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Autore: VexDominil    10/11/2014    0 recensioni
Una scelta è sempre una scelta. Anche se presa per le decisioni sbagliate.
Genere: Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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I'm sorry, lover... You're sorry; I bring you down
Well, these days I try and these days I tend to lie
Kinda thought I was a mystery and then I thought I wasn't meant to be
You said yourself fantastically, "Congratulations you were all alone"
Imagine Dragons, Amsterdam




Temi si guardò intorno, un po' spaesata.

Quel bar era abbastanza accogliente e pulito, ma non aveva pretese di lusso.

Era da famiglie e ragazzi che saltavano la scuola.

Ecco, lei non l'aveva mai fatto ma una solida ossessione per i filmetti americani sulle highschool coltivata quand'era adolescente le aveva insegnato tutto quello che c'era da sapere su certe cose.

Si era seduta a un tavolo e stava aspettando che qualcuno venisse a prendere la sua ordinazione, ma era parecchio nervosa e tamburellava le dita sul tavolo, mentre si domandava perché era venuta lì.

Ma la risposta era fin troppo lapalissiana.

Lei era lì perché non si sentiva più viva da qualche settimana a questa parte.

Da quando era tornata dalla sua "pausa" aveva ripreso la sua vita di sempre, andava all'ospedale, si preoccupava, sorrideva e chiacchierava.

Non provava nulla però.

Era come essere a una mascherata perenne.

Era semplicemente vuota e a temperatura ambiente, non si smuoveva per nulla.

Quando entrava in casa con le luci spente e nessuno ad salutarla, mentre stava all'ingresso, ferma immobile, con la porta chiusa, sentiva con chiarezza di poter scomparire nell'oscurità, di sciogliersi in pulviscolo trasparente.

Certo, la sua famiglia e i suoi amici la adoravano, ma quel pensiero era una boccata d'ossigeno, un potere permettersi di considerarsi poco o nulla.

Tic tic tic, risuonavano armoniose le sue corte unghie sul tavolo di plastica dura.

La gente intorno a lei era occupata nelle sue faccende, guardava, parlava, rideva o stava semplicemente in silenzio, a pensare.

Mai così atteso e mai così temuto, il saluto giunse alle sue orecchie e lei, piena di trepidazione, sollevò gli occhi verso l'uomo che era di fronte a lei.

"Buongiorno, Temi."

"Buongiorno, signor Raza."

 

La signora Sisu una volta si chiamava Mieluisa, un solido nome finlandese.

Uno di quei bei appellativi tradizionali, portati da quasi ogni generazione precedente fino all'inizio dei secoli dei secoli, uno di quelli che durano, non quelli strani, stranieri, stravaganti, nulla a che vedere con "Luna", "Marzio" o chissà cos'altro.

I suoi genitori erano dei tradizionalisti e non volevano essere additati dai conoscenti del loro quartiere, anche se poi la donna lo sarebbe stato da tutti gli altri.

Luisa era normalissimo, tutti nella vita conoscono una Luisa, più o meno declinata, ma era quel "Mie" che si attaccava alla gola, la rendeva appiccicosa e faceva inceppare la lingua.

Una volta aveva avuto una mezza idea di iniziare a segnarsi tutte le volte in cui le persone sbagliavano a pronunciare il suo nome.

Ma ci aveva rinunciato, era solo un capriccio senza costrutto.

Mielosa.

Sua sorella, Onerva, giudicata da lei ancora più sfortunata, lo aveva detto prima con tenerezza da sorella maggiore poi con rabbia di adolescente ribelle, ma per tutti gli altri era solo un modo per prendersi gioco di lei.

Aveva iniziato a odiare quella sottospecie di suffisso che continuava a differenziarla dagli altri, che continuava a ricordarle che a casa avrebbe parlato finlandese senza pausa o che al mattino avrebbe mangiato zuppa d'avena.

