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Autore: Koa__    24/11/2014    14 recensioni
John Watson, scrittore di successo, è un ex militare che si porta dietro un matrimonio fallito e una zoppia psicosomatica. Dopo quattro romanzi, tra cui spicca il best seller: "Blu come la neve", John è tormentato da un blocco che gli impedisce di scrivere. Dopo essersi concesso una vacanza di due settimane a Siviglia, sul treno che lo deve riportare a Londra, incontra uno strano tizio. Un violinista con la passione per le investigazioni, un certo Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Blu come la neve'
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Note ovvero Che succede? Succede che quando si hanno sei idee diverse per un finale, di solito, si rimanga bloccati per giorni. È più o meno ciò che è successo a me, non sapevo bene da che parte girarmi. Avevo tante idee, troppe. Ma alla fine ciò che più di tutto desideravo, era il mantenere quest’aura irreale che c’è per tutta la storia. Essendo questa una trama ispirata da un brano di Bach e da un film di Woody Allen, volevo che ci fosse la medesima atmosfera un po’ da sogno. Ah, il film è Midnight in Paris e… perché ve lo dico solo alla fine? Bah, insomma, con tante cose che avrei potuto raccontare, ho preferito mantenere l’inconsistenza letteraria di un finale esclusivamente narrativo. Che tradotto: non succede un accidenti di niente e ve lo beccate così.
Enjoy.
Koa




Blu come la neve
 


L’aria fresca della notte parigina non gli è d’aiuto. John non se ne fa proprio niente né dell’atmosfera bohémien di cui sono intrisi i caratteristici viottoli, né della visione della Tour Eiffel che fa capolino tra i palazzi. John Watson non ha bisogno di niente, la romantica Parigi è inutile e vorrebbe soltanto prendersi a sberle. Ha trascorso ore ed ore a ripetersi di non definire la sua attrazione per Sherlock con il termine amore, perché è sbagliato e soprattutto è troppo presto, eppure è bastato vederlo baciarsi con una donna per dichiararsi follemente innamorato di lui. Non è giusto, non è possibile che lo sia: lo conosce da un giorno e non si possono provare simili sentimenti tanto rapidamente. Mai ha avuto un colpo di fulmine, né una singola volta ha riposto tanta fiducia in un’altra persona tanto in fretta. Ad esempio, non è caduto ai piedi di Mary la prima volta che l’ha vista come ha sentito di star facendo con Sherlock durante il concerto. Perché con quel violinista sembra essere tutto diverso? Ovviamente, deve considerare che la sua ex moglie l’ha incontrata la prima volta al funerale di sua madre dove non era decisamente in vena di flirtare con chicchessia. Ma il fatto non cambia che si sia innamorato di un tizio che conosce appena. No, si impone mentre appoggia le mani sul muro fresco, non è il momento ripensare al suo matrimonio e non deve neanche mettersi a fare dei confronti, anche se (in effetti) l’ha fatto più e più volte nelle ultime ore. La sola cosa a cui deve pensare adesso è a come fare per tirarsi fuori da questa situazione orrenda in cui si è cacciato. I suoi timori si sono in fine avverati: lo ha visto baciarsi con una donna ed era così scontato che ce l’avesse, era ovvio. Pensieri, infinite seghe mentali, discorsi sull’amore vero e l’anima gemella, tiritere senza senso sul: Sherlock mi ha cambiato la vita, mi ha salvato da me stesso. Un’intera notte a ripetersi che voleva baciarlo, stringerlo a sé e farci l’amore, perché poi tutto quanto finisse in questo modo? Sapeva perfettamente di star rischiando correndogli dietro, ma la peggiore delle ipotesi vedeva Holmes cacciarlo via in malo modo. Di sicuro non si sarebbe mai aspettato di trovarlo abbracciato ad una ragazza, né che il suo cuore si spezzasse in così tanti piccoli pezzi. Come farà a rimettere insieme i cocci? No, non ci voleva proprio specialmente adesso che stava rinascendo a nuova vita. Ma gli sta bene, si ripete battendo il pugno contro al muro di pietra dell’edificio a fianco del teatro, si merita di starci male perché solo un cretino come lui, un illuso sentimentale, avrebbe potuto sperare di poter avere un uomo come Sherlock Holmes. Nonostante sapesse perfettamente che era impossibile, si è crogiolato lo stesso nell’ipotesi che avrebbe potuto funzionare. Si era detto che se gli aveva lasciato Billy ci doveva pur essere un significato nascosto, una ragione, altrimenti perché non limitarsi a sparire nella notte senza lasciar traccia di sé? Speranza. Quella bastarda che ancora, e nonostante tutto, non lo vuole mollare. Adesso è lei a dominarlo, ad invadergli il cervello, a sconvolgergli i pensieri. La speranza d’aver capito male, di aver sbagliato ad interpretare quello che, magari, poteva essere un bacio tra amici. Già e quali amici si baciano in quel modo?No. Non si può permettere di illudersi perché fa male, fa un male del diavolo. Essere cieco, ora come ora, non gli serve a niente: il suo cuore è ugualmente in mille pezzi. Forse deve solo limitarsi ad ammettere una volta per tutte che ha sbagliato, che capita a tutti commettere un errore di valutazione. Dovrebbe, ma ancora non è capace di lasciarlo andare e non riesce a dichiararsi sconfitto. Perché la speranza è ancora lì, se ne sta acquattata in un angolo, va e viene, lo abbandona e lo domina, lo lascia e lo conquista. Lo stravolge. Fino a quando non si ritrova ad inveire contro sé stesso, di nuovo. Sta per prendersi a sberle, ma si congela nel momento in cui sente la porta di ferro alle sue spalle sbattere violentemente. Lui è lì. Lo ha raggiunto; perché lo ha fatto? John non sa più cosa pensare, Sherlock Holmes lo confonde completamente. Come mai adesso gli corre appresso? Respirare, deve respirare. Chiude gli occhi, incapace com’è di pensare lucidamente, sa che se si voltasse probabilmente gli cadrebbe tra le braccia e non lo vuole, ha bisogno di mostrarsi forte e deciso. Solleva il volto, però ancora non è in grado di girarsi. Non è materialmente capace di incrociare il suo sguardo e non deve neanche inalare il suo profumo che ora, prepotente, gli inonda le narici e lo stordisce. Già, perché Sherlock è lì e gli è tanto vicino, che trattenersi è a tratti persino doloroso. Pertanto inspira e lo fa lentamente, tentando di sedare il desiderio di picchiarlo misto a quello d’abbracciarlo e stringerlo forte, così come di sopprimere l’istinto barbaro di saltargli al collo e farlo suo contro quel muro. Rischia addirittura di cedere più di una volta ed è costretto a ricorrere a tutta la disciplina acquisita in anni di addestramento militare, per controllarsi. Tutta durezza che viene meno, imposizioni che si sciolgono come neve al sole, appena Sherlock sussurra il suo nome. È troppo languido il suo tono, troppo baritonale la sua voce e i nervi gli cedono inesorabilmente. Le mani addirittura gli tremano, tanto che è costretto a serrarle in due pugni stretti perché la smettano.

