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Autore: Starishadow    19/11/2014    6 recensioni
(trama ispirata a "Resta anche domani" - ambientata prima della serie)
Il migliore amico di Reiji, Aine, è bloccato fra due mondi. La scelta se andarsene o restare sta a lui.
Basteranno le suppliche di Reiji, i silenziosi richiami di Ai e le promesse dei suoi amici a farlo tornare? O sceglierà di andarsene?
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aine Kisaragi, Reiji Kotobuki
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera a tutti!!
Sono tornata... di nuovo con una angst! Per chi già mi conosce - ed è al corrente della mia fissa per Aine Kisaragi - questa ff è relativamente normale (a tal proposito, chi ha letto la mia long, per questa storia, dimentichi il finale dell'altra xD)- per tutte le altre povere vittime che si trovano qui a leggere (scherzo, non sono pericolosa!!) mi sento in dovere di dare una piccola spiegazione:
Aine è un personaggio che esiste veramente nel gioco All Stars di Utapri, ma non viene nominato nell'anime, era il migliore amico di Reiji e ad un certo punto non sopportava più la sua carriera. Non dirò altro, chi è interessato chieda pure o vada a cercarlo sulla wiki, non voglio fare troppi spoiler. Comunque, in questa storia, considerate Ai e Aine fratelli, con 10 anni di differenza, e Aine è il maggiore. Il fatto che il suo cognome è diverso, fingiamo che sia perché uno ha debuttato con il cognome vero e l’altro con quello della madre! ;D
N.B. Il bellissimo banner per questa storia non l'ho creato io (naturalmente xD), il merito va a Pinky_Neko, insieme ad un enooooorme Grazie!! *O*
Non vi trattengo oltre, scusate se vi ho trattenuti/annoiati!
Buona lettura!! (spero ^^)
Baci,
Starishadow
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Quando aprii gli occhi rimasi confuso… dov’ero?
Ricordavo di essermi gettato fra le onde, ricordavo l’acqua che mi accoglieva fra le sue braccia e mi sommergeva e ricordavo il momento in cui i miei polmoni si erano riempiti di liquido salato che li annegava e non di aria che li gonfiava… Avevo fallito di nuovo? Come era possibile?
«Aine!»
Mi voltai verso la voce che mi stava chiamando e rotolai sulla sabbia fino a trovarmi carponi e poi in piedi. C’era del sangue sulla spiaggia, era il mio? Non mi faceva male nulla… a dire il vero mi sentivo anche troppo bene per essere uno appena sopravvissuto all’annegamento.
Teoricamente doveva almeno bruciarmi la gola, o gli occhi, o che so io.
Mi avvicinai lentamente ad una sagoma inginocchiata poco più in là, di schiena, che riconobbi come mio zio; perché mi dava le spalle? E perché tutta la sua figura sembrava scossa da tremiti?
«Zio?» provai a chiamarlo, senza successo, sembrava quasi che non mi sentisse; continuai ad avanzare fino ad essere tanto vicino da capire che non erano tremiti quelli che attraversavano la sua figura, ma singhiozzi.
«Perché piangi, zio? Io sono qui» mormorai, confuso, tendendo una mano verso la sua spalla.
Fu a quel punto che notai il corpo esanime fra le sue braccia, la chioma color ciano macchiata di rosso in alcuni punti.
Qualcosa non andava, qualcosa era sbagliato.
Iniziai a girare attorno a mio zio, mentre una vocina nella mia testa continuava ad urlarmi di non farlo, mentre tutto in me tremava e mi diceva di andarmene.
Quando vidi il viso del ragazzo che mio zio stringeva a sé urlai, ma nessuno mi sentì.
 
La corsa all’ospedale fu frenetica, con paramedici che si urlavano ordini e consigli mentre continuavano ad affaccendarsi attorno alla versione comatosa di me, una che cercava di consolare mio zio, e me che osservavo la scena in un angolo, gli occhi spalancati dallo shock.
Stavo davvero vivendo quella situazione? Era reale?
Una volta scesi, seguii i medici e li osservai trasportare in sala operatoria il… come dovrei definirlo? L’altro me? Il mio corpo? Me in versione bell’addormentato?
Vada per “il mio corpo”, anche se non mi è ancora chiaro che cosa fossi io in quel momento. Probabilmente un fantasma abbastanza sfigato, dato che quando cercai di passare attraverso la porta ricevetti solo un bel colpo in testa, che anche se non mi fece male, mi fece comunque avvampare (sempre stato fantasma permettendo) dalla vergogna – ovviamente prima di ricordarmi che nessuno aveva visto.
Però avevo sentito uno dei medici esclamare qualcosa come “gli sta apparendo un livido sulla fronte!” subito dopo, il che era interessante.
Approfittando di un’infermiera che usciva dalla sala, mi infilai dentro, pentendomene quasi subito: l’odore del sangue lì dentro era nauseante.