Così si era rintanata sempre di più nella sua comunità, dove nessuno avrebbe potuto giudicarla, visto che c'erano dei casi peggiori, e si faceva chiamare semplicemente Luisa dalle amiche o dagli sconosciuti.

Sua sorella non la capiva, per lei era un mistero perché dovesse vergognarsi così tanto per qualcosa di così stupido,a parer suo.

"Ma Nerkki, è osceno! Mi sembra di essere una fabbrica di miele! E poi Luisa è carino. I ragazzi preferiscono uscire con una chiamata così piuttosto che con Mieluisa! Io voglio almeno un appuntamento, nella mia vita."

L'altra l'aveva guardata sbuffando e alzando gli occhi al cielo.

"Non te ne deve fregare di cosa preferiscono i maschi, Mielli. O la gente in generale, se preferisci. E' stupido pensare di poter sempre accontentar gli altri in tutto. Fa' quel che senti e non sentirti male per uno schifo di nome, nemmeno avessi ucciso qualcuno."

Tutte le conversazione tra loro due si erano svolte in questo modo, quando Mieluisa era ancora una bambina e la sorella una preadolescente non ancora incattivita dal rapporto con la madre.

Oh sì, Onerva ci aveva provato in tutti i modi a farle vedere al di là di tutto e a pensare con la propria testa, ma l'educazione rigida e la voglia insaziabile di farsi accettare avevano rovinato quella donna per tutta la vita.

Si sedeva composta, parlava con gli adulti solo se interrogata, non indicava mai nessuno, era vestita da sua madre e si preoccupava sempre del suo comportamento.

Suo padre era completamente inerme davanti alla moglie che gestiva perfettamente sia la casa che la "bottega".

Era da lei che tutti andavano, era lei che reggeva il gioco, che incontrava il loro capo o che tramava con gli altri piccoli sottoposti.

Fu lei a togliere di mezzo il loro protettore per mettere al suo posto i Busco.

Lei era nata a Egris, quando i suoi genitori si erano da poco trasferiti dalla Finlandia e lei stessa, oltre che la vecchiaia, ci aveva passato buona parte della sua vita.

Per questo motivo suo padre diceva sempre che lei profumava di neve e sua sorella sputava tra i denti che era una strega del ghiaccio.

Per sua madre era un dover riprenderla in ogni istante, farla diventare una perfetta donna della malavita in ogni suo istante.

Ogni millimetro contava, ogni minuscola piega, ogni sbadiglio scappato per sbaglio era un affronto intollerabile.

Con Onerva non era così, ma perché non la riteneva adatta, troppo selvatica e intollerante.

Quindi passavano il loro tempo a gridarsi contro, a bisbigliare frecciatine, mentre Luisa e il padre osservava con il timore dei gatti per i fuochi d'artificio.

A volte Mieluisa pensava che fosse tutta colpa dei loro nomi.

"Onerva" significava "il fieno cresciuto dopo il raccolto" e la sorella era proprio così: indomita, ribelle, senza utilità, per la madre, almeno. In realtà era stata chiamata così perché era nata dopo un aborto spontaneo della madre ed era il simbolo che qualcosa di buono finalmente era giunto.

Finché l'aveva ascoltata, Nerkki era stata la sua infermiera, quella che l'aiutava a leccarsi le ferite, poi si erano accorte di essere di vedute troppo divergenti per andare d'accordo ancora.

Mieluisa, invece, era la "fortuna" di sua madre.

Benché continuasse a considerarla non abbastanza, era l'unica tra le sue due figlie ad assomigliare pallidamente.

Quando finalmente era diventata adolescente, Luisa aveva avuto il permesso di interloquire liberamente e, non essendo abituata, aveva cercato di supplire alle sue mancanze, perché non trovava nessun argomento degno di nota, parlando a ruota libera fino allo sfinimento.

Le mancava la sicurezza di sé per potersi permettere un secondo in silenzio, tutti i suoi conoscenti la terrorizzavano, desiderava ardentemente conoscere il loro giudizio su di lei.