«John» si limita a dire e, cavolo, non deve stargli così addosso. «Che fai qui, John?» domanda, facendosi sempre più vicino tanto che basterebbe un soffio per finirebbe nel suo abbraccio. Non deve. Lui è forte e deciso. Ed è con quella determinazione che si volta, lo fa lentamente e imponendosi una tranquillità che di certo non possiede, ma che è necessaria. Poi solleva lo sguardo e trema di nuovo perché, al cospetto di quel paio di grandi occhi sgranati, non riesce davvero a mantenere tutta la fermezza che occorrerebbe. È istintivo, il suo indietreggiare fino a ritrovarsi premuto contro la parete. Sa di dovergli parlare e che Sherlock pretenderà di sapere che cosa è venuto a fare fino a lì, deve solo farsi forza e non fuggire via. Quindi prende un grande respiro, mentre fa di tutto pur di non incrociare i suoi occhi magnetici, indagatori e bastardi, come solo quelli di Sherlock Holmes sanno essere. Infine e dopo lunghi istanti di indecisione, preso da un impeto di orgoglio improvviso, si decide a sollevare lo sguardo. Sostenerlo è un’impresa e, oddio, è sempre stato così bello? No, calma. Gli dirà tutta la verità; mentire d’altra parte sarebbe perfettamente inutile.
«Sono venuto a darti il tuo teschio» esordisce, dopo aver estratto Billy dalla tasca nella quale era nascosto. «O forse dovrei dire che son qui per riportarti il tuo amico. Oltre a questo ti volevo anche ringraziare, perché se adesso sono davanti a te e senza un bastone, se parlo con i giornalisti del romanzo che ho iniziato a scrivere mentre venivo in treno da Londra, se mi sono fidato di un estraneo per la prima volta in vita mia inseguendoti fino a Parigi, se giro per una città di cui non parlo la lingua, il merito è soltanto tuo. Io non so cosa tu mi…» Ma si interrompe perché non ha il coraggio di aggiungere altro, anche se ci sarebbe un universo intero di parole da dire e di spiegazioni da snocciolare, preferisce non continuare. Mantenere i rapporti sul formale gli pare la scelta migliore, inoltre starsene zitto è molto meno umiliante di dirgli che lo ama alla follia e che si prostrerebbe ai suoi piedi.
«Penso sia meglio che torni dalla tua ragazza» borbotta, accennando alla porta chiusa. Dopo si scosta e fa per andarsene, ma a quanto pare il violinista non è della sua stessa idea, visto che lo afferra per un braccio e lo trattiene. Poi gli parla con una voce che, cielo, se ne deve andare da lì e possibile che non lo voglia liberare da quella tortura? Già, perché stargli vicino al punto da riuscire a percepire il calore del corpo, è terribile. Così come il sentirlo parlare. Oltretutto è anche costretto a sorbirsi i suoi occhi, che si sente addosso di continuo dal momento in cui lo ha raggiunto. Tutto questo, sommato al fresco ricordo del fenomenalmente orgasmico concerto, è davvero troppo per J. H. Watson, ex maggiore del terzo reggimento Nothumberland.
«Ti devo un bacio» gli sussurra, accentuando la stretta sul suo braccio. E sì, il cuore di John prende a galoppare ed è senza controllo, senza più freni. Il tocco è intossicante e le dita strette attorno alla stoffa della giacca sono assurdamente calde e stringono con vigore. Prova a ribattere, ovviamente, tentando pateticamente di divincolarsi, ma Sherlock è troppo determinato perché John riesca ad essere glaciale. In fondo, non vuole fuggire per davvero. Non era poi neanche contrario a scassinare una porta per stanare un ladro di gioielli, o ad andargli dietro fin lì.
«Io…»
«Voglio fare una cosa, John» lo interrompe, subito. «Promettimi che non ti muoverai e che starai assolutamente fermo.» Non dovrebbe. Non dovrebbe? Non dovrebbe. E a convincerlo del fatto che sarebbe più saggio fuggire sono le sue paure e nient’altro, non è il raziocino, né quel suo cuore pazzo che fino a poco fa era convinto d’essere spezzato, ma che adesso pare già dimentico di quella sofferenza. Sembra aver già scordato la donna che era con Sherlock e lo baciava. Pertanto si ritrova ad annuire, prima di lasciarsi cadere contro al muro. Non farà niente per fermarlo o per fuggire, perché gliel’ha promesso. Anche se più lo vede avvicinarsi, più si rende conto che non potrebbe muoversi neanche se lo volesse: è pietrificato, John e dopo che Sherlock posa le labbra sulle sue, in un tocco delicato e dolce, è ancora più sconvolto. La bocca è morbida come ricordava. Le labbra sono fresche e il fiato caldo sa di menta. Il suo odore forte, intossicante e gli stordisce i sensi, le mani che stringono con forza