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Autore: EvgeniaPsyche Rox    26/11/2014    8 recensioni
[Contesto: XIII canto, i suicidi.
Personaggi: Dante, Virgilio, Pier delle Vigne, Federico II.]

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Quelle piante che non necessitavano di parlare, di esprimersi; si ergevano verso i più alti Cieli, tendevano al regno di Iddio, e nel frattempo si ancoravano alla terra, la stringevano, e Pier sapeva che se fosse stato una pianta,
Federico sarebbe stato il terreno a cui si sarebbe aggrappato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Dante Alighieri, Virgilio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia non cessa nemmeno quando è Dio stesso a distanziar le nuvole.



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Quel bosco totalmente privo di strade pareva quasi rispecchiare il tragico destino a senso unico in cui i dannati del secondo girone si erano lanciati a capofitto, con una disgraziata aggressività nei confronti della vita e di sé da apparire come stelle che improvvisamente decidavano di cadere, di abbandonarsi alla forza di gravità, di schiantarsi con ferocia verso il terreno.
Nonostante Dante avesse ormai visto numerosi cerchi e dannati, quella selva così tetra, lugubre e oscura contribuì a rimembrargli di trovarsi nell'Aldilà, più precisamente all'Inferno; un luogo così funesto non poteva esistere sulla Terra, né in senso concreto, né in senso immaginario, poiché alcun essere umano avrebbe potuto partorire un simile scenario.
Gli arbusti e le piante erano piuttosto bassi, particolarmente intricati: i rami secchi e fitti s'aggrovigliavano tra di loro, si scontravano, e manifestavano la volontà di ferirsi da soli. 
Parevano respirare di vita -Per quanto fosse possibile utilizzare un simile vocabolo all'Inferno- propria, e quei rami così ispidi ricordarono a Dante una marea di pensieri confusionari, una tempesta di parole non dette, incastrate per sempre nella mente e nell'anima dei dannati, prima nella vita terrena, ora nell'eternità.
Pensieri forti, amari, angosciosi; e al poeta fiorentino sembrò di udire dei lamenti, sentiva gemere da ogni parte del bosco, e perfino il terreno sotto di sé diede l'impressione di tremare, come non fosse in grado di reggere tutte le numerose tragedie andatesi a cristallizzare per sempre in quel luogo.
Dante riconobbe le Arpie: mentalmente volò all'opera della sua guida, del suo amato maestro, dove quest'ultimo aveva descritto la malignità di codeste creature che avevan cacciato i Troiani dalle isole Strofadi, predicendo sventure e sciagure.
Le portatrici di malesseri si annidavano nella selva; avvoltoi affamati dai volti umani e artigli ai piedi.
E di nuovo, come un'eterna melodia che faceva da sottofondo ad una tragedia indefinibile a parole, ecco i lamenti che parevano essere perennemente sul punto di mutare in singhiozzi; Dante tentò di scrutare meglio i rami costellati da spine avvelenate, quello stesso veleno che aveva macchiato la vita dei suicidi, portandoli ad una fine inesorabile.
«Se tenterai di spezzare qualche ramo», iniziò finalmente a parlare il poeta latino, quasi fosse riuscito a leggere nel pensiero dell'altro, «la tua ipotesi riguardante la posizione dei dannati si annullerà completamente.»
Impassibile, Virgilio, fece un cenno con la nuca verso una pianta di fronte a sé, la quale, con i suoi rami intricati, pareva afflosciarsi su di se stessa più di tutte le altre, come un salice piangente che desiderava soltanto nascondersi dal mondo circostante; Dante colse l'invito, con timore e curiosità, allungò la mano e frantumò un ramoscello dell'arbusto indicato dal poeta latino.
All'istante vide una reazione da parte di un essere che non avrebbe dovuto averne; il punto che aveva toccato infatti iniziò a sanguinare, poiché quelle anime, non possedendo un corpo, non avevano altro modo per esprimere il proprio dolore. 
Il liquido scuro tinse il tronco, come lacrime d'una madre che piangeva inutilmente per un figlio che aveva abbandonato lei stessa; Dante si ritrasse, atterrito, e si affiancò a Virgilio, unica ombra che in quel momento poteva rasserenarlo.
«Perché mi hai spezzato? Siamo state anime un tempo, ora siamo mutate in piante: dovresti avere più rispetto e pietà per noi». Il tronco pareva emettere un'eco lontana e sembrava contenere un feto incompleto, condannato a non vedere mai la luce del sole. 
L'eco vibrò, rimbalzò tra i suoi stessi rami, arrivò alle orecchie dei due poeti, e s'aggiunse al sangue scuro: il tutto appariva come la creazione di un'opera d'arte angosciosa, un artista cieco che sapeva solo rovesciare colore rosso e che era caratterizzato da una voce lontana, distante, non proveniente dal corpo ma da Altrove, talmente poco l'utilizzava.
Virgilio mosse un lieve passo in avanti, e Dante tremò ancor di più perché il sol pensiero di essere abbandonato in un luogo che gli aveva provocato un tale urto lo spaventava. «O anima offesa, debbo certamente scusarmi io per primo dal momento che ho invitato il mio allievo a fare ciò. Devi sapere che le parole non sarebbero bastate a descrivere la vostra condanna», dopodiché il poeta latino rimase muto per una manciata di secondi, in attesa di udire delle scuse da parte di Dante, il quale però non riuscì ancora ad emettere alcun suono. «Ti prego di narrare di te al mio discepolo, così che egli possa rinnovare la tua fama nel mondo dei vivi.»
Nonostante Virgilio non lo desse a vedere, l'assenza di un volto da osservare lo metteva non poco in soggezione; pareva trovarsi dinnanzi ad un foglio parlante su cui vi era disegnato un volto privo di occhi, naso e labbra. 
«Le tue parole così premurose mi impediscono di rifiutare la tua richiesta, e perciò spero di non annoiarvi con il mio racconto che mi ha portato fin qui». L'eco, che, insieme al sangue, facevano da unico specchio dei sentimenti dell'anima dannata, sembrò tingersi di una nota particolarmente cupa durante le ultime parole.
Virgilio immaginò la creatura rinchiusa in quella gabbia di legno prendere un profondo respiro prima di iniziare la propria narrazione: «Io sono colui che possedeva, e magari potesse possedere ancora, le chiavi del cuore di Federico II, mio signore e imperatore; tenni fede al mio incarico non solo fino al mio ultimo respiro di vita, ma tutt'ora, nonostante non mi sia rimasto molto, ho tra le mie mani mutate in arbusti il fantasma di quelle chiavi tintinnanti...»

