V L A H I A
By:_Morgan
“
L'esercito di
Dracula cominciò ad uccidere (i Turchi) e a perseguitarli senza
pietà.
Poi,
per divertirsi, Dracula salì su una collina per vedere come i suoi
uomini uccidevano i Turchi.
Separatosi
dal suo esercito, uno dei suoi, scambiandolo per un turco lo colpì
con una lancia.
Dracula,
vedendo che i suoi uomini lo stavano attaccando,
uccise
immediatamente con la sua spada cinque dei suoi assassini.
Non
poté evitare che molte frecce (lance) lo infilzassero e morì in
questo modo.”i
Valacchia,
Dicembre
1476.
“Vlahia.”
Il
nome è un sussurro, il respiro caldo che si tramuta in caligine a
contatto con l'aria fredda, umida, di quella fosca mattina di
Dicembre; il tono sommesso con cui lo pronuncia, con cui il suono
disarmonico fuoriesce lentamente fra i denti aguzzi e le labbra
screpolate dal gelo, è la conferma di quanto all'uomo costi quella
parola semplice, un tempo così materna.
Il
pensiero è veloce, veloce come l'ordine che corre fra le fila del
suo schieramento incitando ad avanzare, veloce come l'incedere della
battaglia che gli si para dinnanzi e, per pochi istanti, nello
sfarfallio del nevischio umido contro il pallido sole velato di
grigie nubi, può quasi scorgere il riflesso di lei, gli occhi
castani rossi ed umidi di lacrime non versate, duri e letali come il
ferro temprato d'una spada di Toledo.
Sotto
l'elmo scheggiato e sporco socchiude le palpebre, annullando il
profilo fumoso di Bucurestiii
nella nebbia pallida ed il ritmico, lontano, sciabordio della
Dâmbovițaiii
dalle anse ghiacciate, appena udibile nel frastuono assordanti
d'uomini e cavalli, di lame incrociate e scudi spezzati; non v'è un
filo di vento ad agitare le fronde della foresta vicina, né a
smuovere la foschia costellata da perle fredde, cristallizzate, ma
lui pare avvertirlo ugualmente e sa che non è aria, ma il respiro
costante della sua terra.
Non
è al suo fianco...
Forse,
constata con quel cinismo tipico di chi non ha mai riposto vera
fiducia nel prossimo ed ha rinunciato troppo presto a sperare nelle
illusioni, non lo è mai stata: La prima volta in cui la vide la
scambiò per una contadina, da tanto le vesti erano povere e le mani
consunte, nessuna donna di ricca famiglia avrebbe mai potuto
intrecciarsi i capelli senza ornamenti, nascondendoli sotto un panno
slavato, né sarebbe andata in giro con abiti di lana grezza e
semplici zoccoli incrostati di fango; ma era ancora piccolo e non in
grado di comprendere le complesse sfumature dell'animo umano,
figurarsi quelle d'un regno.
La
seconda volta fu ad Edirne, fra i corridoi d'ori e sete preziose del
palazzo: aveva catene ai polsi sottili che le graffiavano la pelle
brunita dal sole e lo sguardo spiritato dei folli, ricorda ancora
l'accenno di sorriso che gli ha rivolto prima di svanire oltre i
leggeri tendaggi e la promessa sussurrata all'orecchio, simile ad uno
di quei racconti uditi dalla balia, una fantasia stupida cancellata
dalla cattività; con l'ultimo brandello di fantasia fanciullesca
rimastagli l'aveva chiamata Ieleiv
e, come nelle leggende, le aveva creduto, dannandosi.
La
terza, capì che lei non era né fata né strega, né vampiro né
spirito ma qualcosa d'assai più complesso e terribile; non sarebbe
mai potuto divenire Voievoda senza l'approvazione di lei, né sanare
quella terra per cui tanto aveva sofferto e che di diritto gli
spettava. Non gli aveva mai mostrato vera benevolenza o simpatia,
lei, eppure gli era sempre rimasta affianco, gioendo dei massacri
compiuti e della quantità di sangue turco, valacco, sassone,
ungherese, assorbito dalla terra brulla e ferita; è selvaggia,
antica ed assetata di ciò che le stato tolto e che un tempo riceveva
dai Daci attraverso i sacrifici, è sola, distante, come solo gli
spiriti eterni possono essere.
Lui,
suo malgrado, ha capito d'esser stato per lei solo una pedina, non il
dominatore che più volte s'è vantato d'essere ed ora, su
quell'altura umida flagellata dal nevischio ed avvolta da una
caligine biancastra, comprende quanto siano state vane le azioni
compiute per cercare di creare un governo nuovo, stabile, mondato dal
lezzo dei boiardi e dalle pretese dei dominatori stranieri: La
battaglia è perduta e Lei presto svanirà nel vento, come i ricordi,
lasciandosi dietro un fiume di sangue e lacrime da versare gelate dal
freddo , mentre di lui non resterà che un cadavere da poter mutilare
e deridere; una rabbia densa gl'invade l'animo mentre gli occhi
scivolano sulla battaglia, indagatori, alla ricerca d'un volto
affilato e sporco, con occhi scuri come ossidiana ed un ghigno
crudele. Nonostante Lei meriti il suo disprezzo, l'uomo non riesce a
provare alcun odio o smania di rivalsa nei suoi confronti, cosa assai
strana data l'indole sanguinaria e vendicativa mostrata sin da
fanciullo.