Poi, a una festa degli amici dei suoi genitori, aveva conosciuto il signor Sisu.

Era più piccolo di lei di qualche anno, ma la sua presenza silenziosa e i suoi commenti sarcastici la stupivano.

Lei non si era mai comportata in quel modo, era solare e ciarliera all'eccesso.

L'aveva guardato con gli occhi spalancati, mentre la sorella le dava una gomitata dietro l'altra sbuffando.

"Ma smettila, sei ridicola! Sembri che non hai mai visto un ragazzo in vita tua!"

"Ma Nerkki..."

"Ma me niente! Non ti fidare di quello lì, Mielli, è una serpe travestita. E' tanto tranquillo ma vedi come osserva e prende nota di tutto? Poi è un malavitoso, brutta specie quella."

"Ma Onerva! Anche noi siamo di quello stampo! La mamma secondo te cosa fa?"

La sorella le aveva preso le spalle e l'aveva guardata dritta negli occhi.

Luisa aveva tremato un po', mentre il naso le fremeva come quello di un coniglietto davanti al cacciatore.

"Apri le orecchie. Tutto quello che vedi è polvere e specchi illuminati dal sole. Nulla è reale o importante, ma devi guardare bene, perché so che ti piacciono le cose luccicanti.

La strega di ghiaccio non è affar mio, ma di certo io non sono del ramo e nemmeno tu.

Rapini? Ricicli denaro? Non mi sembra.

Devi definire ora chi sei, se no sarà troppo tardi.

Credimi, Mielli."

Ma lei non l'aveva sentita, aveva guardato oltre le sue spalle, verso Sisu, e si era persa ogni lettera.

Onerva l'aveva capito e l'aveva scostata in malo modo, sprezzante.

Era stata in compagnia di lui per mesi, insieme ad altri, senza quasi mai dire nulla, ammirata.

Alla fine lui le aveva chiesto di uscire e l'aveva portata a fare un picnic e lei aveva annuita silenziosamente.

Una volta sul prato, aperto il cestino, aveva aperto la bocca, per abitudine e paura, e l'aveva investito di parole.

Lui l'aveva ascoltata come se non avesse mai sentito suono umano, aveva contribuito con un paio di suoni inarticolati interessati, le aveva versato l'acqua nel bicchiere quando aveva sete, aveva sparecchiato e aveva tenuto lui il cestino mentre la riaccompagnava a casa mano nella mano.

Quando gli aveva dato l'ultima occhiata prima di chiudere la porta e lui era fermo lì dal cancello, sorridente mentre la salutava con la mano, aveva capito di essersene innamorata.

Purtroppo non erano mai andati più in là.

Finito l'idillio, la sensazione meravigliosa di un migliaio di bollicine nel petto, si erano ritrovati sposati, con due figli.

Hillar era stato l'orgoglio di suo padre finché non era sopraggiunta Norge.

Quella bimbetta era identica a lui, tranne per la superbia infinita che l'ammantava come un'aura impalpabile.

Lei aveva cercato di amarla, ma quando vedeva il bambino messo da parte o rifiutato in favore della sorella, le montava dentro una gran rabbia verso il marito e la figlia.

Li odiava quando li vedeva persi tra loro, senza considerazione per altro.

Li odiava quando vedeva il sorriso della ragazzina mentre il padre rimproverava Hillar perché non aveva dei bei voti come i suoi.

Li odiava quando vedeva nei loro sguardi la compassione per lei, per la povera donna senza ambizioni, volgare e stupida.

Quindi era diventata la sua missione coprire d'amore il figlio, incoraggiarlo e proteggerlo, e lui l'aveva fatta sentire utile e amorevole.

Poi, alla fine, lui era diventato un idiota, cosa che aveva sempre cercato di evitare, avido e senza cuore, come il padre.

Non voleva iniziare a odiare anche lui, non l'avrebbe sopportato.