«Quanti anni avrà? Secondo me nemmeno 20» commentò l’anestesista, lanciando uno sguardo al viso del me incosciente; in effetti i capelli zuppi appiccicati alla faccia coperta di graffi ancora sanguinanti non mi rendevano giustizia, sembravo avere a malapena 16, 17 anni invece che 19 e passa.
«Cos’ha causato il coma?»
«Commozione cerebrale, ha sbattuto più volte contro gli scogli sballottato dalla corrente, probabilmente.» Un ricordo vagante di qualcosa del genere mi attraversò la mente: sì, ora ricordavo anche quello, grazie tante.
«Ma devo dire che non credo sia solo quella la causa» come scusi? «Sembra quasi che sia lui stesso a non volersi svegliare, il suo corpo non collabora alle nostre cure, eppure nessun organo interno è stato lesionato gravemente. Anche i danni al cervello sono limitati».
Ci pensai un attimo: ero lì, ad osservare tutte quelle persone che si affaccendavano attorno a me, il mio corpo era coperto di ferite che probabilmente avrebbero fatto un male cane, ma non sentivo assolutamente nulla, e soprattutto…
Non mi ero mai sentito così libero in tutta la mia vita!
Certo, se provavo ad attraversare un muro finivo con il sembrare un idiota che ad Halloween ha bevuto troppo e si è calato eccessivamente nella sua parte, però finalmente avrei potuto andare in giro per la strada senza che delle fan assatanate mi assalissero, il mio manager avrebbe potuto chiamarmi quante volte voleva, non avrei più dovuto rispondere o cercare scuse per non averlo fatto (“scusa, ora come ora sono in una specie di dimensione parallela in cui non sono proprio vivo ma nemmeno proprio morto, ti darò mie notizie più in là”), niente più spettacoli televisivi nauseanti, interviste imbarazzanti e concerti con canzoni composte da compositori diversi dal mio che nemmeno mi piacevano!
Una specie di urletto di gioia mi sfuggì dalle labbra mentre esultavo in un angolo della sala operatoria dove un’èquipe di medici si affannava attorno ad un corpo che non volevo più per riportarlo nella prigione meglio nota come “mondo”.
Se avessi saputo come, gli avrei detto di smettere di preoccuparsi.
«Che sta succedendo? Guardate i parametri vitali!»
«Le sue condizioni si sono stabilizzate, ma nel punto più profondo del coma, come se avesse rinunciato ad ogni risveglio».
“Oh sì dolcezza, col cavolo che mi risveglio!” pensai, sorridendo soddisfatto e sedendomi sul bordo del lettino, ridendo divertito.
Potevo fare quello che volevo, accidenti, ad averlo saputo l’avrei fatto molto prima!
Mi chinai verso il viso dell’altro me per sussurrarmi qualcosa come “sogni d’oro” in un orecchio, ma un’infermiera parve avere la mia stessa idea e mi anticipò, sussurrando nell’altro:
«Il segreto sta nel voler restare. Quello che succederà dipende solo da te, angelo».
La fissai con tanto d’occhi. Intanto, nessuno mai si sarebbe sognato di chiamarmi angelo (ok forse qualche povera fan che non conosceva il mio lato più dispettoso, ma non contiamola), poi… ero io a condurre il gioco, quindi?
La cosa era molto interessante.
Fra una cosa e l’altra, l’operazione era finita, e io seguii la barella fuori dalla sala operatoria, ma rimasi pietrificato nel vedere 5 persone in sala d’aspetto alzarsi di scatto e fissare lo staff con mille domande negli occhi.
«Come sta?» chiese mio zio, stringendo a sé Ai, che sembrava disorientato da ciò che lo circondava, e mentre gli rispondevano, io mi avvicinai alla terza persona più vicina a me: Reiji.
Per la prima volta, da quando mi ero svegliato in quella strana forma, avvertii un vero e proprio dolore dritto all’altezza del cuore, una morsa di rimorso e rimpianto.
I suoi occhi grigi, che di solito erano luminosi e ridenti, ora erano opachi, spenti e lucidi di lacrime, si stringeva le braccia attorno al corpo e si mordeva le labbra per non scoppiare a piangere.
«Rei» sussurrai, tendendo una mano verso di lui, ma toccandogli la guancia non sentii nulla sotto le mie dita, e lui non sentì me: rimase immobile mentre alcune lacrime trovavano il modo di sfuggirgli dagli occhi, tirò su col naso, ma non si curò di asciugare quelle due gocce che gli bagnavano le guance. E io non riuscivo a farlo per lui, io non riuscivo ad asciugare le sue lacrime…
«No Reiji, ti prego non piangere» portai entrambe le mani al suo viso, ma ancora continuavo a non sentire nulla, e lui non chiuse gli occhi abbandonandosi al mio tocco come faceva di solito.
Mi voltai verso Kei ed Hibiki, i loro sguardi vuoti scatenarono lacrime nei miei occhi e altro dolore nel mio petto.
