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Autore: LarcheeX    21/11/2014    4 recensioni
Un impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia, e per quanto fosse sadico, non potè sembrarmi più dannatamente sincero.
“Il nome è Sherlock Holmes. Sono il primo consulente investigativo al mondo."
~~~
“Ti sei ripreso da ieri?”
Era Watson.
Da vicino era ancora più stanco e acciaccato di quanto avessi constatato in precedenza, e sembrava profondamente annoiato, o semplicemente era il suo viso. Eppure sembrava che si aspettasse qualcosa da me.
{ Teen!lock || Storia a quattro mani }
Sherlock's POV: Larcheex
John's POV: DoubleDisasterDi
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Dunque... cosa dire... buonasera Londra! No, aspetta, così sembriamo spaccone!
- Di' "buonasera mondo", allora.
- ...
Buonaseragiornopomeriggio, popolo di EFP. Se state leggendo questa fanfic, ci sono un paio di cosette che dovete sapere. La prima: questa è una fic a quattro mani. Le autrici siamo io DoubleDisasterDì, e questa splendida signorina qui presente.

- Splendida signorina che non mancherà di smontarvi le ship. Col canon.
- SHHHH, LAR! Stiamo perdendo lettori, e non sono nemmeno cinque righe!
L - Ma meritano di sapere.
D - Prima che la dolcissima signorina mi interrompesse (stai buona lì con le caramelle mou finchè non finisco) dicevo...
  La seconda cosa che dovete sapere: un capitolo io, un capitolo lei, io John, lei Sherlock. Che poi per noi non è troppo complicato, bisogna dire.

L - La trama sarà incentrata sull'idea teen!lock, quindi vedrete i personaggi che amate ringiovaniti e agire in un contesto scolastico/famigliare/problematico diverso e volentieri più incasinato.
D - Confidiamo che avrete pazienza con noi (bah, soprattutto con me) per eventuali errori o cazzate che potremmo scrivere qui sopra. Per il resto, sono davvero felice di scrivere questa cosa, giuro!
L – beh, che altro dire, se non invitarvi a leggere e recensire, se volete e vi piace, o non vi piace e volete esprimere il vostro disappunto, o che ne so. Ed eccovi il primo capitolo di “The Brain & The Heart”
 
1. Nothing happens to me
 
The color today is gray,
I see only black and white, every day's the same.
Great tall trees that have no leaves.
A shiloette against a pale sky, that sheds no light.
{ Ben and Alfie – 27 years }
 
So che molti avvenimenti vanno raccontati semplicemente senza girarci attorno, dicendo le cose come sono andate e basta, senza fare i romanzieri, e senza perdersi in inutili sentimentalismi, fiori, arcobaleni, unicorni e quant’altro (cosa c’entrano gli unicorni non lo so neppure io, li metto nelle frasi ogni volta che devo accennare a qualcosa di assurdo ed impensabile). Insomma, descrivere e muti, senza troppe cerimonie.
 A quanto pare, però, è saltato fuori che a me romanzare piace molto, è saltato fuori che sono un inguaribile romantico ed un terribile emotivo.
Inoltre, ammetto che una parte di me è sempre stata fiera dei temi che scrivevo alle elementari.
Ed è forse quel bambino che ho dentro che si sta dando un po’ di arie e che, sì, sta facendo sì che io giri intorno a quello che voglio raccontarvi, infilando nel calderone un sacco di inutili e noiosi eventi della mia vita, prima della grande svolta.
Perché sì, è inutile negare che ci sia stata una grande svolta.
E sicuramente, qualcuno sta già perdendo la pazienza. Qualcuno a cui non piacciono i romanzi e i sentimenti ma solo i freddi, insensibili ed innegabili fatti.
Caro qualcuno, questa storia ti piacerà, te l’assicuro. Perché parla di una persona che è esattamente come te. Una persona straordinaria, e questo non posso negarlo.
E no, non sto parlando di me.
Vi assicuro che il numero di cose che ho sempre tenuto per me è davvero allarmante.
Beh, Sherlock Holmes non deve essere tra queste.
Lui, tutto ciò che ha fatto, e le sue imprese straordinarie, devono assolutamente vedere la luce.
La sto facendo troppo lunga, di nuovo. Me ne rendo conto.
Ma così va bene, giusto? Il mistero si infittisce, e io ho catturato la vostra attenzione.
Dovremmo cominciare, quindi. Da dove?
Direi di partire da un povero, patetico, comune, e distrutto ragazzo solo: me.
 
 
 
“John. Guardami negli occhi.”
Le persone, generalmente, odiano i politici.