 




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Nonostante il suo signore glielo impedisse -Sei il mio più fedele letterato-, affermava con severità, -non dovresti sporcarti le mani in codesta maniera-, Pier delle Vigne amava prendersi cura del cortile di palazzo, e forse questo amore incondizionato verso le piante proveniva proprio dal suo cognome.
Talvolta si limitava a ripararsi sotto gli alberi più imponenti, per ammirare da lì il bollente sole della Sicilia senza essere però acceccato da esso.
E seppur si trovasse all'esterno del palazzo, si sentiva comunque vicino al suo signore.
Conosceva tutti i suoi impegni, i suoi movimenti, lo immaginava parlare, domandare forse ai servi dove fosse finito il suo più fedele letterato, magari con un tono autoritario che tentava di mascherare un lieve sorriso dipinto sulle labbra.
E lui, Pier, lo avrebbe atteso lì, al riparo dal bollente sole siciliano, ammirando e invidiando le piante.
Quelle piante che non necessitavano di parlare, di esprimersi; si ergevano verso i più alti Cieli, tendevano al regno di Iddio, e nel frattempo si ancoravano alla terra, la stringevano, e Pier sapeva che se fosse stato una pianta,
Federico sarebbe stato il terreno a cui si sarebbe aggrappato.




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«Ma fui così fedele al mio compito, al mio signore, che la mia pace si macchiò, e infine la mia vita si infranse. L'invidia è sempre affamata, e nelle corti imperiali la sua fame si moltiplica mille e mille volte. Viaggiavano parole, e quando giungevo io a palazzo si ergevano mormorii e vedevo occhi puntati su di me. Occhi accusatori, vipere pronte a sputar veleno, e allora i miei felici onori mutarono in cupi dolori. Non conoscendo altro modo per annullare quell'odio così scuro e violento nei miei confronti, decisi di porre fine alla mia persona, sostituendomi a Dio. Ma che egli mi punisca ancora più duramente se dico il falso: son sempre stato fedele a mio signore, e se uno di voi sarà in grado di tornare nel mondo terreno dove le anime non vivon dentro i tronchi, vi prego di spolverare la mia fama da disonori mai partoriti da me.»




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Una volta spese troppo tempo a prendersi cura dei nuovi germogli, e non si accorse delle imminenti nuvole che di tanto in tanto, seppur molto raramente rispetto al resto d'Italia, coprivano il sole bollente della Sicilia, dando così inizio ad un violento e improvviso temporale.
Pensò di correre a palazzo per ripararsi, ma il suo imperatore non era ancora tornato, perciò non avrebbe perso nulla ad ammirare la pioggia da così vicino; si sedette sotto un albero imponente, sull'erba già bagnata, con la schiena appoggiata contro il tronco che aveva assunto una tinta più scura grazie all'acqua, e sollevò lo sguardo verso i rami che parevano dedicare un inno a Dio e al suo Paradiso.