Sono
simili, troppo e come tali si rispettano mutamente, pur arrivando ad
odiarsi e disprezzarsi; il tempo delle speranze è finito ormai,
pensa battendo la lama contro lo stivale sinistro, scandendo con
suono metallico l'incedere di quel tempo che pareva essersi fermato,
Osmân sta arrivando e lui ha terminato gli stratagemmi per poter
ribaltare le sorti d'una guerra disperata.
Li
sono, lì moriranno, niente più 'armi chimiche' né incursioni
notturne, niente più terrore né foreste d'impalati, non ne ha avuto
il tempo; ha preso la sua decisione il voivoda, ed il regno terreno
ai suoi occhi non vale più quanto
l'antica promessa sussurrata fra i corridoi d'un palazzo lontano, fra
le lenzuola sfatte d'un letto semplice, in una casa anonima di
Târgoviște. Bandito da tre fedi, accusato di blasfemia, ormai
dell'anima non sa che farsene, che se la prendano gli spiriti
donandogli in cambio ciò che desidera, che non l'abbia lei, affinché
lui possa divenire suo pari.
Nella
mischia individua la sagoma inconfondibile del rivale, coperto di
sangue e fango, madido di sudore e con le vesti appesantite
dall'umidità del clima; piega il labbra in un sorriso crudele con
gl'occhi profondi velati da un vago disinteresse, distendendo le
braccia sino a formare una croce col proprio corpo, quasi lo stesse
invitando ad avanzare per poter così compiere l'ultimo atto di
quella vita consacrata alla rivalsa.
“Osmân,
il tuo sogno è polvere e t'ha annebbiato la vista. Lei è utopia,
non sangue né terra, e come tale non apparterrà mai a nessuno
fuorché a sé stessa, ed io non ho più la pazienza di chinare il
capo ad ogni suo capriccio, né la follia d'immolarmi in suo nome.
Morirò qui e sarò libero, morirò e diverrò suo pari, poiché di
lei, ora, non m'importa più. Il tempo dei regni è finito...”
Il
Devlet-i Aliyye-yiʿosmâniyyev,
Osmân-Beğvi,
avanza con la spada lorda di sangue in pugno e gli occhi neri,
ardenti come braci d'inferno, abbattendo con impeto disumano chiunque
osi pararsi a sbarrargli il cammino; è una fiera e non prova alcuna
pietà o rimorso per le vite che s'infrangono sul ferro freddo e
viscoso della lama dagli intarsi in oro: è una creatura nata e
cresciuta nel rigore della steppa, quand'ancora i suoi sudditi
vivevano di razzie e pastorizia, in perenne simbiosi con i propri
cavalli e non conoscevano i dolci agi della vita di corte; avverte
appena la puntura del freddo sul viso affilato, incrostato di sporco
e sangue, imperlato da copiose gocce di sudore, né prova stanchezza
nonostante il prolungato sforzo a cui si sottopone.
Avrebbe
potuto rimanersene in disparte, nella sicurezza del piccolo
padiglione allestito oltre le linee turche, nel quale Basarab Laiotavii
siede comodamente, osservando distrattamente lo svolgersi della
battaglia quasi fosse un evento lontano nel tempo, intangibile, dal
quale non dipendono le sorti del Suo regno.
Avrebbe
potuto, fosse stato diverso.
Fra
tutti i bifolchi selezionati da Mehmet IIviii
come possibili candidati per la Valacchia, lui è quello per cui
prova meno simpatia; se non fosse stato assassinato, il fratello di
Kaziglu-Beyix,
Radu cel Frumosx,
sarebbe stato il candidato migliore nonostante i discutibili
'costumi' e le maniere alquanto adulatorie con cui era solito
comportarsi; se non fosse morto con la gola tagliata ed accusato con
spregio d'essere dipartito a causa della sifilide, forse lui sarebbe
stato in grado di governare quella terra sul serio, imponendole il
giogo ottomano come ad una donna s'impone una collana di pregevole
fattura, tempestata di lapislazzuli.
Forse
Radu l'avrebbe corteggiata e sedotta, convinta a chinare il capo
dinnanzi a lui, accettando la propria sorte di schiava ed il posto
che Osmân le avrebbe concesso nell'Harem come sua concubina; avrebbe
dovuto essere un onore per quella puttana senza vanto, divenire la
Sposa del più grande impero del secolo, avrebbe dovuto chinare la
testa umilmente già durante la sua prima permanenza alla sublime
Porta, quando Mehmet era ancora ragazzo, Dracula un moccioso ribelle,
venduto dal suo stesso padre, e Lei divisa fra i lunghi artigli della
strega ungherese Elizabeta Héderváry e le sue braccia forti,
possessive; invece, con la cieca follia che l'ha sempre
contraddistinta si presentò nell'Harem la prima notte con una lama
ben affilata celata fra i capelli stretti in una di quelle elaborate
acconciature d'ori e gemme, pugnalandolo con forza all'inguine,
pericolosamente vicino ai genitali.