«Onii-tan starà bene, vero?» la vocina esile di Ai mi diede il colpo di grazia. Crollai in ginocchio davanti a lui, prendendogli le mani anche se sapevo che non sarebbe servito a nulla.
Eppure ero quasi sicuro di averlo visto sussultare e guardarsi attorno per un secondo, prima di fissarsi le mani con aria concentrata.
«Aiyan» singhiozzai, guardandolo negli occhi. Non riuscivo a capire se lui mi stava vedendo o no, o se forse era solo vagamente consapevole della mia presenza, ma il fatto che il mio fratellino riuscisse in qualche modo a sentirmi lì mi confortava almeno in parte.
Che razza di idiota ero stato? Come avevo potuto?!
«Sì, Ai-Ai… Ne-ne non ci lascerà di nuovo» mormorò Reiji, posandogli una mano sulla spalla e stringendogliela. Ai alzò gli occhi su di lui, e per la prima volta vidi mio fratello guardare il mio ragazzo con uno sguardo diverso da quello di pura antipatia che gli riservava di solito. Stavolta lo guardava come guardava me, speranzoso, fiducioso delle sue parole.
Reiji aveva fatto una promessa al posto mio, e io volevo mantenerla.
Ve lo posso assicurare, volevo mantenerla. A vederli così avrei dato non so cosa per poter tornare, non sopportavo di vederli soffrire, di essere io la causa delle loro lacrime, volevo svegliarmi in quel preciso istante e tornare da loro!
«Il gioco dipende da me, giusto? Allora voglio svegliarmi, svegliati adesso, Aine!» esclamai, guardando in alto, sperando che qualcosa succedesse. Ma niente.
Quando i medici fecero entrare mio zio nella mia camera lo seguii, e lo osservai mentre si sedeva impacciato accanto al mio lettino e mi prendeva la mano.
Da che io ricordi, non mi aveva mai toccato prima di quel momento; mi mostrava il suo affetto in altri modi, con piccoli gesti come continuare a preparare il  mio piatto preferito per ogni occasione importante, o quando ero di cattivo umore, o farmi trovare libri, CD, spartiti e DVD sulla scrivania più o meno ogni fine settimana, o magari semplicemente bussando alla porta della mia camera quando mi ci chiudevo dentro imbronciato e chiedermi se avevo bisogno di lui… non ci erano mai serviti contatti fisici, e il fatto che ora mi stesse tenendo per mano era qualcosa che mi faceva sentire strano, e mi rattristava.
Sapevo che avrebbe preferito di gran lunga essere in un negozio di musica a cercare un CD da farmi trovare in camera, piuttosto che lì seduto al mio capezzale senza poter fare nulla per svegliarmi.
Mi sedetti di nuovo sul bordo del letto, tirandomi le ginocchia al petto e osservando prima lui e poi il mio viso martoriato coperto da una maschera che spingeva aria nei miei polmoni.
«Aine, non so nemmeno da dove iniziare» cielo, quanto tremava la sua voce! «Mi dispiace. Non avrei dovuto lasciarti da solo, avrei dovuto starti più vicino. Forse, se fossi riuscito a farti capire che potevi parlare con me, confidarti, chiedermi aiuto…»
«Non l’avrei fatto comunque, zio, non torturarti» dissi, guardandolo tristemente, ma lui ovviamente non mi sentiva.
Questa faccenda dell’essere un fantasma stava perdendo il suo fascino.
«Che cos’era che ti faceva tanto male, Aine? Cos’era che non potevi più sopportare?»
Lo fissai con gli occhi lucidi, e un sorriso triste mi affiorò sulle labbra:
«Tutto. Tutto quello che amavo era diventato il mio peggior nemico. Da quando ho debuttato, hanno preso i miei sogni e li hanno trasformati in incubi» risposi, sfiorando distrattamente la mano dell’altro me che si trovava posata mollemente sullo stomaco, una flebo infilzata nel dorso.
Ancora una volta, fui felice di non poter sentire niente a livello fisico.
«Torna da noi, Aine» la voce di mio zio mi strappò ai miei pensieri e mi costrinse a guardarlo, sorpreso. «Ai ha più bisogno di te che di me, io ho bisogno di te… chi mi sveglierà ad orari improbabili mentre canta sotto la doccia?»
Un sorrisino colpevole increspò di nuovo le mie labbra, prima di sparire: negli ultimi tempi non riuscivo nemmeno a cantare in quel modo, continuava a disgustarmi e soffocarmi.
Mi avevano fatto odiare la musica.
Non glielo potevo perdonare!!
Mentre una vampata di rabbia mi assaliva, un rumore fastidioso fu emesso da un macchinario lì vicino, e presto un’orda di infermiere e medici si precipitò dentro.
Non capivo che cosa stava succedendo, almeno fino a quando l’infermiera che mi aveva praticamente dato in mano il joystick di quella partita non iniziò ad accarezzare i capelli sporchi di sangue dell’altro me con un sorriso gentile:
«Esatto, angelo… è così che funziona».