I politici, o magari, visto che siamo in Inghilterra, la regina.
Alcuni odiano i poliziotti corrotti, e altri odiano i banchieri.
Altri addirittura odiano gli agenti immobiliari.
Io odiavo gli psicologi. O strizzacervelli. Chiamateli come preferite, io li odiavo.
Non tanto per il fatto che ‘ehi, posso andare a pagare un barbone per raccontargli tutti miei problemi, e non mi costerebbe tutti questi soldi!’  ma più che altro, almeno nel caso della mia analista, per la loro pretesa di sapere tutto. Tutto, anche le cose più dannatamente personali che altri non volevo condividere che con me stesso. E con Dio.  Nel caso fosse esistito, si intende.
“Andiamo. Con me puoi parlare. Perché non ti fidi mai?”
Il solito studio, con la solita poltrona scomoda, e i soliti due occhi neri preoccupati e pieni di compassione puntati su di me. Non mi sentivo meglio così, mi sentivo solo più miserabile.
“Beh, ha scritto problemi di fiducia, no?” grugnii, indicando i fogli che la donna teneva in mano.
Lei non si scompose, ma sospirò. “E tu controlli quello che scrivo.”
Abbassai lo sguardo. Beccato.
“Lo vedi? E’ proprio di questo che sto parlando.”
Improvvisamente, cominciai ad ascoltare sul serio quello che diceva.
Forse per esasperazione, perché quella era l’ottava seduta in un mese, o forse perché dopotutto non collaborando facevo buttare via soldi a mia madre.
“John “ disse di nuovo il mio nome, e questa volta un timbro autoritario si era sciolto nella sua voce, ed evidentemente significava che ne aveva abbastanza di sprecare il suo tempo con me.
 “Sei solo un ragazzino. E il trauma che hai subito è profondo. Ma devi sforzarti di accettare la tua nuova vita a Londra, e andare avanti. Non puoi sprecare gli anni della tua adolescenza in questo modo. Devi fare tesoro di tutto ciò che ti succede.”
Il mio sguardo andò a perdersi in un punto fisso della sua faccia, che però non erano gli occhi.
Avevo perso la facoltà di guardare un essere umano negli occhi, dal giorno dell’incidente.
“Non mi succede niente, mi creda.”
 
 
 
 
“Dove ti presenti con quel bastone da zoppo mendicante, tu?”
Alzai lo sguardo dalla mia porzione di uova strapazzate mattutina (striminzita, ma mi riempiva), e trovai mia sorella Harry appollaiata sulla sedia davanti alla mia, con la solita aria strafottente.
“Hai davvero intenzione di andare al tuo primo giorno di college con quel bastone?”
“Non ho molte altre alternative, sai com’è” replicai acido, senza nemmeno degnarmi di mandare giù il boccone, prima di risponderle.
“Ti conviene tentare di apparire figo, per quanto sia impossibile. Smettila di essere uno sfigato , tanto per cominciare.”
“Ti conviene cercare un lavoro serio e smetterla di far lavorare solo mamma. Smettila di bere, tanto per cominciare.”
Mi guardò stizzita, e io tornai a mangiare. Dal giorno dell’incidente era sempre così.
O meglio, era così da sempre, ma dal giorno dell’incidente la situazione tra noi era peggiorata, se possibile.
In molti pensano che tra fratelli ci si dica cattiverie ma in fin dei conti poi si giunga ad una sorta di complicità affettuosa. Beh, fra me ed Harry non era mai stato così. Io e lei ci dicevamo cattiverie semplicemente perché le pensavamo. Io pensavo davvero che lei fosse un’immatura scansafatiche, e lei pensava davvero che io fossi uno sfigato asociale.
“Almeno io non sono andicappata, e la mamma non deve pagarmi l’analista.”
Fu l’ultima cattiveria che mi gettò addosso con espressione truce, per poi alzarsi e andarsi a chiudere in camera sua. Potei sentirla accendere lo stereo e sbattere qualcosa contro il muro, furibonda.
In un certo senso la invidiavo. Lei, se non altro, dal giorno dell’incidente, provava ancora emozioni.
Si arrabbiava, urlava, a volte tornava a casa ubriaca e mi gettava qualcosa addosso.
Io no.
Non sapevo cosa mi era successo. Solo che ogni cosa, ogni piccola cosa, da quando ci eravamo trasferiti a Londra, da quando l’incidente era passato, non mi provocava nulla. Nulla.
Era triste, ma tanto non provavo neppure tristezza.
