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Autore: Jo_The Ripper    09/11/2014    3 recensioni
Raccolta di one shot slegate tra di loro, che abbracciano vari generi, situazioni e tematiche (nonché what if e possibile caratterizzazione OOC dei personaggi), scritte per lo più sotto impulsi ed ispirazioni del momento.
1. Dead man walking: “Si sentiva un cacciatore d'oro all'inferno, alla ricerca della vena fortunata.”
2. Once upon a dream: “Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è ombra.”
3. Cold blooded (2° classificata al contest Film e telefilm: dimmi qual è il tuo): “Sono l’unico uomo a cui non potrai mettere un guinzaglio.”
4. Gluttony: “Tutto comincia con un capriccio.”
5. The sound of silence: “Mi sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in frantumi.”
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di: sir Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat ed il network BBC.

[Sherlock & John; What if dell’episodio 1x03; Drammatico-introspettivo, angst]

fumo

Dead man walking


La più orribile delle infermità è la mancanza di cuore 
Jean Cardonnel

Il mare era cupo e gorgogliante di schiuma. Le dense nubi plumbee si stagliavano nel cielo, ormai svuotate del loro carico di roboanti tuoni e scoppi di folgori. Si disperdevano, mosse dal vento, con la stessa misurata lentezza di un corteo funebre. Qualche lampo ametista illuminava ancora l’etere con il suo bagliore, gettando uno spiraglio di luce in quel grigiore altrimenti soffocante. 
Le onde mi sollevavano e sballottavano mentre provavo a tenermi ben saldo ad un’asse di legno, un misero appiglio di quello che ormai era il relitto del vecchio brigantino sul quale viaggiavo. 
L’albero maestro, con un ultimo, agonizzante rantolo, si spezzò per poi sprofondare nei flutti oscuri assieme alle sartie, come una croce che cade sotto il peso del peccato e distrugge l’ultimo baluardo di fede e speranza dell’anima. 
Anche la galea cedette, si inarcò e si inabissò generando un’onda che mi spinse ancora più lontano.
Ero stremato, la battaglia contro la tempesta mi aveva privato di ogni energia. Ad ogni istante che passava, sentivo i cancelli del reame della morte sferragliare sui cardini arrugginiti e aprirsi per accogliermi come nuovo ospite, trascinato alla deriva dalla corrente.
Con il respiro mozzato dal freddo delle acque, in lontananza vidi emergere dalla nebbia un vascello. La prua fendeva in due le onde di quella buia marea, attraversando i resti della nave e spazzandoli via alla stregua di misere foglie in balìa del maestrale.
Sollevai la testa e, con le ultime forze che mi rimanevano, in un muto grido d’aiuto, allungai una mano in direzione della nave dalle vele rosso cremisi.
“Rosso, come il sangue sparso sul pavimento bianco.”

La debolezza mi fece annebbiare la vista ma, quando riuscii a recuperarla, i miei sensi ormai moribondi riacquistarono un barlume di vigore e seppi che lui era lì.
Mi fissava con occhi malevoli e sapevo che con quella semplice occhiata stava scandagliando la mia anima con tutta l’abilità di un chirurgo.
Mi stava giudicando.
Con avidità ed ingordigia scrutò nel mio essere e in quel momento seppi che mi aveva trovato un posto.
La nave gettò in mare le sue reti per catturare i resti degli annegati. L’esiguo numero di persone che nella mia vita erano state importanti, che mi avevano fatto nascere, che mi avevano fatto dono della loro amicizia e dei loro insegnamenti, che contavano, erano lì. 
Occhi spenti e vitrei, corpi gocciolanti, pelle bianca, raggrinzita e gonfia, labbra blu violacee.
Inorridii di fronte alla consapevolezza che l’essere sopravvissuto sanciva la mia condanna ad un destino peggiore.
E lo meritavo.
Gli occhi dell’uomo sul ponte, che ora potevo distinguere essere di un blu acceso, brillavano come fuochi fatui su un cimitero di lapidi sommerse. Continuava ad osservarmi, ma se quegli occhi mi avessero cercato di proposito o si fossero posati su di me per caso, non potevo saperlo.
Io aspettavo lui o lui me?

“Sherlock.”


