sempre la stessa lirica, sempre la stessa opera che ora se mi ci metto d’impegno la ripeto a macchinetta da quante volte l’ho sentita.

La pioggia nel pineto.

Sembrava ancora più delicata quando quelle parole uscivano dalla sua bocca, quelle labbra sottili e del colore dell’inferno sembravano mandarmi fuori di testa.

“Alexandria, la nostra storia…”
“Ci allaccia i mallèoli, c’intrica i ginocchi.”

“Si, Alex.”

Ogni conversazione era buona per metterci dentro qualche verso, ci sembrava di volare ad ogni parola. Forse davvero con lei ho imparato a volare.

Era così intelligente da mettere in imbarazzo anche il professore più severo, ero terrorizzato dall’idea di essere troppo poco per trattenerla. E lei con la sua dolce voce femminile mi rassicurava dicendomi che non ero affatto poco, anzi, faticava a tenermi dentro.

Non ho mai capito cosa significasse per lei avermi accanto, non ho mai capito le emozioni che esplodevano dentro di lei, perché di questo ne ero certo, quando stava con me le emozioni le esplodevano dentro. Aveva un unico e solo vizio, non mi faceva capire nulla.

Era un continuo punto interrogativo, un enigma che ogni volta provavo a risolvere. Costantemente fallivo, sempre.

Mi abbandonavo a lei con un’adesione così totale che a poco a poco subivo una metamorfosi fiabesca.

Ero totalmente suo che scordavo che da qualche parte, dentro me stesso, c’era ancora qualcosa di mio. Lei sovrastava tutto, con lei ero un’altra persona che avevo cominciato ad amare fin da subito.

Ero diverso quando lei mi sfiorava le mani, il viso, la schiena. Adoravo quel mio essere totalmente suo e anche completamente, inesorabilmente mio.

Ho smesso di essere quella persona per forza di cose.

“Alexandria, vieni a sentire questa band.”
“Stromenti diversi sotto innumerevoli dita.”
“Ascolta…”
“Ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale.”
“Stai rendendo la mia vita una fiaba.”


Avrei dovuto registrare quella voce per ricordarla per sempre, ora ripensandoci ho solo dolci frammenti di quella voce, quando invece vorrei ricordare ogni singolo accento.
C’ho messo mesi per strapparle un bacio serio, era sempre così sfuggente, incapace di soffermarsi su quello che voleva. Totalmente incapace di fare quello che il cuore le diceva.

Ma un giorno stanco di fuggire da tutti questi sentimenti l’ho presa per la vita e ho fermato tutta la sua esuberanza, non volevo spaventarla né affrettare il naturale ciclo delle cose. Avevo solo il bisogno fisico di sentire il suo calore sulla mia pelle.

“Avanti, fallo Zayn. Prenditi quello che vuoi.”

E così in mezzo a quel parco frequentato soprattutto da stranieri, l’ho baciata, in quella calma scandita soltanto dallo sbattere delle foglie per colpa del vento. In quel silenzio squarciato solo dal suo respiro che in quel momento era unito al mio.

Avevo infilato le dita sotto quella maglietta leggera per sentire la sua pelle scorrere sotto le mie dita, adesso che ci penso si vestiva sempre in modo leggero. Forse perché nella sua poesia preferita quei vestimenti leggieri le ricordavano le sue fine magliette di cotone.

Quando uscivamo la rimproveravo sempre, sua madre ormai non glielo diceva più di mettersi qualcosa di più pesante per uscire. Lei era come rimasta incastrata in quella perenne estate tra luglio e agosto del 1902.

E tremava, tremava costantemente aspettando la pioggia. E alla fine, quando lei l’aspettava, arrivava sempre, immateriale e leggera, fino all’anima. Realizzando in un momento di gioco e di magico incantesimo i nostri sogni e le nostre illusioni.

Prima di trovare il coraggio di parlarle la guardavo da lontano, nella linea 47 stava sempre al solito posto, vicino al finestrino. Ma poi manco lo guardava il cielo, aveva sempre la testa china, i capelli le ricadevano davanti a quei pozzi che tutti chiamavano occhi e un libro tutto consumato tra le mani. Alzava lo sguardo solo per risistemare quelle ciocche ribelli. Non mi aveva mai degnato di uno sguardo, non aveva mai degnato nessuno di uno suo sguardo.

Il paesaggio le scorreva inesorabile accanto, il tempo le si fermava tra le dita. Sembrava immersa in un mondo degno solo di lei.

“Leggi la stessa pagina da giorni.”
“Lo so. Leggo la stessa poesia tutti i giorni.”
“Non ti stanca?”
“Ti stanca mai guardarmi?”
“A dire il vero no.”
“Per me è lo stesso.”
“Cosa? Non ti stanchi mai di guardarmi anche tu?”
“No, leggere questa lirica, non mi stanca mai.”
“Ohh…”

“Ma potrei non stancarmi mai a guardarti sei vuoi.”