“No, aspetta! Non ho capito cosa ho fatto, spiegami!” avrei voluto urlare, ma non ci riuscivo, e comunque non sarebbe servito a nulla.
«Aggrappati a qualsiasi emozione tu provi, e usala per tornare da noi. Rabbia, paura, disperazione, qualsiasi cosa ti faccia sentire di appartenere a questo mondo».
Già quella era un’informazione più utile… più o meno. Anche se concentrarmi, scoprii abbastanza presto, mi era diventato praticamente impossibile: man mano che mi abituavo a quel bizzarro modo di essere, scoprivo che c’erano mille cose che riuscivo a fare, o vedere e sentire. Odori che non ero mai stato capace di sentire prima, sfumature e giochi di luce che prima sfuggivano ai miei occhi… ora era tutto lì davanti a me, e la mia mente non faceva che perdersi dietro ad essi.
 
La visita di Ai fu breve, non disse molto – come suo solito -  si limitò a guardarmi quasi inorridito, con un’aria illeggibile che stonava con il suo viso di bambino di 10 anni, poi cominciò a mangiarsi le unghie, vizio che aveva preso da me e che avevo tentato in mille modi di convincerlo a perdere.
A quel punto mi lanciò un’occhiatina quasi maliziosa che mi costrinse ad alzare un sopracciglio, mentre lo osservavo seduto dall’altro lato del letto, i gomiti poggiati vicino al fianco della mia versione incosciente.
La cosa che mi incuriosiva più di tutti era che Ai non guardava quella versione, ma guardava verso di me, come se anche senza vedermi, sentisse che ero lì.
«Se non torni da me, onii-chan», cominciò con tono serio e aria quasi intimidatoria «mi mangerò le unghie, salterò con le scarpe sul tuo letto e strapperò tutti i tuoi libri!»
«Eh no i libri no, piccola peste!» esclamai a voce alta, balzando in piedi e correndo verso di lui, se avessi potuto l’avrei torturato con il solletico, ma ero piuttosto sicuro che pur provandoci non avrei ottenuto di farlo ridere e divincolare come al solito.
Altri rumori più insistenti vennero dai macchinari; ormai avevo capito che si trattava delle mie onde cerebrali, e più aumentavano, più significava che ero vicino al risveglio.
Peccato che non riuscissi a mantenerle costanti: pur impegnandomi, riuscivo a tenere il controllo solo per un minuto al massimo, poi la mia attenzione veniva distolta da una qualsiasi altra cosa e le onde ripiombavano nel coma profondo.

Hibiki non riuscì ad entrare da solo, così fu accompagnato da Kei, e come avevo previsto si limitarono a guardarmi in silenzio, il primo piangendo senza alcuna remora, il secondo con gli occhi sbarrati dall’incredulità.
Avrei preferito che cominciasse ad urlare, a sbraitare che ero un idiota, che mi insultasse… non sopportavo di vederlo così.
«Kei, mi dispiace» dirlo era inutile, ma non potevo farne a meno.
Stavo per arrendermi al fatto che non avrebbe fiatato quando lo sentii sospirare e lo vidi frugare nella cartella che aveva con sé. Tirò fuori dei fogli e i miei occhi si spalancarono, mentre il mio cuore cominciava a battere all’impazzata (cosa che il gentilissimo elettrocardiogramma non mancò di far notare). Hibiki guardò il lettino preoccupato, Kei non fece una piega e posò i fogli sul tavolinetto lì vicino:
«Se solo mi avessi risposto al telefono, brutto idiota», cominciò, con voce dura ma piena di dolore «avresti scoperto che avevo ottenuto il permesso di comporre di nuovo per te. Avresti potuto fare un nuovo album solo con le nostre canzoni, niente più filastrocche stupide per bambine dagli ormoni impazziti… avresti di nuovo cantato per le tue sweethearts – e continuo a pensare che sia un modo assurdo di definire le proprie fan, ma se proprio ti piace mi adeguo – e io sarei stato di nuovo il tuo compositore».
“Oddio” un brivido di emozione mi corse lungo la schiena. Cantare di nuovo le canzoni di Kei… io e Kei saremmo stati di nuovo partner, e stavolta non per un compito o una audizione, ma per tutta la nostra carriera…
“Che cazzo ho fatto?”
«Non ce l’ha con te» mormorò Hibiki, mordendosi le labbra subito dopo e soffocando dietro un singhiozzo trattenuto a malapena.
«Sì invece. Sono infuriato con te, Kisaragi. Ma so che ti sveglierai, e quando lo farai potrò urlarti contro quanto mi pare e piace».
«Mi sembra il minimo» ammisi chinando il capo e sorridendo amaramente «potrai anche pestarmi, se vorrai».
«E poi ti ascolterò cantare quelle canzoni… guai a te se rinunci alla musica. E non intendo quella robaccia degli ultimi tempi, che effettivamente faceva schifo, ma la tua musica. Non ti ho insegnato niente, bastardo?»