Il mio animo si riempì di terrore. Quella voce…capii ciò che voleva, ed era più di quanto potessi dargli.

“Sherlock.”

Sotto il peso di sensi di colpa che laceravano la mia anima al ricordo di quella morte che avevo causato, agonia e sfinimento unirono gli sforzi contro di me, trionfando.
Le gambe divennero pesi di piombo e le mani allentarono la loro presa, scivolando sulla superficie levigata del legno.
Vidi il mare chiudersi sopra di me ed inghiottirmi, avvolgermi nel suo tetro abbraccio, accogliermi nella sua oscura viscera.

“Sherlock.”

Il mio nome, l’ultima parola che udii mentre la vita abbandonava il mio corpo.
E suonò come un richiamo per i dannati.

*

Qualcosa, da qualche parte, stava suonando.
“Non una canzone, un trillo. È lo squillare insistente di un cellulare.” Elaborò la sua mente ancora annebbiata dal sonno.
Emerse dalle coperte e si mise supino. Aprì piano gli occhi e aspettò che il mondo tornasse nella giusta prospettiva, cancellando i contorni sfumati del regno del sogno. Un pallido raggio di sole filtrava dalla tenda di quel colore bianco sporco che sua madre aveva tanto insistito a comprargli.
Richiuse gli occhi, non era il sole che voleva. Voleva tornare nella sua caverna oscura, rifugiarsi nell’angolo più buio e remoto del suo palazzo mentale.
Il cellulare smise di squillare e lui emise un sospiro di sollievo. 
Si portò il braccio agli occhi e, con il dorso della mano, sfiorò la fronte: la trovò madida di sudore.
“Avresti dovuto rispondere.”
Dalla sua posizione rilassata, si irrigidì di colpo, il corpo percorso da un brivido freddo. Aprì gli occhi e si voltò in direzione della voce. 
In piedi, accanto al comodino, c’era John. 
Il telefono riprese a squillare.
“Chi è?” borbottò tirandosi a sedere. Assottigliò le palpebre per evitare che il sole gli ferisse gli occhi. Li sentì ugualmente bruciare come se fossero trapassati da un pungolo. 
Da quando era diventato così fotosensibile?
“Lestrade. Dovresti rispondere, Sherlock.”
Il detective annuì, ruotò il busto in direzione del cellulare, sporse il braccio per afferrarlo ed accettò la chiamata. La sua espressione divenne mortalmente seria. Scambiò delle stringate parole con l’ispettore, un indirizzo ed un lasso di tempo per poi terminare la conversazione.
John continuava a fissarlo a braccia conserte, improvvisamente preoccupato.
“Non devi andarci per forza, hai una pessima cera.”
Sherlock non si prese la briga di rispondere, si alzò e si diresse verso il bagno, ignorando il caos totale in cui versava la sua camera da letto. La sua mente registrò solo dei particolari. 
I peggiori. 
Il cucchiaio ormai bruciato dalla fiamma che giaceva sulle coperte, le bottiglie d’acqua vuote, il laccio emostatico abbandonato sul comodino, le piccole bustine di plastica accartocciate e gettate sul pavimento assieme ad uno dei tanti completi eleganti. Da qualche parte, constatò, dovevano esserci anche delle siringhe che, in quel momento, erano nascoste chissà dove.
Nascoste, come i mostri sotto al letto e dietro le porte del suo palazzo mentale: arrancavano nel buio, tendendo i loro artigli e spalancando le loro fauci che esalavano effluvi mefitici, pronti a spezzare l’ultimo filo di sanità mentale che lo teneva ancorato al presente.
Chiuse la porta del bagno, si liberò dei vestiti inzuppati di sudore e si sistemò nella vasca.
Trasalì a contatto con la fredda ceramica, ma si costrinse a rilassarsi. 
Aprì il getto d’acqua calda per lavarsi via di dosso la spossatezza e l’odore acido dei suoi stessi succhi gastrici nella bocca. 
Non aveva detto a John del suo incubo. 
Non gli aveva detto che l’aveva visto sul ponte della nave, incarnazione stessa della tenebra, venire a reclamare la sua anima e soddisfare la propria vendetta. 
Non gli aveva detto di aver visto morire anche gli altri senza poter fare nulla per salvarli. 
Richiuse gli occhi intenzionato a scacciare le immagini del suo incubo. Si immerse fino ai capelli nella vasca e restò lì, fermo, con il respiro bloccato in gola, in un limbo galleggiante di pace fittizia.
Quando uscì dalla vasca, un lieve tremore scuoteva le sue mani mentre provava a vestirsi. La sua immagine, riflessa nello specchio, rimandava le fattezze di un viso che non riconosceva come suo: era dimagrito, il volto, già spigoloso, era diventato una maschera appuntita, le labbra, una volta piene, si erano trasformate in un terreno riarso, secche e sottili. Persino gli occhi, un tempo caratterizzati da un cangiante e vibrante verde azzurro, erano coperti da un velo opaco e febbrile. 
“Sherlock, sbrigati o farai tardi.” Lo ammonì la voce di John al di là della porta.
“Sì, sono pronto.” Replicò atono prima di aprire il mobiletto delle medicine e prendere una manciata di tranquillanti.
Inspirò profondamente e, quando uscì dal bagno, John era scomparso. 
Dove fosse andato, non lo sapeva.
Prima di recarsi sulla scena del crimine, Sherlock salutò un appartamento vuoto.

