Salve
salvino.
Pronti
per un nuovo capitolo leggero e pieno di allegria?
Ehm…
in realtà, no.
Questo
capitolo, a dir la verità, sarà tutto
fuorché allegro: ci
sarà rabbia, disperazione, litigi ed altre scene abbastanza
“spinte”.
Non
uccidetemi, plis.
Ultima
cosa e poi me ne vado, aspettando che mi lanciate un’intera
cassetta di pomodori addosso: ho intenzione di scrivere due one-shots
[Al più
presto, si spera]
La
prima sarebbe una song-fic su “Adia”, dato che
Avril ha fatto
una cover del meraviglioso brano di Sarah McLachlan, e la seconda
sarebbe una
vera e propria one-shot incentrata su Kevin e su cosa sia successo
quella sera
al locale durante la festa di Matt con Will. [Eheheh]
Che
ne pensate?
Bene,
ora vi lascio [Aspetto sempre i vostri pomodori, eh] e me
ne vo (?)
Al
prossimo aggiornamento ~
~
Cruel Heart.
***
***
Harrisburg,
Pennsylvania,
Stati Uniti d’America, 24 Giugno 2001
Evan's pov
Sentii
Avril appoggiare la testa sull’incavo
della mia spalla e la baciai dolcemente tra i capelli: non volevo
svegliarla,
ma non riuscivo proprio a concepire l’idea che le mie labbra
si separassero da
lei.
Che
io mi allontanassi da lei.
Ma
questo non sarebbe mai successo, perché,
adesso, soltanto immaginare una cosa del genere, mi avrebbe provocato
un dolore
indicibile, mille volte superiore alla sensazione che avevo provato
pochi
giorni fa, quando lei aveva nascosto il suo amore per me.
Ero
lì, a notte fonda, a fissare la ragazza che
amavo, mentre dormiva accoccolata al mio petto.
Non
ero uno stalker o un vampiro psicopatico, no.
Al
massimo solo uno con una faccia da pesce lesso e con un sorriso da
ebete.
Oppure,
un semplice ragazzo innamorato.
Sarei
potuto stare lì a guardarla dormire per
tutta la notte, senza che io facessi nient’altro
fuorché osservarla.
E
avrei potuto farlo davvero, se non fosse stato
per un rumore.
Proveniva
dal piano di sotto e sembrava come se
qualcosa… fosse andato in frantumi.
Mi
vennero in mente svariate cose: una finestra
rotta, un bicchiere caduto in cucina, ma l’unica cosa che mi
convinceva sia per
la distanza, sia per il tipo di suono, era il vaso nello studio di
papà che
andava in mille pezzi al secondo piano.
Cercai
di focalizzare tutta la mia attenzione su
quel rumore, ma niente, le mie orecchie captavano solo il silenzio.
Così,
staccai piano il braccio dalla spalla
destra di Avril e, facendolo scivolare molto lentamente sotto la sua
schiena,
mi alzai dal letto.
Ma,
nonostante questo, sentii il suo respiro
tranquillo interrompersi. «Evan,
non… non
lasciarmi.»
mormorò, ancora con gli occhi chiusi.
Mi
cercò con la mano e io gliela presi subito tra le mie.
Le
baciai le nocche, una per una, senza fretta, e le sussurrai che
tutto andava bene e che tra poco sarei tornato da lei.
Sebbene
fosse ancora assonnata, mi ascoltò e si
girò su un fianco, portando le mani sotto la testa, a
mo’ di cuscino.
Appena
sentii che il suo respiro era ridiventato
regolare, presi la mazza da baseball che tenevo sempre accanto alla
scrivania.
Poi,
uscii di soppiatto dalla stanza e, cercando di
fare il meno rumore possibile, mi diressi verso lo studio di mio padre:
non
sapevo cosa aspettarmi, e l’ultima cosa che volevo era essere
disarmato di
fronte a dei ladri.
Scesi
le scale, un gradino alla volta, stando
attento a dove mettessi i piedi, e iniziai a percorrere il lungo
corridoio.
Già
appena incominciai a muovere i primi passi,
riuscii nettamente a distinguere due voci piuttosto alterate: una era
quella
bassa e baritonale di mio padre, autoritaria come al solito, e
l’altra era una
femminile, già conosciuta.
Non
ci misi molto a riconoscere il tono della
madre di Avril, la signora Judith, ma mi sfuggiva il motivo per cui
stessero
litigando, e a quest’ora, poi.
Così,
posai la mazza da baseball accanto al muro,
senza far rumore, e sbirciai dalla porta, da cui riuscivo a vedere una
parte
piccolissima della scena.
La
prima cosa che notai furono i cocci di
ceramica sparpagliati per quella piccola porzione di pavimento che
riuscivo a
scorgere: ci avevo visto giusto, si trattava del vaso di mio padre.
Poi,
iniziarono le urla:
«Non
puoi fare sempre così, Judy!»
Sgranai gli occhi:
da come mio padre le si era rivolto, sembrava come se… la conoscesse da molto tempo.
«Io
faccio quello che mi pare! LEI È LA MIA
BAMBINA!»
urlò la donna. Sentii scorrere un gelido brivido sulla
schiena al pensiero che
l’argomento della discussione era Avril.
A
quel punto, riuscii a distinguere solo la sagoma di mio padre
che andava incontro a quella di Judy: lui, decisamente più
alto, la sovrastava
completamente e la fissava con uno sguardo gelido e furioso allo stesso
tempo.
«Lo
sai che non è così, Judy. È anche la mia bambina.»
Appoggiai
la mano al muro, barcollando.
Che
cosa… cosa voleva
dire?
«Non
ti azzardare a dire una cosa del genere,
Mark. Credi che non sappia cosa hai fatto appena me ne sono andata, eh?»
sibilò Judy, furente.
«Non
sei mai stato un padre per lei e pretendi
di esserlo adesso?»
«Lo
so, ho sbagliato, ma adesso… adesso voglio
porre rimedio ai miei errori. Sono
entrambi figli miei e questo, purtroppo
per te, non cambierà mai.»
Un
dolore incontenibile mi fece vacillare.
Le
ginocchia mi tremavano, ma la morsa non si fermò, non
arrestò
la sua corsa.
Così,
non riuscendomi a reggere neanche sui miei piedi, travolsi
tutto quello che mi trovai davanti e, con le lacrime agli occhi, mi
misi a
correre.
***
Duke Mark's
pov