Era l'unica persona cara al suo cuore che ancora le restava.

La sua vita aveva smesso di avere una direzione spirale discendente e ora seguiva una linea retta verso l'inferno più gelido.

Le ossa le si congelavano già solo al pensiero, ma ormai era tranquilla, aveva coscienza di quel che avrebbe dovuto fare e l'avrebbe fatto, senza sbavature, come avrebbe voluto sua madre.

Suo sorella aveva avuto ragione e non sapeva nemmeno dove fosse, per andare a congratularsi con lei perché era stata sempre quella più intelligente.

 

Hillar stava guardando i conti e si stava insospettendo: come mai ora guadagnavano molto di più?

Non sarebbe dovuto accadere, avendo sempre lo stesso territorio e pagando Busco come al solito.

Era da qualche tempo che le somme crescevano, ma l'inizio era stato così lento che a malapena se n'era accorto.

Doveva chiedere spiegazioni a qualcuno e aveva interpellato suo padre che, acido come non mai, aveva giurato di non averci nulla a che fare.

Dopo ciò, l'aveva mandato da sua sorella, visto che era lei il capo, ora.

Quel "lei" era stato calcato con odio e rancore, strano, se n'era accorto anche il figlio, ma pensava che Norge si fosse azzuffata con Saverio come sempre.

Magari l'avesse fatto.

"Che coosa?! Sei impazzita? Perché? Dimmelo!"

Hillar l'aveva sbattuta contro un muro e le teneva ferme le spalle, furioso e paonazzo.

"Ma cosa vuoi?! Guadagniamo un mucchio di soldi E siamo liberi dai Busco, per una buona volta!"

Lei gli aveva ringhiato contro, scoprendo i denti minacciosa.

"Ti sei montata il cervello, finiremo male! E tu, tu sei anche il suo braccio destro! Credi sul serio che ti permetterà di essere indipendente e di avere la stessa posizione? Guardaci, Norge, siamo pesci piccoli, ce la siamo sempre cavata bene così!"

Non la capiva proprio, cosa pensava di fare?

"Non basta, dobbiamo puntare più in alto, finché c'è questa possibilità. E Busco lo tengo in palmo di mano, non preoccuparti."

Tutte le possibilità di catastrofe gli apparvero davanti agli occhi, spaventandolo troppo.

Riusciva a vedere chiaramente come sarebbe finita e non aveva voglia di non vedere più chi amava, ne era terrorizzato.

Non avrebbe mai potuto fare o dire quel che voleva, se la sorella avesse continuato in quel modo.

Si allontanò da lei, rabbioso.

"Non osare trattarmi con condiscendenza, cazzo! Tu non sai gestire Busco, ci inchioderà al muro e moriremo, sei diventata troppo bramosa, non ti riconosco più! Come pensi di cavartela, scusa?

Non mollerà mai una parte degli introiti, mai!

E voglio sapere una cosa: perché vuoi di più? Non sei contenta di quel che hai? Del tuo lavoro da infermiera per cui hai lottato così tanto?"

Norge lo scrutò, quasi con la bava alla bocca, e si rese conto che il fratello non si sarebbe calmato, questa volta no.

Sapeva che lui amava la sicurezza, la tranquillità della vita in alcuni casi, ma c'era qualcosa d'altro che gli premeva, lo si poteva intuire.

Forse gliela voleva solo far pagare, forse aveva paura delle conseguenze.

Ma era troppo forte, troppo radicato perché una sana litigata lo tranquillizzasse.

"Non è per i soldi, è il potere ciò che voglio. Non ti senti stanco di essere sempre guardato dall'alto in basso da tutti? Di essere disprezzato da gente come Saverio, cazzo!,? Lui, che non ha nulla di suo ed è solo un cagnolino pure stupido?

Se sono tornata è per fare un buon lavoro, per ascendere ai posti migliori, per il guadagno, se vuoi.