le sue braccia sono forti, prepotenti, possessive e lo attirano a sé. Il bacio non è approfondito, non c’è lingua ed è solo un tocco, prolungato e bellissimo, ma non è quello che John sognava di dargli. E, inoltre, dura decisamente molto poco. In effetti è molto simile a quello che si sono scambiati sul treno, soltanto che adesso quello sconvolto e pietrificato non è Sherlock. I ruoli sono stranamente invertiti e, come se ciò non fosse sufficiente, ancora non ha idea di che cosa questo bacio significhi. Per una qualche ragione, Sherlock si sente in debito? O si tratta di una sorta di vendetta? Non sa, lo conosce ancora da troppo poco tempo per afferrare simili sfumature e poi, John è stanco, confuso e Sherlock Holmes è immensamente criptico. Lui non è mai stato un amante dei misteri, ama le cose chiare e dichiarate, ama la verità e che le persone dicano ciò che sono ammettendo sé stesse fino in fondo, ma con Sherlock… insomma gli pare un mistero che valga la pena svelare.
«Non ho mai baciato nessuno in vita mia» lo sente confessare, dopo che si è allontanato. Tiene sguardo è basso, Sherlock, ha un tono incerto e le guance sono lievemente tinte di rosso. «Non sono mai stato interessato a ricambiare le attenzioni di nessuno. Neanche di Irene che non è la mia ragazza, infatti è lei ad aver baciato me e non il contrario. Ero sincero quando ti dicevo che Billy è l’unico amico che abbia mai avuto. Il fatto è che non mi piace avere a che fare con le persone, si può dire che io detesti la maggior parte di loro. Intrattenere con chiunque un rapporto intimo che sfoci in un bacio consensuale e profondo, per non parlare poi dell’attività sessuale, mi ha disgustato per la maggior parte della vita. Eccetto qualche eccezione, ma se devo essere sincero ero convinto che crescendo certi desideri non mi sarebbero più appartenuti. E adesso sei arrivato tu e hai sconvolto tutte le mie certezze.»
«Te l’ho detto, quel bacio è stato un incidente.»
«Non trovi che sia durato troppo poco?» borbotta invece Sherlock, senza dargli retta e sfoggiando ora un sorriso beffardo. «Se fossi andato avanti sarebbe stato difficile resisterti» confessa, infine, addossandosi meglio contro John, il quale è ancora a bocca aperta e non sa più dove fuggire. Come se non bastasse, indietreggiare non lo può più fare perché è praticamente spalmato contro al muro e non ha via di scampo. Deve dire qualcosa, sa di dover parlare altrimenti rischia di fare la figura dello stupido. Apre la bocca e subito la richiude, mentre indietreggia ancora di più e Sherlock, in rimando, avanza addossandosi contro il suo corpo. Dire qualcosa, e che sia sensato, è molto più che indispensabile, è vitale. Ma accidenti, è come se le parole venissero meno. Non che non ci siano ipotetici argomenti di conversazione, anzi, potrebbe iniziare col chiedergli se è vero che Mademoiselle Adler non è la sua fidanzata, il che porterebbe alla richiesta di un altro bacio nel caso in cui confermasse ciò che ha già detto. Eppure, non fa assolutamente niente e rimane immobile boccheggiando sempre più vistosamente.
«Suoni divinamente bene» mormora, ad un certo punto, prima di sorridere quando fa caso allo stupore dipinto sul volto allampanato del violinista. Ad essere ironico è il fatto che John per primo è stupito di ciò che ha detto, eppure dovrebbe aspettarselo perché è come se Sherlock inibisse anche la sua capacità di pensiero e l’annullasse completamente. Almeno si trattava di un complimento e cominciare con una lusinga è sempre un buon modo per dare il via ad una conversazione. O almeno lo crede. Ha idea che con quell’uomo le normali regole di convenzione sociale non funzionino affatto. E, in effetti, è proprio quel che di lui ama maggiormente: lo rende prevedibilmente imprevedibile.
«D’accordo, non so come mai l’ho detto» mormora, tra le risate prima che anche il violinista detective lo segua a ruota, divertito quanto lui. Tutto quello è tremendamente familiare e giova incredibilmente al suo umore. È assurdo, ma in un giorno e si è già così tanto abituato a quell’estraneo, che il pensiero di non averlo più attorno lo spaventa facendolo sentire ancor più solo di quanto non lo sia mai stato. Quella loro risata è fresca e leggera, alleggerisce la tensione, sempre più palpabile e stempera gli animi. John è rilassato, la complicità è stordente è vero, ma è sufficiente per lui lasciarsi trasportare e far accadere le cose come è naturale che avvengano, per potere essere sereno.