Lasciavo solo che i giorni grigi e tutti uguali mi scorressero addosso, e poi quando era sera scivolavo nel mio letto in silenzio, aspettando di sentire la porta d’ingresso che si apriva, aspettando o mamma che tornava distrutta dal lavoro, o Harriet ubriaca fradicia. Le sentivo litigare nel salotto, e poi mi addormentavo.
Era triste.
Ma io non lo potevo sentire.
 
 
 
 
E fu così che quella mattina feci la mia entrata nel mondo del college.
Non fu facile, ovviamente. Immaginatevi un po’ un tappo zoppicante appena arrivato da Netley, con una giacca e dei libri di seconda mano. Insomma venivo dalla provincia, la mia situazione economica non era delle migliori, zoppicavo come un vecchietto, ero trasandato e apatico da morire. E la giacca, quella semplicemente mi piaceva, e non volevo cambiarla.
Appena entrato nella classe di Antropologia, captai le prime frecciatine sul mio bastone da un gruppo di ragazze sulla destra. Quindi, fingendo di non sentire, andai a sinistra, occupando un banco a caso, e ritrovandomi vicino un faccione sorridente, tondo, occhialuto e pacioso.
“Ciao” mi salutò il tizio, senza mostrare il minimo disprezzo per la mia giacca, o il mio bastone.
“Scusami…era occupato?”
“No, no. Tranquillo, siediti pure” rise sereno, mentre io sistemavo i miei libri sotto al banco.
“Mi chiamo Mike” attaccò bottone, allungando la mano.
“John” risposi, ma non glie la strinsi, e non riuscii a guardarlo negli occhi. Di nuovo.
“Per me è bello averti qui, sai?”
“Eh? Che?”
“Voglio dire, pare che per ora al corso di Antropologia ci siano solo ragazze. Cominciavo a sentirmi a disagio, fortuna sei arrivato tu.”
“Ah” come al solito, non riuscivo a mostrarmi particolarmente interessato alla conversazione, ma a Mike non sembrò importare, e continuò.
“Tu quali corsi hai scelto? Io faccio Antropologia, Letteratura e Storia. Vorrei insegnare.”
“Ah. Io faccio Antropologia, Biologia e Chimica.”
“Wow, hai scelto dei corsi parecchio difficili!” esclamò, guardandomi ammirato.
Riuscii a tirare fuori un sorrisetto accondiscendente a quel punto, ma nonostante gli sforzi  mi sentii parecchio a disagio, e rimasi in silenzio.
“Cosa ti piacerebbe fare?”
“Ah…non lo so. Cioè, non…con precisione, ecco. Ma credo di voler fare il medico.”
“Sei uno di quelli intenzionati a studiare sodo, eh?” scherzò, dandomi una pacca sulla spalla.
Al contatto fisico, strinsi i denti e piegai il collo all’indietro.
“Tutto bene?”
“Sì…sì, non preoccuparti.”
 
 
 
Le lezioni non erano particolarmente noiose. Eppure per tutta la mattinata pensai ad altro, lasciando vagare la mente lungo le strade al di là della finestra. Lontano da lì, forse addirittura fuori dall’atmosfera terrestre, mentre Mike al mio fianco prendeva appunti concentratissimo.
L’ora di pranzo arrivò, lenta ed inesorabile, trascinandoci tutti a mensa.
Zoppicante e affaticato mi sedetti ancora una volta sul primo tavolo più lontano dalle ragazze della classe di Antropologia che a quanto pareva si muovevano in gruppo senza mai staccarsi, come uno stormo di cornacchie, e ancora una volta, trovai il faccione di Mike ad aspettarmi.
“Ti secca se mi siedo qui?” mi fece, senza cancellare dalla sua faccia tonda il solito sorrisone.
“No, no” spostai il bastone per fargli bastare lo spazio.
Lui si sedette col suo vassoio ,la sua zuppa e una lattina di aranciata, notando il mio misero panino.
“Ah, sei a dieta? Mi sembri un tipo in forma.”
“Non proprio.”
Per un attimo fui semplicemente tentato di dirgli la verità, ma mi resi conto che ‘sai, dal giorno dell’incidente non riesco a mangiare tanto’ sarebbe suonato lugubre, e che soprattutto sarebbe stato fonte di domande indiscrete alla quale non volevo assolutamente rispondere.
Mike aveva appena portato alla bocca la prima cucchiaiata di zuppa, quando dal tavolo affianco un biondino incamiciato nel suo bel completo di marca si fece avanti con un sorrisetto che non mi piacque affatto. "Ma guarda chi si vede…Mike Stamford, come va?”