L'avrebbe
evirato, se gli eunuchi non fossero sopraggiunti ad afferrarle le
braccia, sequestrandole l'arma; gli avrebbe tolto i testicoli ancor
prima della vita per costringerlo all'onta di non poter avere una
discendenza, per porre fine allo smisurato potere con cui ha
sottomesso parte del mondo islamico.
Un
uomo non è un uomo senza attributi e nessuno avrebbe mai seguito
l'immagine d'un impero mutilo.
Nel
fragore della battaglia, fra le urla di rabbia ed i gemiti sommessi
dei moribondi, Osmân avverte ancora la risata di Lei, crudele e
tagliente, echeggiare fra i corridoi del palazzo di Edirne come pece
gettata con noncuranza sulle braci della sua rabbia; l'ha odiata,
come solo gl'immortali sanno odiare, con la furia nera e cieca d'un
Ghoul e per molte notti ha desiderato poter banchettare col suo
cadavere, dopo averne violato la santità, dopo averla umiliata.
La
rabbia con cui ora uccide i soldati del voivoda é frutto di quel
rancore a lungo covato: “Apri gli occhi, puttana! Guarda come
muoiono i tuoi vassalli, guarda come la mia lama spezza le loro lerce
carni cristiane! Guarda la fine, cagna, guarda la miseria, sposa
d'inferno!”
C'è
sempre stata una nota poetica negli insulti che le rivolgeva, nel
modo in cui la disprezzava pubblicamente, per poi ritrovarsi – suo
malgrado – a desiderarla come mai in vita aveva desiderato una
donna, una terra; forse perché in lei v'era una fierezza sconosciuta
alle altre concubine, forse perché gli ricordava le steppe del Nord
ed i freddi artici, le lunghe cavalcate sotto cieli e stelle
rifulgenti, nel chiarore d'una luna pallida e gravida, quand'ancora
vita e libertà avevano lo stesso suono e sapore sulle sue labbra,
quando gli sfarzi del la civiltà non gl'avevano ancora infettato il
sangue.
Lei,
la sua terra, gli erano sempre apparsi come un ricordo agrodolce e
lontano; fra le cosce magre non tiene solo la porta per l'Europa, ma
la via verso quelle origini ancestrali che lui, all'apice del suo
potere, brama e rimpiange. Regressus
ad uterumxi,
ritorno al ventre materno,,,che lei poi di materno non abbia nulla,
nemmeno l'illusione, è un problema a cui non vuol dar voce; gli
basta averla, infilarsi fra quelle gambe sottili come giunchi dai
muscoli tesi, montandola come un tempo cavalcava i piccoli e selvaggi
cavalli della steppa, gli basta riempirle il ventre d'una vita nuova
ed antica, d'un seme che germoglierà in una grande e duratura
Potenza in grado di reclamare per sé l'Occidente che agli orientali
è precluso.
Il
sangue europeo, il sangue romano che le scorre nelle vene sono la
dote che lui vuol ottenere; cresciuto come un barbaro, non può far
altro che guardare con orgoglio al proprio passato, bramando
segretamente i fasti d'un impero decaduto e una terra ricca,
nonostante la miseria in cui giace, ma lei ha scelto d'essere
affamata e folle, ha scelto l'uomo pugnalando l'Impero.
“Vlad
Dracula, che tu sia maledetto.” ringhia Osmân storcendo le labbra,
mulinando la spada con letale precisione mentre gl'occhi dal taglio
allungato percorrono lo spazio, studiando il groviglio di membra e
metallo alla ricerca d'un volto familiare, spigoloso e crudele, dallo
sguardo profondo d'un verde diabolico; lo riconosce nel soldato dalle
braccia spalancate come l'icona del Cristo crocifisso, su una piccola
altura fangosa circondata da pochi lancieri, distante dal grosso
dell'esercito.
“Folle.”
lo sbeffeggia il turco urlando un ordine ai soldati del suo drappello
affinché mantengano una formazione compatta, avanzando rapidamente
verso il nemico senza farsi rallentare dal divampare degli scontri in
atto; non può permettersi di perdere di vista il voivoda, né che
lui decida di scappare o ritirarsi come durante la lunga campagna
estiva combattuta sul suolo valacco, non può permettere il
diffondersi di altro terrore e leggende nel vasto Impero o nessuno
vorrà più seguirlo oltre il Mar Nero, su quel suolo maledetto che
lui brama come l'aria.