Ci sono molte cose che John Watson ignora di Sherlock Holmes. Non sa quante ore studi al giorno, non sa che odia dormire o che Mrs Hudson, la sua padrona di casa, gli fa trovare tè e biscotti tutte le mattine alle nove nonostante proclami di continuo di non essere la sua domestica, ma una semplice padrona di casa. Tutto ciò che pare aver intuito è il suo carattere estroso e particolare, ed anche se non ne conosce le singole sfumature, è più che sicuro d’aver intuito la maggior parte del suo vero essere. Non il geniale stronzo di cui tutti parlano, ma il vero Sherlock. Un uomo ritroso e schivo, qualcuno che resta incredulo di fronte ai complimenti perché, forse, non è poi così abituato a riceverne. C’è però, su tutto, una cosa che l’ex maggiore, ora autore di fama mondiale, ignora ovvero che Sherlock Holmes è una continua sorpresa. Aspettarsi l’insospettabile, è questa la chiave per stargli accanto. Per questo motivo, le parole che escono poco dopo dalla sua bocca lasciano John stupefatto e sconvolto.
«Ho suonato per te» mormora e no, non sta affatto scherzando. Non c’è traccia di scherno o ilarità, è mortalmente serio e d’un tratto è come se tutti gli sforzi che ha fatto per alleggerire la tensione, non fossero serviti a niente. Perché Sherlock lo sta guardando con quel bel paio di grandi, sgranati e drasticamente sinceri occhi azzurri e di ridere non ne ha davvero voglia.
«Sapevi che sarei venuto? Io non ero neanche sicuro di… che tu mi volessi attorno insomma» balbetta, senza celare d’essere confuso. È vero che è sorprendentemente intuitivo, ma riuscire a prevedere le sue azioni future, è praticamente impossibile. Come poteva essere sicuro che lo avrebbe inseguito a Parigi?
«Se non ti avessi voluto qui non avrei detto dove stavo andando, John, non essere ovvio.»
«Sì, ma l’avermi fatto capire dove ti saresti trovato stasera, non dava per scontato che io ti corressi dietro.»
«Andiamo…» sogghigna ora, studiandolo con uno sguardo appena velato di malizia ed un sorriso sghembo e provocatorio. «Ero più che sicuro che saresti stato presente.»
«No, non posso crederci» s’impunta John, ben deciso a farsi valere. «Non avevi la sicurezza materiale che sarei riuscito a trovare un biglietto, il che è piuttosto plausibile visto che il teatro era pieno.»
«Infatti è per questo ho domandato a mio fratello un favore. Naturalmente non gradiva il perdere tempo con questioni di questo genere, sai per lui noi siamo solo degli stupidi pesciolini rossi senza importanza, ma mi è bastato fare gli occhi dolci per ottenere il suo aiuto. Che mammoletta! Ti è stato dietro per tutto il tempo da Victoria Station a qui, non di persona è chiaro. Ti ha fatto ottenere una stanza libera nell’albergo che sei solito frequentare quando vieni Parigi, uno smoking e un biglietto per il teatro.» Sherlock parla, spiega. Racconta di un fantomatico fratello e, mentre confessa che ha voluto che lui fosse lì e che ha mosso chissà quali fili e chiesto chissà che favori, si sente lusingato. Corteggiato. Ed è una sensazione stupenda, tanto che a fatica riesce a contenere la gioia. Nessuno ha mai fatto una cosa simile per lui e sa che dovrebbe essere arrabbiato, perché in fin dei conti lo ha manipolato. Però. Forse. Sherlock non voleva che gli andasse dietro ciecamente, che lo seguisse perché dominato dallo spirito d’avventura, magari aveva bisogno che lo cercasse di sua spontanea volontà, mosso dal semplice e banale desiderio di rivederlo. È come si è detto più volte: poteva benissimo lasciare lì Billy e andarsene a casa, eppure non lo ha fatto e adesso sono l’uno di fronte all’altro.
«Perché mi volevi qui con te?» si azzarda a domandargli, dopo aver finalmente trovato il coraggio di sollevare lo sguardo da terra. A sentire quelle parole, Sherlock boccheggia, apre la bocca e subito la richiude; poi un evidente rossore gli tinge le guance. Quella è la prima volta che lo vede in difficoltà. Se ne sta praticamente immobile, senza dire nulla ed è incredibile per un uomo che è stato in grado di snocciolarne decine di seguito, senza respirare mai. Beh, ora Sherlock è quello ammutolito e in evidente difficoltà e non può che trovarlo adorabile. Il quel momento, John capisce che non ha bisogno di ulteriori conferme, non sono necessarie altre spiegazioni. Forse non sarà intelligente quanto lui o così bravo a dedurre, ma non serve essere un genio per capire i motivi che hanno spinto Sherlock a fare tutto quello. E neanche ha tempo di nascere, che la rabbia per esser stato raggirato svanisce ed evapora così come la paura e i timori. Semplicemente, ogni pensiero negativo se ne va, abbandonandolo e ciò che resta è solo il desiderio di baciarlo. E lo fa. Senza neanche chiedere il permesso, lo afferra per il bavero della giacca attirandolo a sé. In un bacio vero, finalmente, in qualcosa di molto diverso dai precedenti che si sono dati. Il loro è un toccarsi appassionato, vorace e prepotente. Sherlock poi è adorabile, anche se dapprima appare dubbioso e timoroso, gli sono sufficienti pochi attimi perché diventi prepotente e dominante. Ed appena si lascia andare, Sherlock lo spinge contro al muro e torreggia su di lui, poi lo bacia di nuovo, lo travolge, lo accarezza e stringe, gli cinge il volto con le mani e poi affonda la lingua nella sua bocca. È fantastico. A John manca il fiato, il cuore corre, lo stomaco gli si torce mentre si ritrova il corpo alto e muscoloso di Sherlock premuto contro al proprio. Il loro è un bacio che serra il respiro e fa tremare le ginocchia. E dopo che si allontanano, perché costretti a farlo, i loro sguardi si allacciano così come le mani che si cercano ed intrecciano.
«Cosa mi hai fatto, John? Cosa?» mormora lui, parlando sulla sua bocca. Il suo tono è colmo di disperazione, di tragico non capire perché evidentemente non è il solo ad essere stordito da tutto quello. Lo stato d’animo di Holmes è agitato e nervoso e lo si intuisce anche dal tocco frenetico, dalle carezze che regala al suo corpo e che pretendono di scoprire tutto di lui. John sente le sue mani sfregare con foga contro la stoffa della camicia, come se gliela volessero strappare di dosso. Sherlock lo vuole accarezzare e lo dimostra con prepotenza, con fare deciso lo stringe a sé, baciandolo una seconda volta. E poi anche una terza, e ancora, e ancora, e ancora. In tanti sfuggenti bacetti che fanno sorridere entrambi.
«Andiamocene da qui, Sherl, ti prego andiamo via. Ovunque tu voglia» lo implora, mentre sente la lingua di John gli bacia il mento e poi scendere fino al collo che sugge con avidità.
«Tutto quello che vuoi» annuisce il violinista, prima di allontanarsi. Lo fa indietreggiando con determinazione e mascherandosi una freddezza che pare davvero ridicola perché le sue guance sono ancora arrossate e le labbra umide di baci. Eppure, è ben deciso a mettere fra di loro un certa distanza, quindi indietreggia anche se lo fa senza smettere mantenere lo sguardo fisso nel suo. Sta per oltrepassare la soglia, quando si blocca e si volta, non dice niente e si limita ad allungare una mano. John sorride, distoglie lo sguardo e poi ride un po’ più forte. Si sente uno stupido, ma non importa perché è meraviglioso questa loro maniera d’intendersi con uno sguardo, di capirsi al volo. Familiarità e confidenza, due parole che sono state in grado di descrivere il suo matrimonio con Mary soltanto dopo anni. Con Sherlock non è necessario parlare, basta guardarsi.