*

Lestrade sollevò la striscia gialla che circoscriveva l’area interdetta del Battersea Park, mentre un piccolo capannello di ficcanaso cercava di sbirciare, spinto dalla curiosità.
“Stesso modus operandi?” chiese Sherlock mentre si dirigeva verso il luogo del ritrovamento.
L’ispettore al suo fianco annuì.
“È stata trovata dal guardiano del parco questa mattina. Galleggiava con il viso riverso nel lago.”
Sherlock si avvicinò al corpo della donna che giaceva sull’erba per esaminarlo. Era giovane, non doveva avere più di venticinque anni.
“La causa della morte non è l’annegamento e questa non è la scena del crimine primaria, ma solo il luogo dell’abbandono. Anche a lei è stato asportato qualcosa.”
Il viso di Lestrade mutò in un’espressione di estremo disprezzo e disgusto.
“Holmes, ci troviamo davanti ad un sadico psicopatico seriale: le è stato asportato il cuore.”
“Il cuore...come alle altre è stato preso il cuore...” mormorò Sherlock cercando di aggiungere anelli alla sua catena di ragionamenti.
“E tu, Sherlock? Tu ce l’hai un cuore?” la voce di John risuonò fastidiosa nella sua testa. La scacciò con un gesto del collo.
“Fammi avere al più presto il referto autoptico.” Ordinò prima di voltarsi per andare via ma Lestrade lo trattenne.
“Sherlock, dammi qualcosa su cui lavorare, non riuscirò a tenere la stampa e i superiori a bada per sempre.”
L’atteggiamento quasi implorante dell’ispettore, i cui occhi elemosinavano una briciola di aiuto, gli procurò un moto di orgoglio.
“Vanità.” Lo corresse John.
Era bello essere l’unico detentore della conoscenza, arrivare dove gli altri non potevano spingersi con il solo ingegno della mente.
“Superbia.” Insistette la voce del dottor Watson.
“Il soggetto che dovete cercare è un maschio bianco, tra i 25 ed i 35 anni, uno che non si nota a prima vista, capace di confondersi tra la folla. La natura violenta dei crimini suggerisce che abbia la fedina penale sporca, microcriminalità, magari piccoli furti. È un assassino organizzato: prudente, segue la cronaca, è attento all’igiene, furbo…e visto che è furbo le uniche prove fisiche che troviamo sono quelle che lui vuole lasciarci. Ha una macchina in buone condizioni, forse con i vetri scuri per poter trasportare i corpi nei luoghi di abbandono. Deve avere una storia di paranoia prodotta da un trauma non superato, magari la morte di un genitore, di uno della famiglia o un amico. Attraverso l’omicidio deve soddisfare una pulsione o compensare una mancanza, un bisogno viscerale, un disperato senso di potere. Gli assassini organizzati provano un grande interesse per l’applicazione della legge, è come se volessero inserirsi nello svolgimento delle indagini. Possono arrivare a fingersi testimoni per scoprire cosa sa realmente la polizia, questo li fa sentire dominanti, controllanti...quindi è anche possibile che l’abbiate già sottoposto ad un interrogatorio o che sia stato presente su tutte le scene del crimine.”
“Qualcuno come te, Sherlock.” gli mormorò John all’orecchio. Il detective deglutì, la gola era diventata improvvisamente disidratata.
“Bene, grazie Holmes, questo ci sarà d’aiuto.” 
Il detective fece un cenno di congedo all’ispettore ed andò via.