Vidi il sorriso di Mike eclissarsi come per magia, e le sue labbra divennero una fessura sibilante.
“Ciao, Nathan.”
“Ehi, cos’è quella faccia? Non sei felice di vedermi?” commentò l’altro, ghignando, più che parlando, per poi rivolgere il suo sguardo divertito verso di me.
“E questo chi è? Un tuo amichetto? Carino. Cosa fa, le medie?”
“Nathan, piantala…”
“Uh, e questo cos’è? Un bastone? Oooh, il piccolo è zoppo.
Complimenti, Stamford! Dieci e lode per i servizi sociali.”
“Nathan, non è divertente.”
Capii al volo che non si trattava di un amico, ma di uno dei soliti fighetti arroganti e presuntuosi.
La prima cosa che aveva fatto era stata appellarsi alla mia bassa statura per tentare di irritarmi, e questo non faceva altro che alimentare in me la sicurezza che fosse lui il più simile ad un bambino delle medie.
Mi armai della mia migliore faccia del ‘chi se ne frega’ e mi rivolsi a Mike: “Allora, che stavamo dicendo?”
“Beh…ti avevo chiesto se eri a dieta” balbettò il mio compagno di banco, non capendo bene la mia reazione. “No, Mike, non sono a dieta. Mangio poco, così posso digerire queste teste di cazzo.”
La faccia del biondino fu impagabile.
Mike, di fronte a me, sgranò gli occhi, esterrefatto.
Non potei godermi le loro espressioni per molto, perché a quel punto il mio pranzo e il mio bastone furono scaraventati malamente per terra, e quello stronzetto mi prese per la giacca, sollevandomi praticamente di peso. “Ma bravo, piccolo zoppo, sei coraggioso” sibilò a un centimetro dalla mia faccia “ma ‘coraggioso’ è solo un altro modo di dire ‘stupido’!” ruggì poi, e mi lasciò cadere al mio posto, per poi girare i tacchi e sfrecciare via. Mike rimase a fissarmi come se avessi appena trovato la cura per il cancro. Solo dopo qualche minuto di silenzio si affannò a raccogliere il mio bastone per porgermelo.
“Scusami” pigolò atterrito, come se fosse stata colpa sua “E’ Eric Nathan, facevamo il Liceo insieme. Non è esattamente uno stinco di santo. Stai bene?”
“Sì, sto bene, tranquillo.”
“Prendi un po’ della mia zuppa.”
 
 
 
“Com’è andata?”
Tornato la sera trovai Harry intenta a non fare un bel niente, come suo solito, stravaccata sul divano.
Mi guardava soddisfatta con l’espressione di chi la sapeva lunga, sorseggiando una lattina di birra che aveva l’aria di non essere la prima della giornata.
Senza risponderle, zoppicai verso camera mia.
“Mamma ti ha lasciato il pasticcio di tonno nel forno!” mi gridò dietro.
Non avevo fame. Non avevo niente.
Mi chiusi in camera. Ancora vestito, mi infilai nel letto.
Mi raggomitolai sotto le coperte, in profondità, lasciando che il buio mi inghiottisse per un po’.
Cercai con tutte le mie forze di far finta che niente di ciò che avevo visto quel giorno esistesse.
Non esisteva il mio college. Non esistevano le cornacchie del corso di Antropologia. Non esisteva Mike Stamford. Non esisteva Eric Nathan.
Niente. Non esisteva niente. Mi resi conto che era impossibile e mi domandai se a quel punto io, inghiottito da quel buio amico, potessi smettere di esistere. Semplicemente, smettere di esistere.
Non morire. Non suicidarsi, lasciare biglietti strappa lacrime, facendo piangere la mamma.
Solo, scomparire come se non fossi mai esistito.
Non voglio esistere.
Non voglio esistere.
Non voglio esistere.
E fu con quel pensiero in testa che chiusi gli occhi e mi addormentai, senza avere sonno.
 
 
 
La mattina dopo fu la volta del corso di chimica.
La maggioranza era composta da ragazzi, che non mancarono comunque di sghignazzare alla vista della mia andatura zoppicante. Qualcuno azzardò un ‘poveretto’, che se possibile mi irritò ancora di più.
 Ancora una volta, mi voltai semplicemente dalla parte opposta, occupando un banco a caso all’ultima fila. Fu con mia grande sorpresa che dopo pochi minuti, una ragazza prese posto vicino a me.
“E’…è occupato?” mormorò timidamente, senza posare la borsa.
“No, no. Siediti pure.”
Mentre si sistemava, non potei fare a meno di notare quanto fosse discretamente carina.