Bastardo era ormai il suo modo per dire “amico”, lo faceva prima ed ero ben felice che stesse continuando a farlo:  se anche Kei avesse iniziato a piagnucolare e trattarmi con le pinze, sarei impazzito.
Accidenti a quella mia difficoltà a concentrarmi… mi sarei svegliato in quel preciso istante, se ci fossi riuscito!
 
«Reiji che cavolo vuol dire che non vuoi entrare?!» chiese Hibiki nel panico.
Reiji era appoggiato ad una parete con le braccia incrociate sul petto e scuoteva energicamente la testa, gli occhi bassi e le labbra strette in una linea sottile.
«Rei, ma Ine-chan ha bisogno di te!» il tono lamentoso di Iki normalmente avrebbe causato una crisi di nervi a Kei, che però ora sembrava non farci nemmeno caso.
Quello che Hibiki non poteva sapere era che in quel momento io ero lì, e stavo già sentendo tutto.
«Aine non è veramente lì» sussurrò Reiji, con voce vuota come mai l’avevo sentito.
«Che cazzo stai dicendo, Reiji? Non hai sentito quello che hanno detto? Aine ci sente perfettamente
“E vi vede anche” avrei voluto aggiungere, ma non potevo biasimare Reiji se non voleva entrare con me in quello stato… probabilmente non ce l’avrei fatta nemmeno io, se le situazioni fossero state invertite.
Ok no, non è vero. Non capivo Reiji, e mi sentivo tradito e offeso dal suo atteggiamento. Avevo bisogno di lui più di chiunque altro per svegliarmi, avevo bisogno di sentirlo vicino a me, di sentire la sua voce rassicurante che mi incoraggiava, avevo bisogno di lui…
E lui faceva l’egoista. Qualcosa scattò dentro di me, e mi ritrovai a tempestarlo di pugni, fregandomene che non mi sentisse, e urlai con tutto il fiato che avevo, a un passo dall'isteria:
«Guarda che se sono ridotto così è perchè tu non hai risposto al cellulare, brutto stronzo!»
Non so se - in qualche modo - mi sentì, o se più semplicemente in quel momento pensò la stessa cosa, fatto sta che Reiji diventò pallidissimo, quasi bianco quanto la parete dietro di lui, e i suoi occhi rischiarono di sciogliersi nuovamente in lacrime.
«Non ce la faccio, mi dispiace!» esclamò, e corse via.
Kei gli urlò dietro che era un vigliacco e doveva tornare indietro, Hibiki chiamò il suo nome, ma questo non lo fece voltare.
E fu per questo che quel po’ di onde cerebrali che ero riuscito a controllare fino a quel momento precipitò fino a quasi appiattirsi; guardai tristemente Hibiki, mio zio, Ai e poi Kei.
«Mi dispiace, ma credo che continuerò a dormire» sussurrai, rientrando nella mia stanza, osservando il mio corpo abbandonato sul lettino.
Mi morsi le labbra sentendole tremare, poi serrai i pugni lungo i fianchi:
«A quanto pare io e te passeremo ancora un po’ di tempo qua dentro» dissi, parlando con me stesso, poi mi lasciai scivolare lungo la parete e, per la prima volta, scoppiai a piangere.
Reiji non mi voleva vedere.
Reiji stava meglio senza di me.
 
Non è facile avere la cognizione del tempo quando sei intrappolato fra due mondi e vaghi come un fantasma nei corridoi lucidi di un ospedale, un paio di volte, aggirandomi vicino al reparto di rianimazione o quello di terapia intensiva avevo visto altre persone come me, che fissavano spaventate e confuse il loro corpo steso davanti ai loro occhi. Alcune mi avevano rivolto la parola, chiedendomi cosa stesse succedendo, altre avevano iniziato ad urlare ed erano sparite in un lampo di luce.
Una volta, quando in qualche modo ero finito vicino alla rianimazione infantile, incrociai un ragazzino biondo con grandi occhi azzurri che avrà avuto si e no due anni più di Ai; se ne stava in ginocchio davanti ad un altro identico a lui, gli parlava, cercava di rassicurarlo, ma entrambi non smettevano di piangere, e quando lui cercava di toccare l’altro ragazzino, quello naturalmente non sentiva niente.
«Kaoru» lo sentii singhiozzare, mentre tentava di abbracciarlo.
«Non lasciarmi, onii-chan!» implorò l’altro, con i palmi premuti contro gli occhi.
«Non so come fare!» rispose quello, disperato.
Fu a quel punto che, con un sospiro, decisi di tentare; alla peggio sarebbe scappato via. Mi avvicinai a lui e mi inginocchiai in modo di essere alla sua altezza, lui mi fissò sconvolto:
«Tu puoi vedermi?» chiese.
Gli rivolsi un sorriso triste:
«Sì… e solo tu puoi vedere me».
Quel po’ di speranza che gli era comparsa in viso sparì:
«Ah, sei come me».