Ciò che succede poco non è poi così tanto importante. Quando fanno ritorno in camerino, lo stanzino è vuoto e di Irene c’è solo un bigliettino. Quel che c’è scritto su quel pezzetto di carta, John Watson lo dimenticherà praticamente subito, non importa. Lì e in quel preciso momento, mentre Sherlock Holmes ripone via il suo strumento con dovizia e particolare cura, John e Sherlock si guardano e non fanno altro. Arrossiscono. Ridacchiano. Ma si fissano l’un l’altro e lo fanno sempre perché è così che si dicono tutto, che si capiscono, che si amano senza nemmeno saperlo.


 
***



Parigi è la città del buon vino e di costosi ristorantini tipici. È la città della Tour Eiffel, delle passeggiate lungo la riva sinistra della Senna, dei musei, degli edifici settecenteschi. È quel luogo in cui la vittoria della repubblica sulla monarchia diventa un simbolo, un monumento, qualcosa da vedere e mai dimenticare. Parigi è la città delle baguette, del formaggio, del cibo pregiato e raffinato. È dove andresti soltanto per trascorrere una mattinata intera in una pâtisserie. Parigi è viali acciottolati, francesi arrabbiati, turisti americani e giapponesi mischiati in una sola ed informe marmaglia di macchine fotografiche e cappellini calati sulla testa, che passeggiano su e giù per la scalinata di Montmartre. Parigi è come solo Roma è: un luogo che, se ci vivi, lo ami e odi al tempo stesso. Perché è unico e splendido, ma è un dannatissimo intreccio di auto e bus. Parigi è caotica e trafficata, ma è anche storia, arte, è bella vita patinata, è alta moda unita ad un passato forse esageratamente ingombrante. Eppure, di notte, Parigi cambia faccia e si trasforma diventando la città degli amanti. E allora le camminate lungo il fiume, assumono un non so che di romantico. Perché a Parigi, gli innamorati, si baciano per strada, cenano a lume di candela e ridono, lo fanno di tutto e niente. John Watson non dovrebbe soffermarsi a pensare a questo, ma con ciò che ha passato nelle ultime ore gli è più semplice essere romantico. Ancora è un po’ scombussolato e un groviglio di emozioni differenti, si agita dentro di lui torcendogli lo stomaco. Tanti eventi si sono susseguiti nelle ultime ventiquattrore e una volta che farà ritorno a Londra, sa che dovrà metabolizzare ogni singolo dettaglio. E Sherlock è il primo sul quale dovrà soffermarsi a riflettere perché un giorno e già lo ama. Un giorno con lui e ci farebbe l’amore appassionatamente, e per tutta la notte. Di per sé questo non è strano, visto che di amanti occasionali ne ha avuti diversi, però è sicuro che con lui sarebbe differente e migliore. Tuttavia, non ci vuole pensare adesso: non sono andati oltre a qualche bacio e John per primo è certo di voler affrontare l’argomento, ma non in questo momento. Adesso deve solo chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da quella voce baritonale voce che gli parla, raccontandogli di sé. Se inizialmente, una volta fuori dal teatro, si era convinto che lo stesse portando in una camera d’albergo, si è dovuto ricredere quando dopo che si è ritrovato ai piedi di una scala antincendio.
«Dove dobbiamo andare?»
«Sali e, tranquillo, non stiamo infrangendo nessuna legge» gli fa presente il violinista detective, sogghignando divertito. John fissa per qualche istante la salita che lo aspetta, ora che cammina senza bastone non è un problema andare su un tetto, ma allo stesso tempo indugia. Se lo ha portato lì ci dev’essere una ragione e se si è fidato fino adesso, perché non farlo ancora? È quindi con passo lento e studiato che si inerpica lungo la scala traballante, spalancando poi la bocca per la meraviglia una volta che è giunto in cima. Un tetto è un tetto, si dice John dopo che si ritrova lassù e lì non c’è niente di interessante, soltanto uno stendi panni malridotto e dei fili del bucato spogli. Eppure non è ciò che a loro importa, perché è quel che li circonda ad essere incredibile. Parigi è stupenda. La Tour Eiffel, illuminata, è tanto vicina che si ha l’impressione di riuscire a toccarla se solo allungasse le dita di una mano. Il cielo senza luna, è una volta di stelle che lascia a bocca aperta perché pare dipinto dalla mano abile di Van Gogh. Parigi vive sotto di loro, brulica e si accende, balla a ritmo del cancan, danzato ancora da una qualche parte in un qualche localino dall’aria retrò. Parigi beve uno champagne dalle bollicine preziose, si ubriaca con un bordeaux d’annata per poi morire in un vicolo di Montparnasse poco illuminato. È la Parigi dei circoli letterari, di D’alaembert e Diderot, quella di Voltaire e di Truffaut. È la Parigi di Monet e di Picasso, del cinema dei fratelli Lumière. La città bohèmien per eccellenza e John ci si ritrova incredibilmente bene.
«Dev’essere stata splendida negli anni venti, prova ad immaginartela, Sherlock» sospira, beccandosi inaspettatamente un’occhiataccia. Sembra che lo stia rimproverando, Forse, non lo sa con precisione. Di certo non ne afferra i motivi.
«E perché dovrei? Guardala com’è adesso, non fantasticare su come è stata un secolo fa.»