Ma non è la cosa più importante. No, non lo è.

Comunque, il capo ora sono io.

Raza ha dato il suo permesso, il giro delle prostitute è mio.

E Busco non può fare nulla."

Hillar boccheggiò.

"Prostitute? Sei impazzita! Tu sfrutti quelle povere ragazze che..."

Norge lo interruppe, era troppo nervosa per sentire ancora altre baggianate.

"Non le sto sfruttando, anzi. Sto modificando completamente il settore. Non ci sono più papponi, ho rimandato a casa e ricompensato le ragazze venite qui con l'inganno, ho offerto un altro lavoro a chi lo desiderasse, ho cambiato del tutto l'ambiente, ho fissato un salario minimo e una mini tassa che ci devono pagare ogni mese, tutto quello che guadagnano è loro.

E' migliorato tanto e non mi sarei mai aspettata di sentirmi dare della lenone da mio fratello!

Credi sul serio che io avrei potuto fare qualcosa del genere?

Io provo pena per quelle ragazze e sarei contentissima se da un giorno all'altro sparisse la prostituzione dalla faccia della Terra, ma c'è e, almeno a Egris, voglio che sia qualcosa di decente, qualcosa di cui non vergognarsi."

L'aveva guardato storto e se n'era andata, stizzita.

Hillar si era asciugato le lacrime scaturite dalla tensione e si era sentito furioso con lei.

Non lo considerava minimamente nel loro business, era solo buono come contabile.

Strinse i pugni e decise che le avrebbe fatto cambiare idea, eccome.

Capitolo dopo

A Norge a volte veniva voglia di fermarsi un attimo e cercare di afferrare quella sensazione che le pizzicava lo stomaco come se fosse punzecchiato da una matita.

Una matita molto affilata, con una punta micidiale.

Non sapeva bene se fosse per lo sguardo al vetriolo che le rivolgeva sempre suo fratello o per il ringhio sottile di suo padre o per l'aria profondamente abbattuta del medico.

Ma non aveva né il tempo né la testa per indagare. Se per questo, nemmeno la voglia.

Era scortata ovunque dalle squadriglie di pensieri e di piani riguardanti la malavita e pretendevano tutta la sua attenzione, così andava avanti e ignorava ogni altra cosa.

Non poteva permettersi di essere distratta in quel momento, Saverio le stava con il fiato sul collo e assomigliava sempre di più a un cane rabbioso.

Se fosse stata un attimo più tranquilla e senza preoccupazioni, avrebbe potuto pensare di baciarlo, solo per destabilizzarlo e farsi due risate a sue spese.

Aveva una mente maligna, non poteva farci nulla.

Ma l'idea la disgustava e non aveva voglia di attuarla.

Il male che stava compiendo era abbastanza per il momento, senza aggiungere legna alle stupide scaramucce che avevano in continuazione.

Stava diventando rancore puro, di quelli che si liberano all'improvviso con una bella sparatoria, e lei, indubbiamente, era preoccupata.

Non voleva di certo renderselo nemico a tal punto, ma non era più una faccenda da un ringhio e una vendetta infantile: lo vedeva dai suoi occhi arrossati, voleva toglierla di mezzo.

Si stava frenando solo perché non era il momento giusto e l'omicidio sarebbe stato troppo facilmente imputabile a lui, ma il vento stava cambiando, grazie alla decisione di Norge di essere indipendente.

Busco non l'avrebbe più protetta, anzi, forse avrebbe pure commissionato la sua morte, se non l'avesse fatto qualcun altro.

La fronte dell'infermiera formò tante piccole pieghe morbide, mentre gli occhi venivano chiusi con forza.

Si sentiva circondata, aveva offerto il collo a troppa gente consapevolmente, però ora le sembrava di aver osato troppo, di essere insuperbita.

"Forse hanno ragione Ruotsi e mio padre. Sto volando troppo in alto, ho un'enorme possibilità di non farcela e di essere sommersa dall'ananke con tutti i miei cari."