Teneva gli occhi bassi, ma in ogni caso non glie l’avrei guardati. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo, era castana. Labbra sottili e pelle chiara. Sembrava a disagio, e stringeva l’estremità del suo maglioncino tra le mani, tormentando la stoffa con le dita.
Non provai ad instaurare una conversazione, ma nemmeno lei sembrava averne voglia.
Anzi, ad un tratto rimase a guardare fisso un punto dell’aula, distante da noi.
 “Tutto ok?” chiesi, cercando di capire dove il suo sguardo andasse a posarsi esattamente.
“Ah!” arrossì tutto di un botto, e si voltò fulminea verso di me, cercando di incontrare il mio sguardo, non riuscendoci, ovviamente. “S-sì, no…scusami!”
“Scusami di che?” domandai, tentando di apparire rassicurante, ma evidentemente non riuscii nell’intento, perché la poveretta fece una faccia terrorizzata, arrossendo di nuovo in modo esponenziale.
Spostò solo le pupille, ma ancora una volta vidi il suo sguardo perdersi in prima fila.
Di sottecchi, guardai anch’io, e vidi un tizio di spalle che stava di banco da solo, tutto indaffarato col microscopio. Sembrava davvero concentratissimo, ma mai quanto la mia nuova compagna di banco lo era su di lui. Provai ad attirare la sua attenzione inclinando la testa, ma fu tutto inutile. Era imbambolata.
 
 
La lezione fu lunga. La più lunga della mia vita.
Innanzi tutto, scoprii con grande disappunto che la chimica era un vero incubo. Non avevo capito una sola parola della spiegazione. In compenso, la mia compagna di banco sembrava capire tutto e appuntare con estrema velocità e precisione. Ogni tanto, la beccavo con lo sguardo nuovamente perso sul tizio di spalle, ma poi tornava subito a scrivere, a testa bassa e con le labbra serrate.
Mi sentii infinitamente fuori luogo.
Quando la lezione fu finita e ci fu dato qualche momento di pausa, ero talmente sconfortato che la ragazza al mio fianco abbandonò con gli occhi il suo principe azzurro per accorgersene.
“Hai qualche problema?”
Ero veramente tentato di dirle che quella che sembrava avere problemi era lei, ma mi calmai interiormente, e sospirai un lieve “Sì” che fu molto più esplicativo di mille parole.
“Ah…non so…non so se può esserti utile, ma se vuoi…posso darti una copia dei miei appunti.”
Annuii, sollevato. Magari era un po’ svampita, ma se non altro era gentile.
“John Watson.”
“Eh?”
“Il mio nome.”
“Ah! Io mi chiamo Molly. Hooper.”
Sorrise dolcemente, e ancora una volta mi sembrò carina. Ma non osai guardarla negli occhi.
Qualcosa di simile ad un’intesa, per un solo attimo, sembrò circondarci.
BAM
Non so esattamente secondo quale legge fisica, ma circa un decimo di secondo dopo, mi ritrovai con un tomo di Biologia spesso quanto la Bibbia sul piede. Mi piegai all’indietro e caddi come un idiota, portando giù con me tutta la sedia, di fronte agli occhi sgomenti di Molly che balbettò tutte le scuse possibili e immaginabili, cercando di rialzarmi.
Tutta la classe si girò. Qualcuno guardava la scena con gli occhi spalancati, altri scoppiarono in un boato di risate degno dei peggiori bulletti del Liceo. Qualcuno mi chiese se stavo bene.
Non stavo bene per niente, perché tutti guardavano me.
Tutti, tranne il principe azzurro di Molly.
Lui no. Lui rimase di spalle, ancora concentrato sul telescopio.
 
 
“Oggi è andata meglio, sfigatello?”
Stessa solfa ogni singola sera, quindi. Ancora una volta Harriet sembrava intenzionata a sfottermi per bene dall’alto dei suoi ventidue ridicoli anni – che per quanto mi riguardava erano solo simbolici, mentalmente non esisteva al mondo qualcuno più immaturo di lei - con una lattina di birra in mano e la borsa, pronta per uscire e andare in qualche sfavillante pub con un’amica, buttando al cesso quel poco di paghetta che mamma riusciva a darle. Era già visibilmente brilla.
“Perché non mi lasci in pace, Harry!” sbottai, innervosito, trascinandomi ancora verso camera mia, zoppicando. Questa volta, oltre alla gamba, dovevo vedermela con l’assurdo livido che Molly Hooper aveva pensato bene di infliggermi quella mattina, sebbene involontariamente.