«Dai un po’ di poesia, no?» ride John, sedendosi sul cornicione. Lo fa senza pensarci, ma è soltanto dopo che si ritrova con le gambe a penzoloni che si rende conto di dove è andato a mettersi. Non è vero che soffre di vertigini come dice spesso, il suo problema non è mai stato il volare in sé, sono gli aerei a mettergli angoscia e sa perfettamente che quella è una paura che non riuscirà mai a superare. C’entra con l’Afghanistan.
«Sei proprio uno scrittore...»
«Lo dici come se fosse un difetto» si lamenta, mentre viene raggiunto.
«Lo è quando non vedi le cose come sono, ma come sarebbero potute essere. Sei un idealista sentimentale.» A quel punto sorride perché ritiene che abbia ragione e il fatto che qualcuno ironizzi bonariamente sui suoi difetti è divertente. Ciò che non è in grado di capire è che Sherlock non si sta riferendo a Parigi, ma parla più che altro di sé stesso. È sicuro che lo stia idealizzando, che lo veda migliore di quanto non sia o sarà mai. Però John lo consce da troppo poco tempo per poter essere in grado di cogliere anche le più piccole sfumature e quindi si limita a ridere.
«Hai ragione come al solito: sono un idealista, ma se mi trovo qui con te è perché non tutto di ciò che sono ti disgusta.»
«Non ho detto che lo faccia» borbotta Sherlock, senza però guardarlo negli occhi. John si volta, incuriosito dal fare criptico e misterioso, quindi prende a fissarlo. Lo trova impettito e rigido, probabilmente anche lui si sta rendendo conto di che cosa stanno facendo, può essere anche che è imbarazzato da qualche cosa. Vorrebbe che Sherlock gli parlasse e si spiegasse, ma allo stesso tempo spera che stia zitto perché sono tanto vicini, che potrebbero baciarsi se solo lo volessero. Ma si guardano e basta. Con John voltato verso di lui e che lo fissa con insistenza come se lo stesse studiando, e Sherlock che lo spia di sottecchi. Nessuno dei due pare voler andare oltre, in fondo, è stupendo anche starci accanto.
«Vero, non l’hai detto» sussurra lo scrittore, prima di protendersi verso di lui ed appoggiare la testa sulla spalla mentre si azzarda a stringere appena la stoffa viola della camicia che indossa. È piacevole stargli vicino. Lo è il suo odore, i capelli ricci che ora gli solleticano le guance. Sono bellissime persino le dita che si muovono impazienti e tamburellano sulle ginocchia e che danzano a ritmo di una musica che è tutta di Sherlock Holmes. Si chiede se sia nervoso oppure se stia sul serio pensando ad una musica in particolare, perciò raggiunge una mano e la afferra con decisione.
«Non ti fermi mai?» chiede con tono misto di preoccupazione e curiosità. Perché non è stato zitto e fermo un istante da che sono lì. Di principio gli sembrava fosse agitazione, ma più lo osserva e più capisce che c’è ben altro in lui, un’irrequietezza di cui non ha ancora una spiegazione. Il violinista che fa il detective non gli risponde, si limita a voltarsi e a fissarlo, è evidentemente sorpreso e fa di tutto pur di non darlo a vedere perché poco dopo distoglie lo sguardo.
«Il mio cervello funziona sempre, John, è un computer ad alta funzionalità. Non riesco a stare fermo, ho appena finito un concerto e già penso al prossimo e a quello che dovrò fare, alle modifiche che mi servono.»
«E dove lo terrai? Il concerto intendo» s’azzarda a chiedere. Si è ripetuto che ancora non vuole pensare al futuro, né tantomeno a parlarne a lui. Crede ancora che sia presto discutere su ciò che potrebbero diventare quando faranno ritorno a Londra, eppure, adesso non riesce a trattenersi. In realtà a dominarlo è la speranza, la fantasiosa idea che questo periodo bellissimo in bilico tra realtà e sogno, non finisca mai. Tornare a casa e ad una routine renderebbe ogni cosa reale e chissà come reagirebbe John di fronte alla verità di una vita condivisa, chissà se lo amerebbe ancora come è sicuro di amarlo adesso. Ma poi lo ama veramente? O la sua non è soltanto una sbandata colossale? In effetti l’idea di scoprirlo lo terrorizza. Ancora però non vuole affrontare il discorso e di nuovo mette da parte pensieri e paure, dicendosi che non si vuole staccare da tutto quello, perché è troppo presto. Il che è vero, almeno parzialmente.
«Rimarrò a Parigi per quattro giorni e dopo tornerò a casa. Fra tre settimane inizierò con le tappe nell’est Europa e starò lontano da casa per mesi.»
«Dev’essere faticoso» mente. No, non è propriamente una bugia, però quello che avrebbe voluto dirgli era ben diverso. Ad essere sinceri non pensa ad altro che all’andare con lui, a seguirlo. John lo vuole, lo desidera disperatamente. Di tornare a casa non gli importa nulla, ha soltanto bisogno di stare con lui e non lasciarlo e ha necessità anche scrivere. Diavolo, proprio adesso ci sta pensando. Scrivere mentre Sherlock si esercita al violino. Scrivere mentre lui fa, beh, qualsiasi cosa faccia il mattino presto. Il suo è un desiderio prepotente e che a fatica riesce a contenere, lo vorrebbe gridare e non ha neanche paura di apparire patetico. Qualsiasi cosa sia il sentimento che nutre per quell’uomo, gli fa provare un forte senso di libertà. Libero da sé stesso e dal proprio guscio.
«Vieni con me» lo sente dire ed è poco più di un sussurro, ma John sussulta ugualmente come se avesse urlato. Si volta ancora e lo scopre intento a scrutare il panorama, mentre un lieve rossore gli tinge il collo di rosso in una maniera che trova adorabile. Quindi sorride, regalandogli un bacio sfuggente appena sotto l’orecchio.
«Ovunque tu voglia.»

