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Autore: JadesRainbows    11/11/2014    1 recensioni
Sulla strada del ritorno rimpiange con tutto se stesso di aver lasciato il Giappone e qualsiasi cosa egli possa ancora chiamare “casa”, mentre, in contrapposizione, si compiace della brillante vita lavorativa e del cospicuo salario.
Hajime Iwaizumi ha ventuno anni ed è già un valido e affermato uomo d’affari che lavora per una famosa rivista di moda e, come ogni altro cittadino newyorkese, mentre cammina per tornare al suo alloggio, è visibilmente innervosito e stressato a causa della giornata che volge al termine, la quale è stata esattamente uguale a quella precedente, che a sua volta è stata uguale a quella prima ancora.
{ho provato ad essere il più IC possibile, nonostante tutto} {possibili [possibilissime] allusioni OikawaxIwaizumi}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bright blue city lights
 
Oramai, in quegli occhi 
è morta la vetusta luce 
riservata esclusivamente a lui e nessun altro.

E lo ha smarrito negli anni,
in assenza della remota devozione,
non sa più nemmeno chi sia.
Il suo nome accantonato,
recante un viso disgregato fra ricordi evanescenti,
è un fonema privo di forma.
I suoi occhi si inondano
di un volto che lo riporta indietro,
ma che non è più quello che ricorda.


(Tre anni dopo il diploma delle superiori)