“Vola basso, idiota! Da quando ti permetti di alzare la voce con me?!” strillò senza un contegno, rovesciando gran parte della birra sul tappeto. Mamma sarebbe tornata stanca morta dal lavoro e avrebbe trovato quello schifo da ripulire? Era troppo.
“Adesso piantala! Sai una cosa?! Mi sono stancato di te! Ogni giorno non fai che ripetere quanto sono sfigato e quanto peso alla mamma! Beh, prova a darti un’occhiata! Qui tutti si ammazzano di lavoro o di studio per cercare di dimenticare quel dannato incidente, e tu continui a ubriacarti e a farla da padrona, lasciando tutto sulle spalle di mamma!”
Harry si avvicinò. Barcollante, ma infuriata, senza neanche pensarci mi mollò un ceffone in pieno viso, facendomi cadere a terra per la seconda volta nella giornata.
Feci per protestare, ma ad un tratto si mise a piangere.
“Dì quello che vuoi, John” singhiozzò, sconvolta “ma almeno io quel dannato incidente l’ho dimenticato sul serio. Io almeno non sono un dannato automa. Io almeno piango, e cerco di annegare i problemi come un essere umano. Io almeno riesco a guardare mamma negli occhi” si asciugò frettolosamente le lacrime col dorso di una mano e con l’altra agguantò la borsa. Uscì sbattendo la porta di ingresso.
Non mi alzai da dove ero. E non piansi. Perché era vero. Tutto vero.
Harry si ubriacava. Harry piangeva. Harry litigava con mamma. Harry, se non altro, faceva qualcosa.
Io mi lasciavo scorrere tutto addosso, tutto, tutto, ogni cosa. E non avevo pianto, mai, neanche una volta.
Mamma era spaventata da me.
Ero diventato una macchina. Ero un mostro.
Niente occhi, niente occhi, mai.
Mi raggomitolai sul pavimento, ed esercitai il mantra della sera precedente.
Non esisteva la chimica. Non esisteva Molly Hooper. Non esisteva il ragazzo di spalle. Non esisteva il mio livido. Non esistevo io.
Non voglio esistere.
Non voglio esistere.
Non voglio esistere.
 
 
 
 
Ci sono quei momenti in cui stavi pensando una cosa in particolare, e tutto ad un tratto un circolo di pensieri a catena ti porta ad una conclusione finale che non c’entra assolutamente niente col tuo pensiero iniziale. E tu, tutto preso a domandarti dell’esistenza di Dio, ti ritrovi a chiederti come sei potuto arrivare alla conclusione che farsi la doccia con la coca cola potrebbe essere un’idea divertente.
Nel mio caso, a mensa, quel giorno, era successo esattamente l’inverso.
Mi ero sforzato di pensare qualcosa di stupido, di divertente, qualcosa che mi evitasse di pensare veramente. E alla fine, ero finito per domandarmi il perché della mia ridicola e patetica esistenza.
Forse perché non c’era Mike al mio tavolo come nei giorni precedenti, e la solitudine si faceva sentire.
Ma non potevo chiamarla così. Perché, tanto per cambiare, non provavo un bel niente.
Stavo lì nel mio grigio, fingendo di non esistere, il bastone in una mano, la posata nell’altro, ma non mangiavo.
“Tenetelo fermo!”
Un sibilo impercettibile arrivò dal retro del bancone. Tre ragazzi appartati, tra cui riconobbi Nathan, ne stavano spintonando un altro, leggermente più basso. Il poveraccio si dimenava, intenzionato a difendersi, ma ovviamente si trattava di uno scontro tre contro uno. Potei distintamente vedere come Nathan sghignazzò compiaciuto, prima di piazzargli un cazzotto sullo stomaco, che fece torcere la povera vittima.
Sentii il battito aumentare, e gli occhi spalancarsi senza un vero motivo.
Mi guardai intorno, velocemente.
“Ehi, c’è nessuno che- Ehi! Ehi, lì c’è una ragazzo che-“
Cos’era? Stavo gridando? Ero allarmato?
La folla di studenti sembrava non sentirmi, non vedermi, non esistevo.
Non esistevo sul serio. Ma diamine, era il momento più sbagliato del mondo per non esistere.
Quel ragazzo era nei guai!
Mi sollevai con foga con il bastone. Zoppicante, come al solito – stupida idiotissima fottuta gamba! - mi precipitai verso Nathan. Io davvero non lo so cosa cavolo credevo di fare esattamente in quel momento, fatto sta che lo tirai per la giacca, praticamente costringendolo a fare un  passo all’indietro.
Il biondo si girò, interrompendo la sua violenta attività, sovrastandomi con un ghigno sulle labbra.