Annuii, poi guardai l’altro bambino, che continuava a piangere e pregare.
«È il mio gemello».
Li guardai, praticamente l’unica cosa che consentiva di distinguerli era il modo in cui tenevano i capelli: sciolti e davanti alla faccia quello “del mondo reale”, fissati indietro da una parte con delle forcine quello bloccato come me.
«Vuoi tornare da lui?» gli chiesi, quello fece una faccia incredula:
«C’è qualcuno che non vorrebbe tornare?» chiese.
“Io, per esempio” replicai fra me e me con un sorrisetto, poi mi affrettai a rispondergli:
«Qualcuno ci sarà. Comunque, dipende solo da te. Devi riuscire a concentrarti su tutto quello che ti fa sentire parte del suo mondo, emozioni, ricordi, anche la paura… concentratici veramente, immagina il tuo corpo, di sentirlo, di esserci dentro… e poi stringi una mano, o apri gli occhi; se sei riuscito a concentrarti, ti sveglierai» avevo visto un paio di persone riuscirci, e in fondo era stata una bella sensazione sapere che loro ce l’avevano fatta.
Loro avevano qualcuno che li voleva indietro.
Lo vidi chiudere gli occhi e, lentamente, sparì davanti ai miei occhi, ci volle qualche minuto, ma alla fine non lo vidi più, e dato che non c’era stato nessun lampo di luce, capii che ce l’aveva fatta.
A conferma di questo, poco dopo un’infermiera sorridente informò la famiglia che lo aspettava che aveva ripreso conoscenza e l’operazione (quale operazione?) era andata a buon fine.
Mentre tornavo al mio reparto, trovai Ai esitante davanti alla porta. Era cresciuto, nel frattempo, il che mi fece capire che era passato qualche anno da quando mi ero arreso, ed era sorprendente e inquietante quanto iniziasse a somigliarmi.
Aveva uno sguardo cupo e una guancia gonfia che mi misero subito in allarme, che cosa stava succedendo?
Lo vidi aprire la porta e lo seguii dentro, in attesa trepidante di sentirlo parlare.
«Mi hanno pestato a scuola» dichiarò di punto in bianco, senza nemmeno sedersi o avvicinarsi al mio corpo, io intanto ero accanto a lui e lo fissavo con tanto d’occhi, la rabbia che ribolliva in me e faceva increspare le onde dell’encefalogramma. «Ma a te questo non importa, vero, Aine?» anche lui sembrava fremere di ira, e questo mi fece indietreggiare. Che cosa...? «Tu non ci sei mai per me. Preferisci startene qui a dormire, arrendendoti come uno sfigato, e non ci sei! Avevo bisogno di te e tu eri qui… io…» batté un paio di volte le palpebre e i suoi occhi tornarono asciutti, a quel punto sospirò. «Sono due anni che ti aspetto, che spero che tu ti svegli. Ma a quanto pare non vuoi farlo, e io mi sono stancato di venire qui ogni giorno ad implorarti. Non ho intenzione di tornare, quindi… addio, Onii-san».
Mentre ero ancora impietrito dalle sue parole, Ai girò i tacchi e se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle.
“Oh no, cazzo, no! Adesso anche Aiyan mi odia!” iniziai ad andare nel panico più totale. Nessuno aveva più bisogno di me: Reiji non mi voleva, Kei e Hibiki avevano smesso di venire a visitarmi almeno un anno prima, e avevano cominciato a collaborare insieme al lavoro, Ai mi odiava… solo mio zio sembrava ancora avere fiducia in me. Nessuno mi voleva, nessuno aveva bisogno di me…
I macchinari attorno al  mio corpo iniziarono ad urlare, e una luce accecante mi apparve davanti, sempre più vicina. Tesi una mano, se non servivo a nessuno in quel mondo, potevo sempre…
La porta si spalancò e sentii una voce familiare:
«Angelo!»
Mi voltai di scatto verso l’infermiera che in due anni non mi aveva mollato un attimo, né aveva smesso di chiamarmi angelo, spesso restava la notte per controllare che continuassi a restare lì… sembrava ancora profondamente convinta di convincermi a tornare indietro.
Mentre altri medici entravano dopo di lei, mi voltai di nuovo verso quella luce calda ed invitante; stavo per avvicinarmi quando quella sparì di nuovo, e i macchinari tornarono al loro solito ronzio a cui ormai mi ero assuefatto.
Mi voltai verso il mio corpo, scioccato: stavo per autodistruggermi, stavo per morire sul serio… e loro mi avevano riportato indietro!!!
Guardai soprattutto quell’infermiera, che mi fissava tristemente:
«Sei già così stanco di vivere, angelo?»
«La chiami vita questa?» risposi singhiozzando, mentre la fissavo negli occhi «I miei migliori amici mi hanno abbandonato, mio fratello mi odia, il mio ragazzo non mi ha mai voluto vedere! Sono stanco!» sbottai, sferrando un pugno al bordo del letto.