Ogni volta che ripenso a come ho voluto approcciami con lei rido di gusto, ero stato così impertinente con una persona così maledettamente elegante.
In piena notte, a volta, mi chiamava. Reduce da un insonnia, mi telefonava solo per sentire la mia voce. Diceva che aveva il potere di rilassarla. Un potere insulso paragonato ai suoi.

Un potere davvero insignificante.

Ho scritto e cancellato il suo nome non so quante volte, quel nome così possente da segnarti per sempre.

Il tempo passava in fretta, invece, non rimaneva più intrappolato tra le nostre dita, forse troppo impegnate a sfiorarci. Avevo paura che cancellasse tutto.
Siamo caduti dal cielo, una notte d’estate (quella notte d’estate, specificava Alexandria); una frazione di secondo. Un tempo davvero troppo breve perché qualcosa modifichi quello che successe.

Ricordo che rendeva poetico anche andare a prendere le mie sigarette, lei esaltava tutti i mei sensi.

Avrei voluto fare tutto con lei, viverlo solo per poterlo raccontare. Abbiamo reso migliore ogni posto che abbiamo visitato solo perché c’eravamo stati insieme.

Ora se torno in uno di qualsiasi di quei posti mi sento mancare l’aria.

L’ho guardata così forte che adesso se sorrido le somiglio, e il suo ricordo mi brucia sulla pelle come lava di un vulcano.

Avevamo la libertà, e quando possiedi questa possiedi tutto. Eravamo liberi come quei versi di D’Annunzio.

“A volte ho paura di te.”

Un giorno mentre la tenevo tra le mie braccia e le carezzavo la schiena annusando il profumo dei suoi capelli mi disse questo. Ero terrorizzato all’idea che scivolasse via da me, come una leggera conchiglia sul bagnasciuga.

Se se ne fosse andata, tutto se ne sarebbe andato con lei, anche una parte di me. Di me sarebbe rimasto solo un inutile involucro, un guscio vuoto e pallido.
Avrei galleggiato sulle onde fino a che non mi avrebbero sommerso e senza evitare giri di parole, ucciso.

“Non devi, non ho nessuna intenzione di farti del male.”
“Non hai capito. Ho paura di te quando ti isoli, quando vedo nei tuoi occhi che non vuoi più essere un arcipelago, ma un’isoletta assestante. Spaventosamente autosufficiente.”

“Non riesco nemmeno ad allacciarmi le scarpe se tu non sei nei paraggi.”

E poi alle mie risposte idiote rideva, e io una risata più bella non ricordo di averla mai più sentita.
Avevamo fatto l’amore un giorno di primavera, il sole splendeva limpido nel cielo come il sorriso nel suo viso.

“Qui non s’ode voce del mare.”
“Allora ti ci porto.”


L’avevo portata giù al faro, eravamo gli unici a poter respirare quell’aria salmastra e fredda che nonostante tutto ci tagliava il viso. S’era seduta su uno scoglio e con le punte della dita seguiva le venature delle rocce.

Mi ero seduto dietro di lei, eravamo un incastro perfetto e i suoi capelli mi accarezzavano il viso e le nostre mani giocavano a rincorrersi.

Eravamo entrati in quella casetta vicino al porto, avevo dovuto rompere il lucchetto sulla maniglia per poter entrare, e dopo una lunga serie di sguardi lei mi sorrise.

“Ho deciso d’amarti.”

Me lo disse nel momento esatto in cui avevo bisogno di sentirlo, e dopo mille baci lasciati su tutto il corpo la feci mia. Eravamo un unico corpo in crescente emozione.

“Io l’avevo deciso mesi fa.”

Non riuscivo nemmeno più a concentrarmi nello studio se lei non era seduta a gambe incrociate sopra il mio letto intenta a guardarmi. La volevo costantemente, in qualsiasi momento della giornata, accanto a me.

Ogni momento libero della nostra giornata era buono per incontrarci, era spesso a casa mia e io ero l’uomo più felice del mondo.

“Marcoo!”

Si nascondeva sempre, aveva quel bisogno d’attenzione che aveva una bambina di quattro anni, e io ero sempre felice di darle quelle attenzioni.

“Poloo!”

Era sempre così, lei urlava Marco e io per cercare di trovarla urlavo Polo. La trovavo sempre in bagno dentro la vasca di porcellana di mia madre.

“Mi hai trovato, ti meriti una ricompensa.”

Ci ritrovavamo sempre a fare l’amore in quella vasca scomodissima, bagnati dalle piccole gocce che scendevano dal rubinetto che Alexandria allentava sempre.