“Guarda guarda. Il piccolo Watson” fece, fischiando con sarcastica ammirazione “L’avevo detto io, che eri fin troppo coraggioso. E adesso sentiamo, che vorresti fare?”
Non ero mai stato un tipo incline alla violenza. Certo, qualche rissa al Liceo. Roba da ragazzi, e alla pari.
Mai, mai, avevo dovuto fronteggiare un simile bestione biondo accompagnato dai suoi tirapiedi.
E giuro, non so cosa diavolo mi passò per il cervello, ma lo feci.
Un pugno.
Sulla mascella di Nathan. Forte, come mai l’avevo dato in vita mia.
Ben assestato, tanto che il bastardo ne fu totalmente spiazzato. I due ragazzi, scioccati forse quanto lui, mollarono la presa sul povero sventurato. Non avevo idea di che cosa stesse accadendo, né perché lo stessi facendo, e neanche perché tutto ad un tratto avessi cominciato ad esistere, in modo così prepotente e violento da togliere il fiato. Senza nemmeno guardarla in faccia, presi per il polso la vittima.
“Corri!” gridai. E non avevo mai gridato così.
Il ragazzo non fece la minima resistenza, e corremmo.
Via, giù, fuori dalla mensa, lontano nel corridoio, lontano da Nathan, lontano dagli altri due balordi.
Non sapevo neanche dove stessimo andando, ma correvo, correvo, senza mollare la presa sul polso del tizio. Correvo e correvo, anche se zoppicavo ancora, sentivo l’aria in faccia, sentivo il fiatone, e sentivo il fiatone del mio compagno di disavventure dietro di me.
Corremmo e corremmo per un tempo che mi parve infinito.
Un tempo infinito in cui esistevo.
 
 
 
Eravamo fermi.
Non ci guardavamo.
Accasciati per terra, appoggiati al muro, ansimanti, sudati.
Eravamo lì ormai da un paio di minuti. Nessuno di noi due sembrava voler dire una parola.
Lo sconosciuto non si girò a guardarmi. Io non mi girai a guardare lui.
Questa volta però, non fu solo la mia paura di guardare gli occhi di qualcuno, era il fiatone.
Tenni lo sguardo basso, strizzando le palpebre ogni tanto, per quella che mi parve un’eternità.
“Mi presti il cellulare?”
“Che?”
Alzai gli occhi.
Altri occhi. Altri occhi. Gli occhi di qualcun altro.
In quel momento,  feci probabilmente una faccia stravolta. Mesi. Erano passati mesi da quando non guardavo nessuno negli occhi. Erano i primi occhi che vedevo da mesi. E non seppi se per quello, o per il fatto che erano due fessure azzurre di cielo (o forse verdi di mare?), mi ritrovai a piegare le labbra in un mezzo sorriso. Lo sconosciuto mi guardava. Mi guardava fisso coi suoi occhi cerulei, e non mi lasciava scampo, non mi aveva dato tempo di abbassare lo sguardo, di girarmi, o di fingere di aver visto qualcosa di molto interessante sulle mie scarpe.
“Puoi prestarmi il cellulare?” scandì di nuovo, come per farmi capire bene. “Il mio ce l’ha quell’idiota di Nathan” aggiunse poi, pronunciando quel nome con una buona dose di disgusto.
“Ah…certo. Tieni” tirai fuori il cellulare dalla tasca, e glie lo porsi, senza farmi troppe domande.
Ebbi tempo per osservarlo, mentre digitava rapidamente un messaggio.
Era più alto di me (bah, e chi non lo era in quel dannato posto?) ma ad occhio e croce, avrei detto si fosse trattato di uno studente del mio stesso anno. A parte gli occhi invidiabili, poteva vantare un viso delicato, con zigomi accentuati, e una scomposta capigliatura di ricci mori che si riversavano sulla fronte.
Mentre io avevo concluso la mia analisi, lui mi aveva restituito il cellulare, non smettendo di guardarmi negli occhi in modo fin troppo intenso per me.
Erano mesi che non guardavo negli occhi nessuno, davvero, e quell’unico contatto di sguardi fu come vedere il sole brillare dopo che si è stati troppo tempo al buio.
“Grazie” disse poi, con un tono decisamente atono e pacato per qualcuno che stava scappando dai bulli solo cinque minuti prima. Mi comparve una smorfia sulla bocca.
“Di niente. Erano in tre contro uno, dopo tutto.”
“Oh, parlavo del cellulare.”