Non
può permettere che l'uomo ritorni da Lei, o che lei lo riprenda con
sé nel suo peregrinare senza meta, senza dimora, poiché non
sopporterebbe oltre l'onta d'esser stato rifiutato in favore d'un
mortale folle ed insolente, d'un corpo di carne e sangue destinato
allo scherno, poi ai vermi; avanza con nuova rabbia, dimenticando le
ferite subite ed il peso della corazza, annullando la stanchezza e
l'intorpidimento con una disciplina ferrea, poco umana; i suoi
faticano a stargli dietro ma non l'abbandonano, silenziosi e fedeli
come ombre non osano porre in discussione gli ordini ed i desideri
del loro Bey, nonostante il dubbio che essi siano pensieri folli li
abbia colti da tempo; vivono per lui, grazie a lui, che diritto
potrebbero avere di giudicarlo per un mero capriccio? Temono la
figura sanguinaria e nera di Kaziglu-Bey, temono i suoi pali e la
follia con cui ci issa sopra prigionieri e vassalli, ma temono ancor
di più le ire del loro Impero, che non coincidono con il pestar di
piedi altezzoso di Mehmet-Sultan.
Per
una donna dal nome maschile, stridente, hanno accettato la pazzia ed
il silenzio come un dono, onorati di poter morire per una causa che
non riescono a comprendere; non è l'Egitto assolato e fertile, la
Valacchia, né le terre ad est, vaste e rigogliose, d'un verde
abbacinate venato di fiumi abbondanti, né ha la maestosa bellezza
degli antichi imperi. Osmân-Bey vede in lei un illusione e Vlad
Dracula l'ha scambiata per una leggenda vivente, attribuendole poteri
che lei, di fatto, non possiede; sono stati folli entrambi e lei
brava a vendersi come una meretrice dall'animo fino, in grado di
comprendere alla prima occhiata i tormenti ed i desideri dell'anima
altrui, promettendo d'avverarli.
Non
fiatano quando le lame nemiche attraversano gli strati di stoffa e le
corazze, rimanendo fedelmente vicini al proprio signore, né osano
cadere prima d'averlo scortato sin in fondo a quell'inferno, ove
Shayṭān li attende sogghignando; a vederlo così, con gli occhi
oscurati dall'elmo sbeccato, sporco di sangue e fango, non incute più
in loro alcuna paura. È solo un misero uomo come lo sono loro, come
tanti già morti su quella terra ghiacciata, le cui carni andranno ad
ingrassare i corvi ed il sangue impregnerà le radici degl'alberi,
facendo maturare frutti dal sapore ferrigno.
In
šāʾ Allāhxii,
raggiungeranno il paradiso presto, lasciandosi dietro quella miseria.
“Dov'è
lei?” grida Osmân al voivoda.
“Ove
né tu né io potremo raggiungerla.” risponde atono, con gli occhi
rivolti oltre il fiume, verso gli scuri profili delle alture lontane,
fantasmi anch'essi.
Vlad
inspira lentamente abbassando le braccia, la spada ancora saldamente
stretta in pugno.
Lo
sciabordio delle acque s'è fatto più forte ed ha mutato scala
sonora, come se un elemento esterno si fosse inoltrato nella corrente
per romperne la placida armonia, incedendo lentamente nell'acqua
fredda e letale come la lama d'uno stilo.
'Un
cavallo,,,' pondera, riconoscendo lo scricchiolio del ghiaccio
sottile, frantumato sotto gli zoccoli, ' sta percorrendo la riva
opposta' può quasi vedere il grande sauro dal manto scuro come l'ala
d'un corvo trottare placidamente lungo la riva, sbuffando nuvolette
di vapore caldo nell'aria umida; in sella, la figura di lei è esile
e longilinea come un fuso, con il baluginio dell'ago prima d'essere
immerso nelle trame di nebbia cangiante. Non può scorgerle il viso,
così distante, ma ne intuisce l'espressione fredda e gl'occhi vacui,
spiritati, specchio d'un anima in subbuglio che fatica ad esternare i
propri tormenti. Non sarebbe mai tornata indietro se non stesse
soffrendo davvero, forse per la prima volta dopo secoli d'altezzosa
apatia. Non sarebbe mai tornata se, dopo tanti anni a manovrare
condottieri e principi come burattini di pezza, non fosse stata punta
dai demoni chiamati pietà e rimpianto; dovrebbe sentirsi onorato ed
esultante nel vederla così triste, contrariata a causa della fine
che lui stesso ha deciso d'abbracciare, invece non prova
alcunché...lei non è più la strega che l'ammaliava con dolci
promesse e cruda violenza, anche se sopravvivesse all'attacco di
Osmân, se scappasse fra le braccia di lei promettendo un altro
ritorno, non ci sarebbe più nulla da fare; sta divenendo vecchio, la
sabbia della clessidra scende a suo sfavore e, potendo scegliere, non
è certo in un letto ungherese dall'odore di piscio il luogo in cui
vuol terminare i suoi giorni, ma nel sangue d'una carneficina.