John non sa che quello sarà l’inizio di tutto. Che con quelle parole pronunciate con un sorriso dolce e lo sguardo trasognato, ha sancito una volta per tutte a sé stesso cosa prova. Un sentimento che ha a che vedere terribilmente con l’amore. Adesso però è soltanto felice e null’altro. Rimuginare riguardo il futuro è fuori da ogni discussione, fantasticare su ciò che potrebbe essere è nella sua natura, ma non questa volta, non adesso. Ora preferisce godersi Sherlock attimo per attimo, riderci insieme e baciarlo fino allo sfinimento. Non sa che quando finirà la sua tournée, tra molti mesi, andranno a vivere insieme al 221b di Baker Street. Non sa nemmeno che nessuno dei due obietterà riguardo il fatto che sia o meno troppo presto, o che Mycroft lo requisirà per un approfondito interrogatorio, da lui definito ingiustamente una semplice chiacchierata amichevole. Non ha idea del fatto che litigheranno come cane e gatto per la maggior parte della loro vita e sempre per delle stupidate, per poi andare perfettamente d’accordo sulle faccende importanti. Non sa del tè consumato a tutte le ore, del take away thailandese o cinese. Non sa delle cene da Angelo a lume di candela, del violino alle tre di notte o della passione che Sherlock ha per la chimica. Non sa del matrimonio di Mycroft e Lestrade e del ricevimento nuziale al quale si ubriacherà, al punto da trascinare il suo Holmes a fare l’amore sotto un tavolo. Non sa nemmeno che tra un anno e nove mesi, proprio a lì Parigi, Sherlock gli chiederà di sposarlo durante la conferenza stampa per l’uscita del nuovo libro. Ignora che glielo chiederà in un modo tutto suo e decisamente poco consono e senza pronunciare le parole “vuoi sposarmi”, ma arrabattando frasi su frasi all’apparenza senza alcun senso. * John Watson non sa niente di niente e semplicemente perché adesso non conta, non importa. Ci sono solo loro due e Parigi.
«Ho una cosa per te» borbotta Sherlock, ad un certo punto, allungandosi fino alla custodia dove tiene il violino e che ha lasciato alle loro spalle, dalla quale estrae una copia di Blu come la neve.
«Vuoi un autografo?» gli domanda, ridendo appena.
«No, voglio che lo leggi, per me» John spalanca la bocca, ammutolito. Vorrebbe chiedergli il motivo e se esiste un significato preciso dietro la richiesta che gli ha fatto. Però rimane zitto e non dice nulla, Sherlock d’altra parte non gli dà modo di dire altro.
«Ecco, può essere che con te io… insomma, come dire, magari cambio, ecco, idea. Non è affatto detto, però, come dire, io potrei…»
«Ho capito» lo interrompe, prima di baciarlo delicatamente sulle labbra e stirare un sincero sorriso ricolmo di felicità. Sta per aprire il tomo e mettersi a leggerlo, quando si sente fermare di nuovo.
«Puoi iniziare dall’ultima pagina» e non è una domanda, pare più un ordine in effetti. John lo guarda di sbieco, non capisce il senso di una simile richiesta, ma prima che possa anche solo domandare spiegazioni, Sherlock lo precede. Pare, in fondo, che quell’Holmes riesca a leggerlo meglio di quanto non credesse.
«Hai capito bene: leggi l’ultima pagina.» John annuisce, dopodiché inizia a sfogliare rapidamente il libro sino ad arrivare alla fine. Nota le parole scritte in piccolo e sussulta quando fa caso al nome della protagonista, era tanto tempo che non aveva modo di sfogliare quelle pagine. E non dovrebbe avere importanza perché ha scritto altri romanzi, ma il fatto è che è da sempre convinto che quel libro sia una parte importante di sé. E quel romanzo è John Watson più di qualunque altra cosa. Accidenti, sono trascorsi così tanti anni dall’ultima volta che ha visto il nome di Stephanie stampato sulle pagine del suo libro, che leggerlo gli fa tornare un’infinità di ricordi. Taluni che avrebbe tanto voluto dimenticare per sempre, come la guerra o la brandina dove la notte era solito scrivere: quella scomoda e con un cuscino bitorzoluto. All’epoca non aveva idea di che cosa ne sarebbe stato della bozza di romanzo che stava provando a mettere per iscritto e che già da tempo gli girava in testa, sentiva soltanto il bisogno di raccontare e raccontarsi, di comunicare, di distrarsi dagli orrori con cui aveva a che fare tutti i giorni. Quindi indugia per alcuni istanti mentre accarezza distrattamente le pagine, è come se sentisse ancora l’inchiostro della biro blu sotto le dita o vedesse i fogli di carta sparsi alla rinfusa. Sente l’odore della sabbia e il russare di qualche suo compagno. Percepisce addirittura il freddo del deserto e la pelle che tira perché bruciata dal sole. Ed è così strano, ma è come se riuscisse a vedere sé stesso. Ad osservare dal di fuori quel John Watson di anni e anni più giovane, non ancora sfatto e distrutto dalla troppa morte e che trascorreva le sue notti a scrivere.
«Se vuoi possiamo fare altro.» Ancora una volta è la voce del violinista a riscuoterlo e a riportarlo brutalmente alla realtà.
«No» nega appena, con un cenno del capo. «Voglio leggerlo, è solo che erano anni che non prendevo in mano questo libro e mi ha fatto ricordare la guerra. Sai, è lì che l’ho scritto.»
«Lo so, me l’hai detto» sorride Sherlock e questa volta è lui a baciarlo. Non aggiunge niente, né insiste, anzi si limita ad accoccolarsi contro di lui lasciando cadere la testa sulla sua spalla. John sospira gli passa una mano tra i capelli ricci prima di cominciare a leggere. Lì su quel tetto parigino c’è tutta la vita di John Hamish Watson, scrittore di successo. Ha tra le mani il suo passato e il suo futuro ed è ben deciso a non lasciar andare nessuno dei due. Ricordare chi è stato e costruirsi una vita, è questo a contare più di tutto. Vivere il momento a fianco di un bellissimo, dolce e geniale musicista dal nome buffo e dal carattere eccentrico. E mentre parole gli escono fluide dalla bocca, viene investito da una miriade di sensazioni differenti e lui le vive tutte quante, perché è proprio così che deve essere. Deve amare ognuna delle emozioni che prova, quello d’altra parte, è il solo modo che conosce per sentirsi vivo.