*

Il 221B di Baker Street era silenzioso. Sherlock varcò la porta d’ingresso ed un capogiro lo colse. Cercò il sostegno del muro e della mobilia, riuscendo con parecchi sforzi ad arrivare al divano, sul quale si stese con poca grazia.
Poi cominciarono i brividi di freddo. Afferrò la coperta che teneva sulla spalliera e vi ci si avvolse dentro, continuando a tremare. 
Con estrema lentezza riuscì ad alzarsi e a trascinarsi verso il bagno, dove vuotò la boccetta di calmanti e poi strisciò fino al letto.
Con le palpebre pesanti, stanco e spossato, il mondo cominciò ad assumere toni indefiniti e si addormentò.

*

Quando riprese conoscenza era ormai notte fonda e la crisi di astinenza stava tornando.
Doveva combatterla, doveva resistere. Il sudore scendeva dalla tempia solcandogli la linea del collo, le articolazioni bruciavano come se qualcuno lo stesse marchiando a fuoco. 
Si rannicchiò in posizione fetale, digrignando i denti in preda a spasmi sempre più forti.
“Hai visto, Sherlock? C’è la luna piena stanotte.”
“Vattene via, John.”
Il dottore gli si avvicinò, sedendosi sul letto e posandogli la mano sulla spalla. Aveva uno sguardo comprensivo, un sorriso gentile ed incoraggiante, come quelli che soleva rivolgergli quando qualcosa lo turbava.
“Non posso andarmene, Sherlock. Io sono qui.” La sua mano si spostò sul capo in una carezza leggera e delicata.
“Esci dalla mia testa!” gli gridò contro il detective, balzando dall’altra parte del letto, mettendo quanta più distanza poteva tra lui e quell’uomo.
John guardò dapprima con livore la figura rannicchiata ed ansimante contro il muro, ma poi la sua espressione si ammansì, regalandogli un sorriso docile ma al contempo malevolo.
“È una notte troppo bella per litigare, Sherlock. Dovremmo uscire e andare a bere qualcosa, tu ed io. Dovremmo cercare di dare giustizia a quelle ragazze.”
Il detective si appiattì contro la parete, tenendosi il capo tra le mani, oscillando leggermente.
“Esci dalla mia testa, esci dalla mia testa, esci dalla mia testa...” ripeteva come una nenia.
“Avanti, Sherlock, tu non vuoi che io vada via, vero? Non hai intenzione di scacciarmi…per farlo dovresti soltanto estrarti il cervello. E tu ci tieni al tuo cervello, no? È il cuore che ti manca, per questo dobbiamo uscire a cercarne uno.”
“No!” sbottò il detective. “Io ho un cuore, non me ne serve uno nuovo!”
“Ne sei sicuro? E dimmi, signor saputello, dov’era il tuo cuore quando Moriarty mi ha fatto saltare in aria? Tu mi hai lasciato morire pur di risolvere un caso e catturare un criminale. Hai lasciato che il peccato di presunzione vincesse sull’amicizia.”
Le parole velenose scatenarono un flash nella mente di Sherlock che sgranò gli occhi, impietrito. 