“Sorridi
Vlahia, sorridi e bevi dalla coppa il sangue dei tuoi figli.” alza
la spada con gesto rapido, inaspettato, mozzando di netto la testa
del soldato a lui più vicino; i suoi sottoposti sgranano gl'occhi,
incapaci di credere a quant'hanno visto, ammutoliti dal sangue che
sgorga copioso dal corpo mutilo accasciatosi al suolo con un gran
fragore prodotto dalla cotta, dal tonfo del capo rotolato fra l'erba
gelata.
La
risata del voivoda è il canto folle del diavolo e riecheggia come il
rombo d'un cannone sopra lo scontro in atto, gelando le viscere dei
soldati valacchi che cercano inutilmente di ferirlo per respingerne
il folle attacco; a nulla servono le parole, lui ormai non ode più
nulla oltre allo sciabordare lontano del fiume e ai passi cadenzati
del cavallo di lei, a nulla serve ferirlo, non v'è dolore abbastanza
forte in grado di contrastare la cieca follia che ora ne anima il
corpo.
“Dracula!”
Ringhia Osmân-Bey scontrandosi contro i lancieri alla base
dell'altura, attento a non finir infilzato dalle punte fredde delle
loro armi; mulina la spada con foga, senza distogliere lo sguardo
dallo scempio che si sta compiendo sulla sommità brulla.
'Quel...folle! Sta uccidendo i suoi stessi uomini!' pensa sbigottito
e schifato, guardando il sangue colare copioso ad inumidire la terra
fredda e riarsa, trasformandola in pantano; la punta d'una lancia
frantuma la cotta di maglia sul fianco del voivoda, infierendogli una
lieve ferita prima che lui abbia il tempo d'abbattere il lanciere e
riprendere fiato, riassumendo la postura di difesa in attesa
dell'arrivo del turco.
“Perché?!”
Grida questi, portandosi a pochi passi dal principe valacco,
scrutandone il volto distorto dalla pazzia con sguardo febbrile,
incapace di comprendere l'animo di quell'uomo così...mostruoso.
“Non
capiresti, nessuno capirebbe...” replica l'uomo utilizzando la sua
lingua in un ultima parvenza di cortesia; le ferite riportate nello
scontro, benché superficiali, sono molte più di quanto il turco
avesse immaginato e sanguinano copiose, inzuppando il mantello
bardato di pelo. Respira affannosamente, mostrando i denti come un
cane idrofobo e lo osserva, con quegl'occhi folli e demoniaci simili
a smeraldi dalle sottili venature scure,
“...Per
lei?” domanda nuovamente il Devlet-i Aliyye-yiʿosmâniyye,
preparandosi ad attaccare l'avversario con tutta la forza di
trent'anni d'odio represso; non mostrerà alcuna pietà perché egli
è debole e ferito, poiché non la merita, non dopo aver avuto
nuovamente conferma di quanto sia pericoloso sottovalutarne la
follia. Su quel cumulo di terra impiastrata di sangue, fra i corpi
trucidati di valacchi ed ottomani, Osmân-Bey avrà finalmente le
risposte ed i tributi che cerca, assieme alla testa mozzata di Vlad
Dracula.
La
risata profonda dell'uomo gli causa un fremito freddo, involontario,
lungo la spina dorsale.
“Lei
è morta, non ho più regni per cui combattere.” ha una cadenza
agrodolce quella confessione e la nota stridente delle mezze verità
“ho solo un ultimo desiderio per cui combattere e sono onorato che
sarai tu a portarlo a termine.”
“Pazzo!”
urla Osmân gettandosi con foga contro il voivoda valacco, facendo
cozzare la propria scimitarra contro la lama lorda di sangue; come
seguissero i passi d'un antica danza i due contendenti si
fronteggiano schivando e parando, cercando d'affondare le armi l'un
nella carne dell'altro, evitando con attenta maestria i corpi ormai
freddi dei soldati caduti ed i ciuffi gelati, scivolosi, della rada
erba che ivi cresce.
Altro
sangue, altro dolore.
Nella
caligine che si leva dalle anse del fiume, lei assottiglia gli occhi
scuri e vacui, osservando la collina oltre un velo di lacrime che non
scenderanno mai a bagnare le guance fredde; ha dimenticato da tempo
cosa vuol dire mostrare il proprio dolore, né ricorda più come si
faccia a piangere per un uomo, per sfogare quel peso oppressivo che
le attanaglia il petto, all'altezza del cuore.
Preme
la mano sinistra contro il ventre piatto, coprendo col palmo una
grossa macchia scura, la prima di molte e ripete atona il nome di
lui, un sussurro sottile nel brusio prodotto dagli echi della
battaglia, nello sciabordio dell'acqua fredda in cui vorrebbe
immergersi e chiudere gl'occhi, lasciandosi trascinare dalla
corrente; non è mai stata melanconica, ha sempre preferito
combattere, non ha mai scelto di cambiare idea una volta deciso quale
strada seguire ed è sempre stata abbastanza scaltra da non farsi
influenzare dalle vicissitudini dei mortali, per lei prive di senso.