“Senti come le gocce, cadendo leggere, creano un musica magica e orchestrale.”
“Alexandria, dormi.”
“Zayn come puoi dormire quando invece puoi ascoltare tutto questo. Certo che sei strano!”
“C’ho messo vent’anni per diventarlo, e sono fiero che il mio lavoro abbia avuto successo.”
Quando dormiva da me mi sembrava di entrare in una specie di oasi naturale dalla quale non volevo più uscire, mi sembrava di aver trovato la salvezza.
“E comunque tu sei molto più strana di me.”
“Or s'ode su tutta la fronda crosciare l'argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta.”
“Ecco appunto.”

“Sto per baciarti.”

M’avvertiva sempre quando voleva baciarmi, non so il motivo per il quale lo faceva, una volta glielo chiesi ma ovviamente non ottenni alcuna risposta.
Mi ricordo ancora di quando si è rotta il polso, era così esile ed intoccabile per me. Non ha mai parlato molto di quell’episodio e cercava sempre di nascondere quel gesso ancora limpido e bianco. Ero convinto che fosse successo in casa sua, suo padre era uno di quegli uomini davvero troppo spregevoli per meritarsi un incanto di figlia come Alexandria.

Aveva il brutto vizio di alzare un pochino troppo il gomito e so per certo che quella sera, una volta tornato a casa, qualcosa era andato storto, e Alexandria ne era uscita con un polso rotto e un livido sullo zigomo perfetto.

Lei cercava di evitarmi, aveva paura di un altro scatto d’ira, il mio nei confronti del padre. Avrei voluto vederlo bruciare tra le fiamme dell’inferno, l’aveva allontanata da me.
Era diventata d’un tratto paurosa, aveva paura di essere anche solo sfiorata.

Alexandria era cambiata, se ne stava rannicchiata a letto quando poteva e quando prendeva la linea 47 guardava l’asfalto sporco color pece, non leggeva più.

“Zayn, tu odi quello che sono diventata.”
“Io odio il mostro che ti ha trasformata.”

“Non voglio abbandonare il mio arcipelago, Zayn.”

In ogni frase ci faceva sempre rientrare il mio nome, sembrava diverso ogni volta che lo pronunciava, suonava stranamente bello.

“Allora non farlo.”
“Mi spaventa tutto.”
“Anche a me ora come ora spaventa tutto.”


(Mi spaventavo all’idea di perderla)

Riuscivo a vedere ancora brandelli della vecchia Alexandria quando fuori pioveva, aveva ancora continuato ad amare la pioggia, quella le arrivava dritta all’anima.

Lei si stava trasformando, una lenta ed agonizzante trasformazione che a poco a poco la allontanava da me.

Era il 27 agosto 2007 e una leggera pioggerella estiva scendeva cauta dalle nuvole sparse nel cielo, e lei era arrivata fradicia davanti il portone di casa mia, l’avevo presa per mano e avevamo cominciato a camminare per le vie di quel paesino che la stava ammirando sparire.

“Avrei voluto rendere il mio ricordo indelebile.”
“L’hai fatto, e tutt’ora lo stai facendo.”
“Non l’ho fatto, non t’illudere, Zayn.”

“Che ieri t’illuse, che oggi m’illude o Ermione.”

Ė stato proprio in quel giorno che tra la pioggia l’ho persa.

Era finito tutto nello stesso modo in cui D’Annunzio aveva terminato la sua lirica, ma la mia di storia aveva decisamente un tragico finale. Se n’era andata, senza di me.

Tra la pioggia l’ho persa.


 

HALOA
Okay sono tornata con questa cosa! 
Allora ho voluto lasciare compo libero a tutti su come immaginere la fine,
insomma, sono stata molto vaga sulla "scomparsa" di Alexandria 
proprio perchè volevo lasciare che voi immaginaste il vostro finale.
Carino da parte mia vero? 
*Non dire stronzate chris! Noi tutti amiamo gli happy ending 
e tu stronza la fai finire così tragicamente facendo sparire Alex*
Anche io, scusate ma boh sono stupida e faccio queste cose così dannatamente stupide!
Anyway w gli happy ending che scrivono gli altri e non io :-(
(orrible emoij)
Comunque, vi ringrazio per aver letto questa os eeeee
fatemi sapere cosa secondo voi è successo alla 
dolce/strana Alexandria proprio qui sotto 
*freccinia verso il basso*
CON UNA RECENSIONE!!
Fatemi felice (happy emoij)
Alla prossima, chris.

ps: quell'estate tra luglio e agosto del 1902 che ho citato nel testo 
è la data in cui D'Annunzio avrebbe composto la sua (bellissima) lirica.



ALEXANDRIA aka nella mia mente PHOEBE TONKIN



ora giuro che vi lascio!
(io me lo sposo, ho deciso!)



'Notte! 
 
 
  
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