Ed inevitabilmente, le mie onde cerebrali ricominciarono ad alzarsi. Lei gettò uno sguardo ai parametri e sorrise.
«Nessuno si aspetta più che tu ce la faccia, sarò sincera… non vuoi dimostrargli che si sbagliano?»
Chiusi gli occhi.
Che cosa me ne fregava?
 
Erano passati altri anni, e l’unico a visitarmi era stato mio zio, con qualche rara eccezione quando Mr Shining Saotome in persona compariva nella mia stanza - e mi faceva prendere un colpo - e mi aggiornava di quello che succedeva nel mondo che odiavo e amavo allo stesso tempo.
Fu grazie a lui che scoprii che Ai aveva debuttato a sua volta, che stava avendo parecchio successo come idol, che ora cantava in un gruppo assieme a Reiji e che erano diventati una sorta di tutor per un nuovo gruppo – qualcosa come Starish? – e sempre grazie al suo lato pettegolo che uno non sospetterebbe dato il suo ruolo, ammise che non si sarebbe sorpreso se fra Ai e uno dei suoi kohai fosse scattata una qualche scintilla… ammesso che non si ammazzassero prima.
Ai, fedele alla sua parola, non si era più fatto vedere, e di Reiji ormai ricordavo a malapena la voce.
Fu per questo che, quando mio zio fece un tentativo e fece partire una canzone dove cantavano entrambi, il dolore al petto che avevo sentito la prima volta tornò violentemente e mi lasciò a terra con le lacrime agli occhi.
Non mi ero mai accorto di quanto mi mancassero realmente.
Mi mancava la risata di Reiji, le sue chiacchiere, i suoi abbracci, i suoi baci… mi mancavano persino le volte in cui avevamo litigato furiosamente!
Probabilmente, quella fu la volta in cui andai più vicino allo svegliarmi, perché iniziai a sentire qualcosa: dei dolori alle mani dove si infilzavano gli aghi delle flebo e cose del genere, ma poi fui di nuovo distratto, e tanti cari saluti al risveglio.
Dentro di me iniziavo a capire di cosa, o meglio di chi, avevo bisogno per riuscirci del tutto.
 
Ero pigramente sdraiato sul divano nella stanza, chiedendomi che giorno fosse e di che anno, quando la porta si spalancò, e qualcuno entrò trafelato.
Ormai ero abituato praticamente a tutto, e avevo imparato persino a spostare degli oggetti per poter cacciare via degli scocciatori, ed ero già pronto a far cadere la pila di riviste vicino a me quando vidi chi era entrato.
Sebbene mezzo affogato dalla pioggia, con il cappuccio abbassato e con i vestiti appiccicati addosso, lo riconobbi, e scattai in piedi.
Reiji.
«Aine, ti prego, ti scongiuro perdonami! So che sono passati cinque anni, e hai tutto il diritto di odiarmi, ma ti prego sono qui perché…  non ce la faccio più, mi manchi troppo. I primi anni non sono riuscito a venire qui perché continuavo a dirmi che era colpa mia se tu eri in questo stato, non riuscivo a… ad affrontarti, io… Oddio, lo so che sono solo un fottuto egoista, ma…»
Devo ammettere che in quel momento ero d’accordo con lui: era stato un egoista schifoso, mi aveva abbandonato quando più avevo bisogno di lui… e ora ricompariva dopo cinque anni come se nulla fosse.
Ok che il tempo passa in maniera diversa quando sei a metà fra due mondi, ma cinque anni sono sempre cinque anni.
«Aine, io… ok, senti, so che è assurdo ma… quella volta, cinque anni fa, quando non volevo entrare da te, ho sentito… io ho sentito la tua voce, e… sono sicuro di non essermela immaginata, ecco. So che eri lì! Forse sto impazzendo ma… continuo a sentirti, sentire come se non fossi veramente qui, fermo in questo lettino d’ospedale ma…» Reiji sbuffò e si prese la testa fra le mani, crollando nella sedia accanto al letto «ho bisogno di te, Aine. Ho bisogno che tu torni… so che io sono il primo che non è stato qui per te, ma… se torni, prometto di farmi perdonare. Non ti lascerò un momento, oppure sparirò dalla tua vita, certo, dipende da quello che vorrai tu. Sai, ho parlato spesso con Ai-ai… non è vero che ti odia, o tutto il resto. Non è più tornato a trovarti perché non ce la faceva… nessuno di noi ce la fa, Ne-ne, a vederti così. Noi tutti ti ricordiamo per quello che eri, quell’ironico bastardo che nascondeva dietro al sarcasmo tutta la sua timidezza e le sue insicurezze, quel matto scatenato sul palco. Aine, tu non sei questo. Non sei un corpo bloccato in un letto o una qualche presenza silenziosa…»
Lo ascoltai in silenzio, mentre la mia risolutezza cedeva. Reiji sembrava veramente pentito, e poi… era questo quello che avevo voluto fin da subito, no? Era che lui tornasse da me, che mi dicesse che mi voleva…
Qualcosa parve sollevarsi da me, come un peso, mentre iniziavo a sorridere.