L'ananke, la vendetta divina che colpiva tutti gli eroi delle tragedie greche.

Era seriamente ansiosa e ricontrollava ogni secondo tutte le sue mosse, passate e future, cercando punti deboli. Purtroppo nulla di questo le portava pace.

Sapeva di aver compiuto un gesto folle, ma era stato talmente grandioso che non aveva concepito l'idea di poter fallire.

Ora, invece, le si era acquattata in fondo allo stomaco e le sembrava di essere incinta di un malefico essere, che le strappava via le energie vitali.

Era spaventata, non l'avrebbe mai ammesso, e non aveva nessuno a cui affidarsi, nessuno con cui passare un po' di tempo senza doversi guardare le spalle o parlare di lavoro.

Aveva dovuto allontanare anche Temi, non se la sentiva di metterla ancora in pericolo.

Era questo il suo compito come amica, proteggere e servire chi l'avesse meritato, e la specializzanda era in una posizione troppo delicata per poterle confidare le sue angosce.

In più, che cosa avrebbe potuto fare per rimediare?

Assolutamente nulla, lo sapeva benissimo. E egoisticamente sperava sempre che fosse il contrario.

Doveva così resistere costantemente alla sensazione di rannicchiarsi da qualche parte o di abbracciare qualcuno in lacrime, borbottando parole incomprensibili su tutto.

Al momento, però, doveva limitarsi a sentire la sabbia volteggiare nel suo petto e a reprimere l'infelicità situata tra il naso e gli occhi.

Era sola, lo sapeva.

Come una lacrima su una statua di marmo.

E doveva resistere all'impulso di dire a tutti di essersi sbagliata perché aveva lottato, aveva sofferto e aveva ferito talmente tanto che il suo orgoglio si rifiutava di considerare questa eventualità.

Non poteva essersi sbagliata, la strada era quella giusta, nessuno se ne accorgeva a parte lei a colpa della sua mente ristretta e stupida. Le cose erano così, sul serio.

Era come uno strappo all'altezza dell'ombelico tutta quella pressione e tristezza, ma non poteva fare altrimenti, semplicemente.

 

Ebneye era divertito.

Di solito lo era in modo maligno e anche questa volta era così.

Nulla gli dava più soddisfazione di sorprendere la malavita e di farsi odiare ancora di più.

Tanto, tra poco li avrebbe lasciati a se stessi!

E allora sì che sarebbe stato uno spettacolo da vedere, altroché.

Purtroppo lui non ci sarebbe stato, ma l'immagine nella sua mente lo appagava comunque.

L'incontro con Temi gli aveva dato nuovo sangue, sentiva la sua curiosità di nuovo viva e pronta, sapeva anche senza vedere di avere degli occhi scintillanti e la sua ironia era ancora più irritante per quei malavitosi che lo incontravano.

Dio, se lo odiavano. Lui lo sapeva ovviamente.

Ma quel sentimento era così intenso che poteva assaporarlo sulla lingua e si poteva dire che ne fosse ormai succube.

Temi era stata davvero carina, con quelle orecchie rosse, imbarazzata e timida, ma con una forza di fondo che lo convinceva sempre di più della sua scelta.

Certo, credeva che sarebbe stato arduo vederla venire a un piccolo abboccamento con lui mediante un piccolo biglietto nella giacca, invece si era dovuto ricredere: sembrava quasi che lei lo desiderasse intensamente, tamburellava le dita sul piano del tavolo, si muoveva in continuazione, lo ascoltava interessata e non era impaurita.

No, non lo era più.

Non da lui, almeno.

Lei non si era preoccupata del possibile veleno nel cappuccino che la cameriera le aveva portato o forse non ci aveva nemmeno pensato, che potesse volerla morta.

Effettivamente aveva ragione, ma si vedeva che non era del giro, affatto: Norge aveva tenuto in mano la sua tazza di tè per anni prima di rimetterla nel piattino, senza averne bevuto nemmeno un sorso.