Nubi plumbee danno agli alti profili dei grattacieli un’aria ancora più grigia. Le persone scivolano le une contro le altre sui marciapiedi come le fini gocce di pioggia sui tessuti variopinti dei loro ombrelli. Una fitta trama di gente e colori dipinge il grigiore di Manhattan, che nonostante quel formicolio arcobaleno riesce a mantenere la sua seria e severa tristezza.
Hajime Iwaizumi si conforma con il tema incolore del quartiere come ogni altro giovane uomo in carriera, fasciato alla perfezione dal suo completo elegante grigio chiaro, sul quale spicca soltanto la cravatta rossa. A guardarlo con disattenzione sembrerebbe quasi una fotografia scattata con un filtro bianco e nero che mette in risalto solo il color cremisi.
Anch’egli sta scivolando agilmente fra le persone e gli ombrelli umidi, non senza tacite imprecazioni e sospiri spazientiti, esattamente nello stesso modo in cui si è fatto strada nel mondo del lavoro: scaltramente e tenendo a freno la lingua.
Si sta rapidamente facendo strada verso il suo appartamento, come ogni giorno appena finito di lavorare.
E come ogni giorno, sulla strada del ritorno rimpiange con tutto se stesso di aver lasciato il Giappone e qualsiasi cosa egli possa ancora chiamare “casa”, mentre, in contrapposizione, si compiace della brillante vita lavorativa e del cospicuo salario.
Hajime Iwaizumi ha ventuno anni ed è già un valido e affermato uomo d’affari che lavora per una famosa rivista di moda e, come ogni altro cittadino newyorkese, mentre cammina per tornare al suo alloggio, è visibilmente innervosito e stressato a causa della giornata che volge al termine, la quale è stata esattamente uguale a quella precedente, che a sua volta è stata uguale a quella prima ancora. Nella sua vita all’insegna della professionale monotonia è tutto così statico che molto spesso perde il conto dei giorni, a volte perfino dei mesi.
Chiude gli occhi e sospira, nel vano tentativo di rilassarsi sufficientemente per rincasare senza scardinare la porta e magari cucinarsi la cena senza combinare disastri. L’azione dura un secondo soltanto, ma quel lasso di tempo basta a distrarlo a tal punto che quando riapre gli occhi sta già sbattendo contro il petto di qualcuno. La felpa rossa contro la quale preme involontariamente la faccia è liscia, di acetato, morbida e calda e, mentre commette il madornale errore di inspirare con il naso ancora contro di essa, Hajime non sa perché, ma non vorrebbe più staccarvisi; il profumo che emana gli fa venire in mente una parola sola: casa. È questione di centesimi di secondo, che però nella mente di Iwaizumi durano un po’ più del dovuto, distorcendo parzialmente la sua percezione del tempo. Ed egli non si scosterebbe davvero se solo non fosse così imbarazzante annusare la felpa di uno sconosciuto con il quale si è scontrato per caso solo perché questa gli ricorda in qualche modo assurdo tutto il suo vecchio e piccolo mondo nella prefettura di Miyagi. Si sposta comunque molto in fretta, dato che entrambi camminavano velocemente e si sono praticamente scontrati in un frontale, perciò la forza dell’impatto ha sbilanciato il corpo di Hajime all’indietro. Il moro, all’interno della sua mente, sta già recitando da capo a coda tutta la lista d'insulti che conosce, quando si sente cadere, aspettandosi di atterrare in una pozzanghera e di inzuppare il suo completo preferito. Chiude gli occhi, attendendo l’impatto. Continua a pazientare, ma anche se la sua percezione del tempo è lievemente incorretta, è sicuro che siano già passati troppi attimi da quando è cominciata la caduta.
Apre un occhio con esitazione, solo per vedere il polso del suo braccio destro stretto saldamente da cinque dita lunghe e aggraziate. Apre anche l’altro occhio e in quel momento solo Dio sa quanto vorrebbe non averlo mai fatto. Ormai è troppo tardi per non notare il viso che spunta dal colletto alto della felpa.
Un paio di labbra fin troppo familiari gli sorridono, in quel modo che adora e detesta al tempo stesso –ma è sicuro che la parte che lo detesta prevalga sull’altra-.
Se solo l’automatismo del suo organismo nel reagire alla presenza di Tooru Oikawa non l’avesse aiutato, Hajime sarebbe rimasto immobile come un idiota a ciondolare appeso al suo polso. Invece, per fortuna, non ha ancora perso del tutto l’abitudine e si erige con la riacquisita fierezza sulle proprie gambe, stirandosi la giacca con i palmi delle mani.
Nessuno dei due osa dire qualcosa. Oikawa continua a sorridere e Iwaizumi, dopo aver deciso di essere pronto a sostenere il peso di quello sguardo, alza gli occhi sul suo volto. Resta ad osservare quanto sia cambiato e quanto sia rimasto uguale a tre anni fa. Le differenze sostanzialmente sono poche, ma soggettivamente Hajime non se la sente di paragonare quella persona al suo vecchio migliore amico.
Ora la sua altezza supera con abbondanza il metro e novanta. Ci sono due anelli neri distanziati soltanto da un paio di millimetri che gli incorniciano l’estremità sinistra del labbro inferiore. Se lo conosce bene, e di questo ne è sicuro, può azzardarsi a pensare che abbia anche un piercing sulla lingua. Una barra diagonale bianco metallizzato gli attraversa la parte alta dell’orecchio sinistro, tenuta ferma da due palline rosse agli estremi. Il lobo dello stesso orecchio reca un dilatatore di diametro di circa un centimetro, è celeste con al centro disegnato un numero uno di colore bianco. Hajime non ha nemmeno il tempo di spianare ed elaborare ordinatamente nel suo cervello tutti i pensieri che gli guizzano alla mente. Infatti, appena sposta lo sguardo sull’orecchio destro gli sembra che qualcuno gli abbia appena tirato un pugno alla bocca dello stomaco. Rischia di avere un mancamento quando nota il dilatatore bianco della stessa grandezza di quello celeste, questo però con il numero quattro azzurro al centro. Tooru si sofferma per qualche secondo a guardare con malcelata soddisfazione la reazione di Iwaizumi, poi finalmente rompe il silenzio con la sua voce soffice, calda, irritante e quasi seducente, parlando in quella lingua che ad Hajime manca tanto, con quell’accento che non è più abituato a sentire, dicendo la cosa più semplice dell’universo: «Buonasera, Iwa-chan.»