Rivide se stesso camminare sul pavimento bianco piastrellato della piscina, con le mani intrecciate dietro la schiena si rigirava tra le dita una pendrive. 
Cominciò una filippica sfrontata, che trasudava scherno e derisione, all’indirizzo di Moriaty. 
Le parole, però, gli morirono in gola alla vista di John e di ciò che traspariva sotto il giaccone che indossava.
E poi il confronto con Moriarty, i suoi discorsi beffardi.
“Ti brucerò il cuore.” Gli aveva ringhiato contro e lui era rimasto impassibile.
“Mi dispiace, ma ho saputo da fonte certa che non ce l’ho.”
“Ma sappiamo entrambi che non è così.” Gli aveva risposto Jim provocatorio.
Con la pistola ancora stretta tra le mani a seguire ogni suo movimento, Sherlock lo vide allontanarsi di qualche passo, un sorriso stampato sul volto. 
E prima che il suo cervello potesse dedurre alcunché, Moriarty premette il detonatore.
La conflagrazione lo fece cadere riverso di schiena qualche metro indietro. Con le orecchie che fischiavano, Sherlock si sollevò e, senza pensare, gridando il nome di John, sparò a sua volta, svuotando il caricatore.
La risata del consulente criminale si spense mentre il suo corpo si accasciava al suolo, privato della vita.
Sherlock si avvicinò a quello che una volta era stato il suo migliore amico, John Watson. Cadde sulle ginocchia accanto al suo corpo devastato, posò le mani sul pavimento, senza sentire veramente la sensazione del caldo viscoso che le avvolgeva. 
Stette lì fino a quando non arrivò suo fratello, con la sola compagnia di lacrime amare che credeva essere incapace di versare, e della sua anima che si lacerava al ritmo in cui le scanalature del pavimento e l’acqua della piscina si riempivano del sangue di John Watson.

“Tu non sei reale, devi andare via, io non posso, non posso...” la voce di Sherlock si ridusse ad un sussurro incrinato.
“Certo che sono reale. Guarda, lo senti il calore delle mie mani sulla tua pelle? Smetti di tremare, Sherlock. Sai cosa devi fare per far passare questo dolore. Devi trovare un cuore e solo così sarai in pace.”
Il detective sollevò gli occhi, incrociando quelli benevoli del suo amico.
“Solo così...” mormorò.
“Solo così.” Ripeté John.
Sherlock si alzò e cominciò a raccogliere il necessario. Aprì il comodino, prese la dose ed una siringa. Recuperò il cucchiaio e, con l’aiuto di un accendino, sciolse il contenuto della bustina mischiandolo a dell’acqua distillata. Strinse il laccio emostatico attorno al braccio con i denti, aprì e chiuse la mano per far aumentare la pressione del sangue. 
Si sentiva un cacciatore d’oro all’inferno, alla ricerca della vena fortunata. 
Quando ci fu riuscito, iniettò la sostanza e si rilassò contro la parete del muro.
Il suo tormento fu spazzato via da un’ondata di euforia alla quale non poteva resistere. 
“Va meglio, non è vero?”
“Sì, John.” Esalò con l’ombra di un sorriso che gli incurvava le labbra.
“Vieni, adesso andiamo a cercarti un cuore nuovo.”
Sherlock afferrò la mano di Watson e sparì nel cuore della notte londinese.

*

La ragazza non oppose resistenza, fu facile per lui convincerla a seguirlo. 
Ora, con le mani ferme e decise, i guanti e la sua lama, era pronto per il passo finale. 
John lo osservava, compiaciuto.
Il coltello affondò nella carne come se fosse stata di burro, il sangue cominciò a scorrere scivolando nei solchi della grata sotto di lui. 
Una volta che la sua operazione fu completa, prese un barattolo che aveva precedentemente riempito con della formaldeide e vi pose con estrema attenzione il cuore all’interno, maneggiandolo con la stessa delicatezza e reverenza riservata ad oggetti di inestimabile valore.
Lo vide galleggiare per poi fermarsi al centro del recipiente.
“Come ti senti?” gli chiese John, seduto a terra, in un angolo di quella casa isolata.
Sherlock rifletté per un istante. L’adrenalina viaggiava veloce nel suo corpo, facendogli vivere un’esperienza molto simile ad un salto dal tetto di un palazzo a braccia spalancate.
“In pace. Credi che questo sia...un peccato, John? Tu hai mai provato niente di simile?”
“Sherlock, io credo che se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di originalità.” Sorrise per poi guardare il trofeo all’interno del contenitore. “Adesso hai un cuore nuovo.”
Sherlock si lasciò andare ad un sospiro di puro sollievo. L’effetto indotto dalla droga stava svanendo e presto i demoni sarebbero tornati a tormentarlo. L’avrebbero trascinato lontano dalla luce della coscienza del reale e scaraventato in un pozzo di profonde, inconoscibili tenebre.
L’oblio lo stava chiamano e lui era ben felice di rispondergli.
Con palpebre pesanti e libero dai sensi di colpa, lo accolse con piacere.