Sconcertato, alzai un sopracciglio, ma non feci in tempo a ribattere, perché il moretto si era già alzato in piedi, dandosi qualche pacca sull’estremità della camicia bianca, per pulirla.
“Anche se devo ammettere che sei tremendamente coraggioso, per essere un ragazzo che fa tutto da solo, con il padre morto e un disturbo psicosomatico alla gamba. Brutto incidente, eh?”
Il tempo si fermò.
Immagini.
Vetri rotti. Mani insanguinate. Occhiali da vista a terra. L’auto ribaltata.
E papà. Papà.
L’incidente.
Non ne avevo parlato con nessuno. Mai.
L’incidente che aveva ucciso mio padre, seduto di fianco a me.
L’incidente che mi aveva sconvolto, reso apatico, freddo, ed impossibilitato a vivere a Netley.
L’incidente che ci aveva fatto trasferire a Londra per dimenticare.
L’incidente che mi aveva causato quel continuo zoppicare, anche se la mia dannata gamba era sanissima, e che la mia analista aveva immediatamente diagnosticato come psicosomatico.
E lui, lui sapeva dell’incidente.
“Tu…” ringhiai, accecato da un’ira che raramente avevo provato in vita mia “tu, come diavolo fa a saper—“
“Non essere ridicolo. Non lo so. L’ho solo notato.”
Roteò gli occhi, come seccato dalla mia rabbia, e senza darmi il tempo di sfuriare ulteriormente, proseguì:
“Porti un bastone e zoppichi, certo, ma non appena hai visto che ero in pericolo sei riuscito a tirare fuori la forza necessaria per correre. Si tratta certamente di un disturbo psicosomatico. Ora, l’incidente.”
Nulla riuscì a fermarlo. Neppure il mio sguardo devastato e implorante.
“Hai subito un forte trauma fisico, sicuramente, ma senza essere del tutto danneggiato. Statisticamente, un incidente d’auto era la cosa più probabile. Ma questo non basta per causare un trauma simile anche dal punto di vista mentale. Evidentemente, qualcuno era nella macchina con te. Qualcuno a cui tenevi molto e che era di gran sostegno per te, e che una volta venuto a mancare, ti ha lasciato zoppicante. Si può benissimo capire dalle tue occhiaie. Dormi poco. E soprattutto, mangi poco. I tuoi vestiti sono piuttosto larghi, questo vuol dire che prima avevi qualche taglia in più.”
E tutto ad un tratto, arrivò un’ondata di emozioni.
Rabbia, forte e spietata. Voglia di spaccargli la faccia, ma allo stesso tempo, voglia di sentire il seguito.
Sorpresa, perché mai mai mai e poi mai, mi sarei sognato di assistere a qualcosa di simile.
“Ma ora, veniamo al fatto che ti devi occupare di te. Hai i vestiti sgualciti, nessuno te li stira. Accosti i colori  a casaccio, e nessuno te lo fa notare. Sulla tua guancia ci sono dei residui di dentifricio: nessuno la mattina te lo dice, nessuno ti pulisce o ti saluta quando esci dalla porta.
E’ evidente che tua madre sta lavorando giorno e notte per colmare il vuoto finanziario lasciato dal tuo defunto padre.”
Giurai che fosse compiaciuto nel vedere la mia faccia totalmente smarrita.
“Grazie per avermi prestato il cellulare.”
Si girò per andarsene.
Quelle parole suonarono un po’ come delle scuse. Come se fosse consapevole di avermi sconvolto, ma non fosse in grado di capire a fondo come ci si potesse sentire.
O forse, mi ero solo rincretinito totalmente.
“Aspetta!”
Si rigirò, sbuffando, forse aspettandosi una qualche filippica sulla sua uscita poco felice.
E forse quello doveva essere il mio vero intento, ma non lo era. Semplicemente, non lo era.
“Tutto qui? Ti ho appena salvato, hai appena scoperto tutta la mia vita, e non so neanche chi sei, né come ti chiami!” proclamai tutto ad un fiato, scattando in piedi, artigliato al mio bastone.
Un impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia, e per quanto fosse sadico, non potè sembrarmi più dannatamente sincero.
“Il nome è Sherlock Holmes. Sono il primo consulente investigativo al mondo.”
E mentre lo vedevo diventare un puntino lontano nel corridoio del college, non riuscii a pensare a niente.
Riuscii solo a ripetermi il mio mantra, all’inverso.
Il pugno che avevo dato esisteva. La corsa che avevo fatto, esisteva.
Io, io esistevo.
Sherlock Holmes esisteva.
Ho voglia di esistere.
Ho voglia di esistere.
Ho voglia di esistere.


 
  
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