Reiji non mi odiava!
Reiji mi voleva ancora con lui!
Ok, gli ci erano voluti cinque anni e gliel’avrei fatta pagare per questo, ma… ma ora era lì!
«Svegliati, adesso, svegliati!» esclamai fissando l’altro me con occhi pieni di aspettativa. Ma non successe niente. Mi precipitai al mio capezzale e mi presi una mano (buffo come il  contatto con me stesso lo sentissi eccome) e la strinsi «Andiamo, svegliati!»
Chiusi gli occhi e mi concentrai su tutto quello per cui volevo restare: Reiji, la musica, la mia famiglia, i miei amici… volevo di nuovo cantare con Kei, e forse ora anche Ai avrebbe accettato un duetto, volevo rivedere il mondo e volevo essere visto! Ripensai alla felicità, e al dolore, all’amore e all’odio, a tutto quello che mi rendeva umano. Aprii gli occhi, pronto a rivedermi nel mio corpo, con tutti gli acciacchi del caso, li avrei accettati volentieri. Adesso avevo capito. Avevo capito che valeva la pena mille volte di tornare indietro, di restare, perché andandomene avrei lasciato indietro Reiji, avrei lasciato indietro una parte di me…
Però quando aprii gli occhi ero ancora fuori dal mio corpo.
«Che cosa?!» esclamai, inorridito, poi alzai gli occhi su Reiji «Rei, mi puoi vedere?» chiesi, spaventato, lui non mi sentì.
Che cosa dovevo fare?
«Aiuto… Aiuto! AIUTO!» urlai con tutte le mie forze, i macchinari iniziarono a fare il solito casino, e Reiji li guardò spaventato, prima di correre fuori e chiamare qualcuno.
Dov’era quell’infermiera ora? Che cosa dovevo fare?
«Svegliatemi, svegliatemi!» piansi quando i dottori entrarono.
Stabilizzarono le condizioni, di nuovo, ma diminuirono il numero di antidolorifici… forse erano quelli che mi avevano bloccato la prima volta. Riprovai, ma nulla… oh cielo!
“Fatemi tornare indietro” implorai, mentre delle lacrime mi inondavano il volto.
I dottori dissero qualcosa a Reiji, e io ebbi l’impressione di vederlo sorridere leggermente, poi si sedette di nuovo accanto a me e mi prese la mano.
«Aine, ti prego svegliati» sussurrò piano, baciando il dorso della mia mano. Cosa non avrei dato per poter sentire le sue labbra su di me di nuovo…
«Ci sto provando, Reiji, ma questo bastardo non collabora!» esclamai, fuori di me dalla paura e lo strazio.
Quasi per dispetto, il mio cuore rallentò parecchio e le onde cerebrali si abbassarono.
«Hey! Scusa, non volevo offenderti!» mi trovai a sbottare, pestando un piede a terra e guardando truce il mio corpo. Sorprendentemente, le condizioni tornarono normali con degli allegri guizzi sui monitor. Alzai gli occhi al cielo ed incrociai le braccia:
«Permaloso» sbuffai.
Reiji intanto mi sorrideva appena:
«Hey, Ne-ne, vuoi sapere qual è il segreto?» “Sì, cazzo!” «Devi smettere di punirti. Una parte di te continua ad odiarsi per tutto quello che ha fatto. Tu non hai fatto niente, ok? Mi capisci? Non hai fatto nulla di male, torna da me e sistemeremo tutto. Ti amo, Aine, cinque anni non hanno cambiato nulla. Aine, qualsiasi cosa succederà, io sarò qui per te. Come lo saranno tuo zio, Ai, Kei, Iki… siamo qui, Ne-ne. Resta».
Chiusi gli occhi ed espirai, buttando fuori tutta l’aria che avevo in corpo.
Il respiro successivo che presi fu più concreto: sentivo qualcosa sul viso. Dolori alle mani, il mio corpo era intorpidito e quasi pesante… e sentivo qualcosa attorno alla mia mano destra.
Il mio cuore accelerò i battiti mentre iniziavo a realizzare cosa stava succedendo. O almeno cosa speravo stesse succedendo.
«Resta, Ne-ne. Aishiteru. Dammi almeno la possibilità di chiederti mille e mille volte scusa» la voce calda di Reiji mi trascinò fuori dal buio, mi fece ritrovare i muscoli… A quel punto aprii gli occhi.
La luce li ferì, ma non era certo quello il motivo per cui lacrimavano.
Reiji mi fissò incredulo e sollevato, prima di baciarmi la fronte delicatamente, come se avesse paura di mandarmi in pezzi e perdermi ancora:
«Hey ciao, Ne-ne» disse, stringendomi ancora la mano.
Me lo stava promettendo: adesso sarebbe andato tutto bene. 
   
 
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