Di certo aveva temuto di essere avvelenata, faceva parte della malavita da molti anni e non era di certo nuova a questi trucchetti.

Temi sembrava essere troppo fiduciosa nei suoi confronti, rispetto a quel che avrebbe dovuto provare per lui: in fondo l'aveva scaraventata in mezzo ai malavitosi, l'aveva costretta a lasciare la sua casa e a mentire a tutti.

Eppure sapeva che lei non lo stava tradendo, che non aveva detto nulla della loro conversazione.

Forse aveva alimentato così tanto la sua rabbia contro il sua aggressore che non vedeva l'ora di trovarlo?

Se fosse stato effettivamente così sarebbe stato d'intralcio al suo piano.

Non poteva essere una sanguinaria, no.

L'aveva scelta perché era diversa da quelli che lo circondavano, perché l'avrebbe trasformata in una bomba ad orologeria suo malgrado, non perché sarebbe diventata una giustiziera.

Doveva accertarsene, prima di parlare di cose serie.

"Allora, come sta andando la specializzazione?"

"Sono quasi alla fine, mi manca solo un test e il giudizio dei medici."

"Ti sentirai eccitata, si sta compiendo il tuo sogno."

Lei storse il naso e la bocca, rispondendo dopo qualche secondo.

Doveva mentire? Ma non avrebbe avuto senso farlo.

"Non proprio. So che amo questo lavoro ma non mi sento felice di diventare medico. Sono piuttosto fredda e non capisco il perché. Forse è meno stravagante di quel che ho passato nell'ultimo periodo."

Era una sottile recriminazione?

Raza sorrise. Ci stava che fosse diventata un po' più intraprendente.

"Sono certo che cambierai idea. Alla lunga è stancante e deludente, la vita che hai assaggiato ti avvolge nelle sue spire e ti trascina giù come un serpente marino. Di certo le sue squame luccicano di mille colori e abbagliano, ma le sue zanne si chiudono su chiunque osi stargli vicino per troppo tempo."

La ragazza annuì e alzò le sopracciglia velocemente, quasi ad accettare l'ineluttabilità di quella frase.

"Ho bisogno che tu sia consapevole di questo, ho bisogno che tu abbia la capacità di difenderti, e non sto intendendo la pistola che ti ha regalato Sisu Junior, e ho bisogno che tu sia preparata a quel che accadrà.

Devi esserlo mentalmente e ti aiuterà anche nel tuo lavoro da medico."

Lei si stava guardando le mani e mordendo il mano, cercando di concentrarsi bene su quel che davvero Raza voleva dirle.

"Quindi... Cosa vorrebbe che io facessi?"

Era titubante, il patto era ancora valido e di certo l'altro stava esigendo il suo pagamento in anticipo.

Non era sicura di voler arrivare al suo aggressore, ma si era sentita così vuota nelle settimane passate, in una specie di trappola di vetro mentre le persone le passavano davanti.

Lei amava la tranquillità, ma non voleva essere distaccata del tutto dal mondo, come un satellite perso nello spazio infinito, come accadeva in quel periodo.

Il tempo passato con Hillar era stato esaltante, anche in quei momenti del tutto normali e calmi, e la routine l'opprimeva senza tregua, sognava inseguimenti, rumori forti e risate.

Non trovava nulla di divertente e il meglio che riusciva a produrre era una risatina acida raffazzonata e stantia.

Per questo motivo, quando aveva ricevuto il bigliettino di Raza, era scattata subito in piedi, eccitata e tremante, pronta a scattare ovunque avesse ordinato l'uomo.

Si era un po' stupita della scelta del luogo, un semplice bar, poi della conversazione: era poco più di qualche frase convenzionale.

L'altro sembrava piuttosto tranquillo, quindi non c'era nulla da temere nemmeno per lei, giusto?