*

La notizia dell’arresto di Sherlock Holmes ebbe un’eco di rilevanza internazionale. L’ispettore Lestrade venne radiato dalla polizia, la sua testa fu la prima a saltare perché aveva permesso ad un serial killer di occuparsi di indagini ufficiali. 
Al suo posto subentrò il sergente Sally Donovan che, appoggiata dal capo della scientifica Anderson, aveva da sempre sostenuto l’implicazione del ‘geniaccio’ nei delitti.
Chi, meglio di Holmes, corrispondeva al profilo?

La notte dell’arresto il detective, ormai sull’orlo del collasso, venne trovato riverso sul pavimento di casa sua, una siringa stretta nella mano, in overdose da eroina.
Durante il processo la corte stabilì che fosse ricoverato in un ospedale psichiatrico criminale.
Il suo psichiatra, dopo una serie di sedute, diagnosticò che il paziente Sherlock Holmes era affetto da un disturbo raro, noto come sindrome di Cotard. Questa, aggiunta al trauma di aver assistito alla morte del suo amico, il medico John Watson, era stata il fattore scatenante della follia omicida.
Con il passare del tempo, questi elementi erano sfociati in allucinazioni che avevano assunto le fattezze di John Watson. 
La sua personalità deformata, dominante, aveva cominciato a prendere il sopravvento nella mente di Sherlock, arrivando a creare un vero e proprio sdoppiamento. 
John, infatti, negò di aver commesso gli omicidi, imputandoli a quella che era diventata la personalità remissiva, ossia Holmes.
Divorato dai sensi di colpa per non essere riuscito a salvare il suo amico, Sherlock aveva cominciato ad abusare di droghe che avevano acutizzato il suo disturbo dissociativo dell’identità e la sua sindrome di Cotard, facendogli credere che non avesse un cuore.
E per Sherlock, additato più volte di essere una macchina fredda e senza sentimenti, il sentirsi dire da John di non avere un cuore, era la più terribile delle accuse.
Perché lui era morto e solo un cuore poteva riportarlo alla vita.

Note

-    La descrizione del profilo dell’assassino è tratta dall’episodio 1x01 di Criminal Minds.
-    Il dialogo flashback Sherlock - Moriarty è tratto dall’episodio 1x03 della serie.
-    “Se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di originalità” cit. di Khalil Gibran.
-    La sindrome di Cotard conosciuta come Sindrome Walking Corpse o del cadavere che cammina, è una rara patologia psichiatrica caratterizzata dalla presenza del cosiddetto delirio di negazione, che spinge chi ne è colpito a convincersi di aver perso alcuni dei propri organi e di essere morti. Cotard definì che tale sindrome è accompagnata da sentimenti di colpevolezza, intenzioni e ideazioni suicidarie. Nonostante egli, nei suoi lavori scientifici, ritenga che il delirio di negazione esprima un disturbo depressivo, è pur sempre vero che la sindrome che da lui prende il nome, è stata osservata anche nel corso di disturbi psicotici, disturbi bipolari e in altre condizioni organiche, come traumi cranici, sclerosi multipla, tumori cerebrali, lesioni cerebrali causate da sostanze stupefacenti.

***
Salve!
Non datemi mai una settimana pesante, un vecchio episodio di Hannibal e la notizia che Benedict Cumberbatch si sposa che il mio cervello parte per la tangente, partorendo mostruose e angstiose (?) e psicologicamente folli one shot.
Scherzi a parte, avevo scritto questa…cosa per partecipare ad un contest, ma avendo il cervello nocciolina ho dimenticato la data di scadenza per iscrivermi e quindi tanti saluti al secchio. Così l’ho lasciata a fare la muffa nel pc e solo oggi mi è venuta la brillantissima idea di revisionarla e pubblicarla.
La sindrome di Cotard, come dicevo poche righe sopra, mi è stata ispirata dall’episodio 1x12 della serie Hannibal.
Chi mi segue sa del mio amore morboso per il cannibale e il consulente detective <3 (che questa volta è di un OOC allucinante ma ehi, ha parecchi problemi alla sua deliziosa testolina riccioluta)
Detto questo vi lascio alle sentenze, spero sia stata una lettura piacevole.
See ya dearies and thank you for reading!
  
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