sinéad.
<< Ognissanti era la fine dell’Estate, per noi. Sempre e comunque, anche se faceva già freddo da settimane. Ognissanti è sempre stata la fine, per noi. L’ultimo giorno d’estate, con il grano arancione mietuto e riposto nei magazzini e il nero dell’inverno appena più a ovest. Il sole si spostava, ad Ognissanti. Ci piaceva rincorrerlo, un metro al giorno: e io e te credevamo di poterlo afferrare, ma l’inverno incombeva su di noi come una notte lunga chilometri.
Ricordi? Dicevi che i miei capelli erano il tuo sole
invernale: quando le giornate si accorciavano e la sera arrivava presto, tu
scappavi dalle tue stanze e venivi a prendermi. Ricordo ancora il rumore del tuo
corpo che saltava lo steccato – i muscoli
tesi, le caviglie agili, le zolle di terra spostate dal tacco dei tuoi stivali,
poi il respiro affannato per la corsa, il rumore dei sassolini sui vetri e la
porta che cigolava, lenta.
Quando entravi in casa era impossibile sentirti, ma quando io varcavo la soglia dei tuoi appartamenti, su, al Castello mi sembrava di essere un gigante. Ed effettivamente dovevo pesare come un gigante, ed avere la voce di un gigante e muovermi come un gigante: facevo cadere le cose e la mia risata era un affronto in quel silenzio di quadri. Ricordo perfettamente i loro sguardi su di noi, ogni qual volta salivamo le scale per arrivare alle tue stanze: analizzavano con occhio cinico tutte le cuciture dei miei abiti, le unghie non pulite perfettamente, le foglie nei capelli. E disapprovavano. Disapprovavano sempre. Tu dicevi che disapprovavano perché noi eravamo vivi.
Ogni volta che arrivavamo in cima inciampavo nello scalino prima del tappeto: la piega del tessuto nero era impossibile da distinguere e così io nella foga cadevo e mi sbucciavo i ginocchi. Caddi anche quando fu il giorno del tuo compleanno: risparmiando per più di tre mesi avevo acquistato per te una boccetta di profumo di menta che, poi, finì tutta versata sul tappeto della tua stanza. Fu lì che mi avesti per la prima volta e fu come essere fuori, nella notte, in un prato coltivato a menta ed essere contemporaneamente in cielo. Vieni qui, lasciati accarezzare. Non ti va di spegnere il fuoco? >>
Hermione che non era Hermione si stese accanto a lui, guardandolo. Le labbra erano appena dischiuse e il suo alito era caldissimo e dolce e intenso. Harry non si meravigliò della sua eccitazione: era un ragazzo normale, aveva 17 anni e c’era quell’odore strano che, - era sicuro – non proveniva dalla sua stanza, ma da lei, dal suo interno, da Hermione che gli leccava il lobo dell’orecchio, sussurrando:
<< Spegniamo il fuoco, vuoi? >>
Quell’alito caldo che (di cosa sapeva, insomma? Zucchero bruciato? Miele?) Hermione faceva scivolare sul suo collo rendeva Harry rovente. Le mani di lui si mossero cercandone i seni sotto il pull, poi lo stomaco e l’ombelico. Le pieghe della gonna avevano lo stesso movimento delle fiamme: faceva caldo.
<< Vuoi? >> lo aveva sussurrato sui suoi occhi.
Si.
Hermione sorrise e le fiamme si paralizzarono, poi tremolarono, infine si spensero.