Oikawa esordisce eccedendo con la noncuranza, come se non avesse incastrato nel lobo destro un piercing con sopra riportato il vecchio numero di maglia del suo vecchio asso, il suo vecchio migliore amico. Oltre a sorprendere Hajime, la cosa lo infastidisce terribilmente.
Il moro deve ringraziare di nuovo il sistema di automatismo che ha sviluppato passando cinque sesti della sua vita insieme a quella seccatura vivente.
«Ciao, Culokawa.» eppure non esce come vorrebbe. Non riesce ad essere spontaneo come una volta o come è ora Tooru. Non ha nemmeno parlato nella sua stessa lingua.
Il castano annuisce, come se stesse confermando a sé stesso un’ipotesi non esternata e nel mentre ridacchia, sicuramente per la goffaggine del moro nel ricambiare una cosa semplice come un saluto.
«Ne è passato di tempo.» risponde in inglese, stavolta, anche se la sua pronuncia non riesce a scrollarsi completamente di dosso l’accento giapponese.
Iwaizumi si limita ad annuire con il capo, distogliendo finalmente lo sguardo dall’orecchino e, mentre sta ancora parlando, nota sulla lingua di Oikawa lo sfuggente bagliore di una pallina argentea che riflette le luci azzurrine della città di sera; esattamente come aveva immaginato.
«Hey, sai, temo di essermi perso.» Tooru sorride innocentemente, sprigionando tutta la perfezione che ancora non aveva rivelato, mentre porta una mano dietro la testa e la infila tra i capelli, per poi grattare con leggerezza la cute. Sebbene la sua voce talvolta inciampi sui gruppi consonantici, ciò che dice è comprensibile e abbastanza fluido. Tooru ha sempre parlato bene l’inglese, ma a è causa delle sue parole se Hajime prova un profondo senso di disagio. Sente che è tremendamente sbagliato non parlare la sua lingua madre con l’unica persona che ancora riesce a far viaggiare il suo cuore oltreoceano, per migliaia di kilometri, fino all’unica terra che sente davvero sua.  
Accantonando il disagio e la logorante nostalgia, Hajime prova qualcos’altro. È un sentimento vecchio di tre anni, che credeva si fosse estinto ormai. Colto di sorpresa, egli teme che si innamorerebbe di quel sorriso, se solo non conoscesse così bene il ragazzo che ha davanti. Sa che quando si tratta di Oikawa i sorrisi sinceri sono rari, il castano è soltanto molto bravo a fingere; abbastanza bravo da far sembrare genuino il più falso dei sorrisi. Il moro non vuole cascarci di nuovo e davanti a quella meraviglia è costretto a richiamare a sé tutta la sua forza di volontà.
«Beh, dimmi dove devi andare e posso indicarti la strada.»
Con quel sorriso, Tooru era quasi riuscito a convincere Iwaizumi a invitarlo nel suo appartamento, ma la buona volontà del moro aveva avuto la meglio su tutto il resto e grazie a questa aveva scampato la tragedia a un passo da essa.
Hajime crede di riuscire a cogliere una fugace ombra di delusione sul viso di Oikawa, ma nella sua testa continua a ripetersi che non può essere vero, mentre aspetta risposta dal castano.
«Ah! Credo di aver appena visto un mio compagno di squadra!» esclama, tutto contento, scrutando le teste della gente da un punto più alto rispetto alla maggioranza dei passanti. A quel punto nessuno dei due sa cosa dire. “Arrivederci”? “Addio”? Hajime non è mai stato bravo con queste cose, quindi lascia che sia Oikawa a decidere. Il castano sorride ancora, mentre fa un passo verso di lui.
«Ciao, Iwa-chan.» lo aggira all’ultimo secondo, facendo sfiorare le loro braccia.
«Ciao, Tooru.» mormora il moro, abbastanza piano da essere ignorato, ma sufficientemente forte da essere vagamente udito se l’interlocutore è in attesa di una risposta del genere.
E a quel punto Oikawa, nel suo abbigliamento sui toni del rosso vivo e del bianco, si dissolve con grazia fra le luci bluastre della città, fra l’oceano di sconosciuti incolori, sottraendo quell’appariscente contrasto al campo visivo di Hajime, il quale continua a guardare davanti a sé, gelido come la pioggia che ormai gli sta inzuppando capelli, volto e vestiti, dato che prima il suo ombrello è caduto a terra a causa dello scontro.  
Oikawa si ferma pochi passi dopo aver superato il moro e alza un solo angolo delle labbra, con gli occhi ricoperti da un velo di tristezza.
Cosa pensava di ottenere?
Hajime Iwaizumi, un brillante e sveglio uomo d’affari dal carattere forte e deciso.
Tooru Oikawa, un pallavolista a livelli internazionali, capriccioso e subdolo.
Entrambi sapevano che non poteva succedere nulla.
Ma entrambi avevano sperato.
Nessuno dei due era a conoscenza del fatto che l’altro era rimasto fermo esattamente dov’era, sotto la pioggia che aveva cominciato a cadere scrosciante e più impetuosa di prima, fino a quando Oikawa è stato trascinato via dall’asso della sua nuova squadra, la nazionale giapponese; fino a quando il freddo della pioggia si è insinuato fin sotto la camicia di Iwaizumi e lo ha costretto a completare velocemente il suo tragitto verso il luogo che ancora non ha il coraggio di chiamare “casa”.
A cosa era servito sperare, quindi?

 

"And they won't run, and they won't wait. They're here to stay, they're still the same."






Buongiorno fandom!
No, non lo so cosa sia.
Mi è partita l’ispirazione mentre ascoltavo “King and lionheart” degli Of Monsters and Men ed è uscita questa cosa qui.
E ve la tenete così com’è perché se dovessi rileggerla un’altra volta mi sa che vomiterei per l’esasperazione. Non ho neanche avuto la briga di fare il banner.
Il finale no, non lo capisco nemmeno io. È che con la canzone in sottofondo e io che scrivevo seduta in terrazzo mentre pioveva, il testo è venuto da sé. Per questo non riesco a correggerlo o modificarlo, quindi è quello che è.
Non ho nemmeno commenti da fare per quanto sono scombussolata dalla cosa.
Grazie comunque per la considerazione~
                                                                                                                           
-Lady Blue
  
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