Solo in quel momento le implicazioni di quell'incontro le divennero chiare: se la malavita li avesse scoperti ancora insieme, non sarebbe più bastata la scusa della casualità, non avrebbero avuto pietà di lei.

Hillar e Norge l'avrebbero odiata, perché era una bugiarda e una traditrice.

Per la consapevolezza si portò una mano alla bocca e strinse forte gli occhi: come poteva essere stata così stupida?

"Sai che al sicuro qui, vero? Sono tutti occupati in una riunione, devi ringraziare Norge per questo, e gli avventori sono tutti attori stipendiati da me. Nessuno può spiarci o riconoscerti. Tranquilla."

Le orecchie di Temi continuarono a tremare impercettibilmente, ma almeno il rossore scomparve.

"Ti sto cercando di rassicurare, perché quel che verrà fra poco sarà tremendo e tu sarai in grossi pericoli."

La sua voce era levigata e gelida, Temi lo fissò a lungo, in crisi, senza dire una parola, tutta la sua sicurezza e temerarietà scomparsa.

 

Hillar era furioso con sua sorella, sapeva che li stava mettendo tutti in pericolo ma era troppo cocciuta e testarda, interessata solamente al proprio tornaconto, per capire la portata delle sue decisioni.

Ma non era solo questo, gli rodeva che lei lo avesse escluso del tutto dalla gestione dell'azienda, relegandolo al suo compito come il più misero dei dipendenti: sapeva di valere poco agli occhi di Norge e di suo padre, ma sentirselo sbattere in faccia lo aveva ferito in profondità.

Non c'era nessuno che potesse contestare l'affermazione di sua sorella, nessuno oltre se stesso, ormai.

Ma anche il suo orgoglio, la sua autostima vacillavano, non poteva negare quel che sembrava essere l'opinione del mondo intero, interstardendosi contro tutti.

Non credeva di avere vicino qualcuno sincero e comunque consolatore nei suoi confronti, qualcuno con cui parlare liberamente e sentirsi sicuro.

Norge non si era mai preoccupata molto di lui, troppo impegnata a essere egocentrica e fiera di sé, inoltre non le avrebbe chiesto in nessun universo conosciuto una mano, piuttosto se la sarebbe tagliata.

Sua madre era fragile, camminava sul filo del rasoio da anni, così cercava sempre di essere il figlio adorato, intelligente, spiritoso, che flirtava lievemente con lei, ma a volte aveva solo voglia di urlarle contro di smetterla di continuare a mantenere la sua doppia facciata, di essere così infelice e amara, perché non era umanamente sopportabile l'aura opprimente che possedeva.

Ma non poteva, non ne aveva il cuore.

Era un malavitoso, aveva fatto cose turpi, però con sua madre non si poteva permettere di essere meno che un essere umano perfetto.

Era la sua ricompensa dalla vita, lo sapeva.

Come Norge un tempo lo era stata di suo padre, che ormai si era chiuso nel suo studio e continuava a telefonare a tutti i suoi vecchi amici, per scoprire che, sorpresa sorpresa, la figlia veniva preferita a lui da tutti.

Ne ammiravano l'intraprendenza e il coraggio, la stavano già temendo e ne tessevano le insidiose lodi.

Aveva su di sé lo sguardo di tutti, il suo nome riempiva le bocche e rotolava sulle lingue di chiunque fosse un po' informato sui fatti.

Norge, Norge, Norge...

Un nome così particolare, da odiare subito, da invidiare di nascosto per la sua originalità, da sospettare, perché di certo la persona a cui apparteneva nascondeva infidi crepacci di ghiaccio in cui morire in solitudine, senza nemmeno il vento nelle orecchie ad accompagnare il trapasso.

Norge.

Una bastarda, un condottiero senza esercito, un impietoso essere umano.

Un conquistatore libidinoso, ingordo e con il mondo sulla lingua.

Un colpetto e sarebbe andato perso nella lunghezza bianca della sua gola.

  
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