È un Regno, non una donnicciola di bassa estrazione ed ha sulle
spalle i destini di milioni di persone, non può permettersi alcun
cedimento.
Non
sarebbe dovuta tornare indietro, proseguendo invece verso i Carpazi,
verso Sibiu ove Transilvania l'attende, non sarebbe dovuta tornare da
lui, non dopo aver scelto d'abbandonarlo soffocando il desiderio
d'una terra libera fra lenzuola pregne di sangue ed odio, fra gemiti
sommessi e bestemmie; non ha mai voluto essere madre, Vlahia, non ha
mai creduto d'esserne in grado poiché è nata per altri scopi, per
la tortura, le guerre e la politica, non certo per stringere al seno
il seme d'uno stato che, ora lo sa, è nato prematuro.
Non
è ancora giunto il momento, è troppo debole.
Se
fosse stata semplicemente umana, con un nome di battesimo e sogni
semplici, allora avrebbe davvero potuto seguire il suo principe in
quella follia chiamata regno, magari come sua consorte, senza dover
trovare la cattiveria necessaria per soffocare quel figlio nato
debole, morto dopo pochi respiri; sorride velenosa, gettando indietro
la testa per far ondeggiare i lunghi capelli dai riflessi di fiamma,
mossi e selvaggi come onde d'inferno, dandosi dell'idiota. Se lei
fosse stata una donna come le altre lui, probabilmente, non l'avrebbe
mai presa in considerazione, troppo preso ad inseguire il sogno
irrealizzabile d'una terra unita e ricca, moderna come le nobili
città italiane; lei l'ha scelto per il medesimo motivo, perché non
c'è mai stato alcun briciolo d'amore fra loro, solo malcelato
disprezzo ed ammirazione, solo troppe similitudini nascoste e poca
voglia di scoprirle davvero.
Fra
tutti i signori della casa di Basarabxiii,
Vlad è sicuramente quello che ha sopportato meno, troppo ribelle e
folle, troppo fiero ed incapace di chinare il capo dinnanzi a uomini
più potenti; l'avrebbe voluto come suo padre, più sottomesso al suo
volere, e non avrebbe mai pensato, quando lo vide ancora ragazzino
nei corridoi soffusi del palazzo di Edirne, che un giorno si sarebbe
dannata l'anima per lui.
Voleva
un compagno da poter comandare a bacchetta, un voivoda molle di
spirito e lesto ad eseguire gl'ordini, non un pariedro ancora più
folle di lei, con cui ogni discussione politica o duello
d'allenamento si tramutavano in uno scontro all'ultimo sangue, a chi
avrebbe ferito per primo, profondamente, l'altro; come compagno poi
non era stato molto diverso, non aveva mai provato solo piacere nel
sesso, ma la rabbia ed il dolore d'uno scontro alla pari e mentre i
ricordi le offuscano la vista, rigettandola in quel passato che s'è
imposta di dimenticare, realizza finalmente la propria follia e che
lui forse è stato l'unico che sia riuscita ad amare davvero.
“'Fanculo.”
ringhia a denti stretti riportando l'attenzione sulla due sagome
intrecciate sull'altura, realizzando con rabbia d'essere giunta alla
fine; lui non tornerà, fra le sue braccia di fredda apatia e la
morte, ha preferito quest'ultima.
L'elmo
cozza nel fango con un fragore assordante, liberando una testa ornata
da una lunga chioma scura, riccioluta e ribelle dagli occhi
socchiusi, offuscati dal gelido velo della morte. Osmân inspira a
grandi boccate crollando sulle ginocchia con ancora la spada stretta
in pugno, fra le dita gelate; il cuore pulsa impazzito contro le
costole dolenti, contro le tempie, inibendo l'udito, mentre lo
sguardo non vede altro che il corpo scomposto dell'avversario
crollare a terra, spostandosi poi verso il capo mozzo dai capelli
tagliati malamente.
È
rivolta verso il fiume e pare scrutare fra i banchi di nebbia alla
ricerca d'un dettaglio che il turco non riesce a cogliere, incapace
di vedere così lontano; striscia per pochi metri che lo separano dal
trofeo, afferrandolo poi con foga per rialzarsi in piedi, svuotando i
polmoni in un urlo selvaggio, liberatorio.
“Allāhu
Akbar! Allāhu Akbarxiv!
Il vostro voivoda è morto!” urla verso il cielo grigio sovrastando
il fragore della battaglia, seguito dall'eco gioioso dei suoi
sudditi; ha vinto lo scontro ed ottenuto la testa del rivale, ma non
v'è alcun appagamento nel suo animo, né prova la gioia che sperava;
comprende il motivo nell'istante in cui i suoi occhi colgono un
guizzo scuro nella coltre bianca adagiatasi sull'acqua ed un nero
cavallo ne emerge, spaccando il ghiaccio sotto i potenti zoccoli. Un
fiotto di bile amara mista a sangue invade la bocca del turco,
mutando il grido gioioso in un rantolo soffocato.