 
In quella gelida notte di fine dicembre, la neve scende copiosa.  Stephanie se ne sta appoggiata contro lo stipite della finestra del soggiorno, là nella piccola baita che stanno occupando per le vacanze. Fuori è buio, ma la luna che illumina la grande spianata antistante la baita, le permette di scorgere persino il bosco che intravede in lontananza. Dovrebbe essere felice, ha tanto per cui esserlo, eppure ancora adesso e dopo tanto tempo, viene investita da moti di malinconia leggeri, di tristezza velata. Non sa perché ci stia pensando, sarà per via della luna piena che risplende in un cielo carico di nubi o per il manto bianco che ricopre ogni cosa, ma le torna in mente quel gioco che lei e Bert facevano da bambini. Tra tutti quanti, tra le corse nei prati e i puzzle di fronte ad un camino acceso e scoppiettante, Stephanie ricorda proprio quello. Ed è tanto nitida l’immagine nella sua mente, che le pare di vedersi. Le loro voci infantili, allegre e felici, sono più vive che mai mentre il ricordo di quel fratello ormai perduto le gonfia il cuore di sofferenza e disperazione.
“Rosso come la gonna della mamma. Ora tocca a te, Bert” aveva gridato Stephanie. “Arancione” aveva sancito, infine. “Arancione come, come quella cosa là!” le aveva risposto lui, indicando un punto colorato in lontananza.
“Trova qualcosa di giallo, e non vale dire il sole” aveva proseguito, pienamente soddisfatto di sé e del fatto di essere in vantaggio. Stephanie allora aveva puntato i piedi ed incrociato le braccia al petto.
“Giallo come il fiocco della mia bambola” aveva annuito, tronfia “blu.”
“Blu come la neve” aveva enunciato Bert, con fare tremendamente serio.
“La neve non è blu” aveva quindi risposto lei, piccata “la neve è bianca.”
“No, la neve è blu” aveva ribadito il piccolo Bert, prima di far nascere l’ennesima lite.


Non ricorda come sia andata a finire, è un passato troppo lontano e tutto ciò che ricorda sono quelle parole pronunciate dalla voce baldanzosa di un bambino di tre anni, già pienamente padrone di sé e delle proprie convinzioni. Ovvero Bert in tutto e per tutto. Per questo Stephanie sorride, perché lì e ora, in quella buia notte d’inverno, le pare sul serio che la neve sia blu. “Blu come la neve” sospira. Una lacrima le riga il volto, ma è proprio in quel momento che due braccia forti la stringono cingendola con affetto. E non è giusto così, è imperfetto e non potrà mai essere felice appieno, perché quel destino bastardo si è preso la persona migliore del mondo, però, sì, si sente un po’ meno sola e mentre si lascia baciare le pare di riuscire ad afferrare almeno una briciola della serenità che aveva perduto.


 
 Blu come la neve 
 


Fine


*qui c’è un riferimento al finale di Notting Hill, quando lui si dichiara a lei ad una conferenza stampa.


Note finali: Che dirvi? Siamo arrivati alla fine e penso sia a questo punto d’obbligo a chi mi ha sopportato su twitter e ha subito i miei scleri. Bombay, Amerise, ma anche ELE106 e EmmaAlicia79, tra tutte. Ringrazio anche chi ha letto e recensito e ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate.

Questa storia ha un sequel che trovate qui: He, Jawn

Un bacio a tutti.
Koa
   
 
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