Riconoscerebbe
i capelli selvaggi di lei fra mille e avverte su di sé l'odio
profondo, implacabile, delle anime tormentate; mentre alza la testa
di Vlad Dracula affinché lei possa vederla, urlandole le peggiori
blasfemie, la pelle del viso prude come scottata dalla furia
vendicativa d'un popolo a cui è stata tolta la libertà, delle donne
che non vedranno tornare i propri sposi, figli e compagni, d'una
Nazione che ha perso la sua guida.
“Non
era amore, sgualdrina. Lui infine t'ha abbandonata.” sogghigna
Osmân cercando di compiacersi, senza riuscirvi poiché divorato
dall'invidia verso l'uomo morto di cui ora stringe la testa fra le
dita dolenti, verso quella puttana che sta nuovamente fuggendo da
lui, stavolta per sempre.
Può
annettere la terra ai propri domini, può vessarla e martoriarla a
suo piacimento, finché non vi saranno più sangue e risorse da poter
estrarre, ma lei non sarà mai Sua; scapperà da Transilvania o
Moldavia, tornerà a bisticciare con la sua degna compare Ungheria,
non poserà mai più lo sguardo sul suo viso finché non sarà sicura
di potergli strappare gl'occhi, oltre ai testicoli.
Osmân
sa che portarla indietro come schiava, battuta e umiliata, non è mai
stato ciò che desidera poiché lei risulta insensibile alle
umiliazioni, al comune dolore; la voleva dolce e sottomessa come una
Uri del paradiso, non una bambola ricolma d'odio con cui convivere
nel terrore d'essere evirato; fra tutte i regni folli e scostanti
conosciuti durante la sua ascesa, Vlahia è stata sicuramente la più
sconsiderata.
Eppure
continua a volerla e l'avrà, dovesse radere al suolo l'Ungheria
intera.
Schiocca
le briglie con foga, lanciando il cavallo in una corsa disperata e
liberatoria.
L'aria
tagliente le ferisce la pelle arrossata, infiammandole gli alveoli ad
ogni lungo respiro incrinato dai gemiti strozzati; Una lacrima
solitaria si prede nella bruma, unica testimonianza del vuoto che
avverte nel ventre, del dolore sordo che dal cuore s'irradia per il
corpo esile e provato, infreddolito.
Dopo
secoli ha ceduto anche lei e solo alla fine comprende che l'amore
distorto di Vlad Dracula ed il sogno d'un regno indipendente e libero
le sarebbero bastati se solo fosse stata meno scostante, se avesse
avuto più fiducia.
Ma
ormai è tardi e lei deve compiere il proprio destino d'esule, sola
questa volta.
“Adio”
'
L'eternità corrode ogni metallo,
il
tempo diverrà combustibile per l'odio
e
i figli che darò alla luce ti malediranno, Osmân.
Che
tu possa non avere pace, come d'ora in avanti non l'avrò io. '
E.N.D.
iManoscritti russi appartenenti alla collezione delo monastero Kirillov-Belozersky, conservati nella biblioteca Saltykov-Schedin di San Pietroburgo.
iiBucarest.
iiiFiume che attraversa la città di Bucarest.
ivNel folklore rumeno sono figure femminili [una sorta di fate] che vivono in luoghi isolati come caverne, foreste e paludi, custodi delle sorgenti e degli incroci; si manifestano solitamente la notte, al chiaro di luna, in luoghi nascosti ove si riuniscono per danzare tenendo fra le mani candele. Caratterialmente sono simili ai Sidhe Irlandesi.
vSublime Stato Ottomano, Impero Ottomano.
viBeğ o Bey: Signore.
viiBasarab III cel Bătrân, o Basarab Laiota, fu governatore del principato di Valacchia in diverse occasioni. A seguito della morte di Radu cel Frumos, fratello di Dracula, venne appoggiato dall'Impero Ottomano per la contesta al trono.
viiiMaometto II detto Fātiḥ, "Il Conquistatore", fu il settimo sultano dell'Impero ottomano. Salito al trono la prima volta a soli 13 anni dopo l'abdicazione del padre Murad II nel 1444, divenne sovrano effettivo solo nel 1451, alla morte del padre. Tra i primi atti di governo, per consolidare il suo trono, all'età di 21 anni conquistò Costantinopoli (1453), ponendo fine all'Impero bizantino.
ixKaziglu-bey: Signore Impalatore, 'titolo' (soprannome) conferito a Vlad III Dracula dai turchi.
xRadu il Bello, fratello minore di Vlad III Dracula; come gli altri figli di Vlad II Dracul anche Radu fu voivoda di Valacchia, una prima volta nel biennio 1447-1448 ed una seconda dal 1448 al 1456, come vassallo dell'Impero Ottomano. Durante la sua permanenza alla corte Ottomana si dice fosse divenuto l'amante di Mehmet II.
xiRegressus ad uterum, “ritorno nell’utero”, un termine che viene spesso usato nei riti d’iniziazione. È un ritorno simbolico a un particolare stato primordiale dell’essere che accomuna ogni uomo nell’inconscio collettivo.
xii“Se Dio vuole" e sta ad indicare la speranza di una persona credente affinché un evento possa accadere in avvenire. Una traduzione più libera potrebbe essere "a Dio piacendo". Il significato del termine ha un connotato chiaramente religioso, ma significa semplicemente "sia fatta la volontà di Dio".
xiiiI Basarabidi furono la casa reale che creò il principato indipendente di Valacchia, garantendo al paese la sua prima schiatta di governanti.
xivTakbīr, è l'espressione Allāhu Akbar, ovvero: "Dio è il più grande". È un'espressione che, nella religione musulmana, è spesso usata nel richiamo da parte del muezzin per ricordare ai fedeli l'inizio del periodo d'elezione utile ad assolvere l'obbligo della preghiera canonica (salat). L'espressione è impiegata anche prima dell'effettiva esecuzione della salat, oltre che in altre occasioni non religiose in cui si voglia ostentare la propria fede islamica in Dio. Può essere usata anche come esclamazione.
Note sui personaggi:
Su chi sia Vlad Dracula ho scelto di non dilungarmi troppo, credo che ormai, vista la quantità industriale di film, libri, novel, fanfiction, fanart, puntate di Hellsing etc. diffuse quasi tutti sappiano, in linea di massima, chi sia questo personaggio storico (perché no, non sto parlando del vampiro di Stoker^^); agli altri ho dedicato una breve nota qui sopra, poiché sono sicuramente meno famosi e quindi necessitano di una minima presentazione.
Vlahia:
è il nome rumeno di Valacchia, la regione che occupa la parte sud
dell'attuale Romania ed è anche l'unico epiteto con cui vuol farsi
chiamare il suo alter ego hetaliano, nonché OC da me inventato.
È
una donna crudele ed egocentrica, he ama in modo folle sia i
massacri che le battaglie; soffre d'una forma abbastanza deleteria
di apatia, che spesso la spinge ad improvvisi mutamenti d'umore,
caratterizzati da scoppi di violenza o di follia inaudita, una sorta
di eccesso opposto al suo stato d'animo normale. Prova un sentimento
alquanto 'distorto' ed inspiegabile nei confronti di Vlad, che la
ricambia con altrettanta cortesia ^^ e, sì, detesta profondamente
Osmân.
È di costituzione
minuta, non molto alta. Ha lunghi capelli mossi e ribelli, castano
ramato, ed occhi nocciola vacui.
Osmân-bey: Impero Ottomano invece si fa chiamare Osmân come il capostipite della dinastia ottomana; ho riflettuto a lungo se inventare un nuovo personaggio per questo 'stato' o utilizzare Sadiq, ma alla fine, pensando alle differenze fra com'era l'impero alla fine del 1400 e l'attuale Turchia, è nato lui [una specie di Nonno Roma turco]. Nella prima versione di 'Vlahia', in cui tutti i personaggi possedevano un livello di sanità mentale più alto ^^, aveva un carattere fiero e combattivo, leale, tratti che gli sono rimasti anche in questo scritto, nonnostante siano affiancati al morboso desidero da lui provato verso Vlahia; non è amore, è solo brama di possedere ciò che non ha, come un ladro sente il bisogno d'impossessarsi di ciò che non gli appartiene e, al contempo, pretende pure le attenzioni di lei, come tutti i conquistatori desiderano rispetto da parte dei popoli sconfitti. Rispetto ai turchi moderni ha tratti asiatici più definiti, retaggio di quando i turchi erano ancora una popolazione nomade, per il resto, potete immaginarlo come una versione più 'adulta' e con barba e baffi di Sadiq.
Ultime Note Random:
Questa storia è la versione riscritta di 'Vlahia', pubblicata sul mio account di EFP. Nata come una semplice revisione e trasformatasi poi in un racconto a sé, molto diverso all'originale, ho deciso di ripubblicarla di nuovo, cancellando l'altra; mi rendo conto che fra le due forse questa è più difficile, più romanzata e più 'storica' da un certo punto di vista, quindi so che non sarà una lettura leggera, come non lo sono il 90% delle cose che scrivo ahimé^^. Come l'altra si basa su un fatto storico realmente accaduto, l'ultima battaglia combattuta da Vlad Dracula nei pressi di Bucarest; poiché il luogo effettivo e le vicende risultano tutt'ora abbastanza fosche mi sono presa la licenza di descriverla secondo ciò che ho immaginato io, trasportandola nel fandom di Hetalia. Avrei potuto dedicarmi ad un'originale...in effetti, visto uanto poco di Hetalia c'è in questo scritto...ma vabbeh ^^, dopotutto era nata come fanfiction.
Detto
cio, ringrazio quanti hannoa vuto la forza d'arrivare fino qui!
Un
Saluto!
_Morgan