 




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Virgilio apparì perplesso, dal momento che a causa dell'assenza di un volto da osservare non poteva capire quando l'anima avrebbe ripreso a parlare; dunque si voltò verso il suo allievo, il quale già aveva perle bagnate ad addobbargli le iridi. «Coraggio, non perdere tempo e approffitta del suo silenzio per dare voce ai tuoi interrogativi.»
Ma il poeta fiorentino scosse la testa. «Poni tu a codesta anima interrogativi che pensi possano soddisfare la mia curiosità, poiché la mia commozione mi impedisce di fare ciò.»
La guida di conseguenza tornò a guardare il tronco dinnanzi a sé, immaginando sempre di decifrare un volto umano inesistente. «O anima rinchiusa, dicci come voi dannati vi legate a queste piante, e, ti prego, rivelaci se esistono creature in grado di ritornare alle proprie origini.»
Il tronco sembrò emettere un sibilio, un gemito sommesso che poi si perse con i lamenti degli altri arbusti; Dante e Virgilio parvero udire il respiro pesante proveniente da uno sforzo, un respiro che racchiudeva la ricerca di coraggio per parlare.
Attesero per un tempo indecifrabile, i due poeti: chi con le gote bagnate e il cuore palpitante, chi con aria assorta, occupato a cercar di avvicinarsi con la mente ad un dolore così immenso ed esteso da spingere un uomo a strapparsi dal proprio corpo volontariamente.
Attesero, i due poeti, ignari che nel frattempo l'anima rinchiusa era intenta a contemplare il proprio dolore creatosi dalla consapevolezza che l'eternità di quella condanna che lui stesso si era procurato non gli avrebbe più permesso di riavere indietro ciò che un tempo possedeva e custodiva con così tanta fedeltà.




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Quando la pioggia cessò, Pier delle Vigne non si mosse.
Erano ancora i tempi gloriosi infestati da luce di cui poi sarebbe rimasto solo il fossile di un pallido spirito; erano ancora i tempi felici, quando egli mai si sarebbe immaginato di concludere la propria esistenza in una squallida prigione, senza le chiavi del cuore del proprio signore tra le mani, senza più occhi per cercare con lo sguardo il suo imperatore, così disperato e perso da essere costretto a fracassarsi il cranio contro una sporca parete che poi si sarebbe tinta del suo sangue, del suo dolore, l'ultimo segno del suo passaggio in questa Terra oltre ai suoi scritti.
Erano ancora i tempi lucenti, quando la testa l'utilizzava per scrivere per sé e per il proprio signore; quando i suoi pensieri non erano così nefasti e angosciosi da costringerlo a metterli a tacere per sempre con un'aggressività e una violenza di cui nemmeno era a conoscenza.
Nonostante le nuvole avessero già iniziato ad intraprendere la strada dell'allontanamento, il poeta continuava a sentire la propria pelle e i propri capelli bagnarsi di piccole gocce d'acqua.
Alzò la nuca, e si accorse che quello stesso albero che avrebbe dovuto proteggerlo, in quel momento stava proseguendo il lavoro della pioggia: pareva incapace di scrollarsi di dosso il temporale passato, incapace di scordarlo, e allora continuava a lacrimarlo, sperava di purificarsi gettandone fuori i resti.
Questa volta Pier provò compassione per le piante che non erano in grado di dimenticare e fu pronto ad alzarsi, quando una figura lo sovrastò;
il suo imperatore era lì, retto di fronte a lui, sceso da poco dal solito carro che Pier non aveva udito arrivare, con un soppraciglio appena inarcato che però pareva contrastare il leggero sorriso dipinto sulle labbra, come fosse indeciso se mostrarsi severo ed autoritario anche dinnanzi al suo letterato più fedele.
«Se ogni volta la mia assenza provoca in te il rintanarti da qualche parte come un cane abbandonato, mi costringi a portarti sempre con me, Pier.»
Sorrise, Pier, e vide già il sole cancellare del tutto il precedente temporale.

 




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«Tenterò di rispondervi in poche parole», bisbigliò l'anima rinchiusa, e, sia Dante che Virgilio, poterono giurare di aver udito qualcuno piangere.

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*Note di Ev'*
La scoperta delle slash in ambito storico ha influito non poco sulla vita della sottoscritta: il proseguire da sola con la lettura della Divina Commedia, il fatto di entrare una libreria e ammirare anche le biografie di personaggi storici maledicendo l'avvenire del Natale che mi impedisce di spendere soldi per me, l'utilizzo di un linguaggio più antico il che mi fa sembrare piuttosto rincoglionita, il rompere le scatole al mio compagno di banco facendogli notare l'ambiguità del rapporto tra Dante e Virgilio comunque lui concorda pure con me, tiè Beatrice... 
E questa storia mi ha fatto venire un'angoscia terrificante, anche se, devo ammetterlo, sono piuttosto soddisfatta del risultato finale. Scriverla è stato assai scorrevole, e ciò mi ha stupita, perché ieri mattina continuavo a domandarmi come diavolo scrivere una storia su Pier delle Vigne e Federico II se non conosco un piffero su di loro.
E a proposito di questi due, io... Boh.
In questo sito sono riuscita a trovare solo una piccola one-shot su di loro -Bellissima, tra l'altro- e forse essa ha fatto nascere in me una leggera fissa. Poi Lunedì il prof di storia, che probabilmente non aveva sbatti di spiegare, ci ha detto di leggere tutto il capitolo riguardante Federico II da soli e di rispondere a cinque domande.
E, leggendo, sono inciampata sul nome di Pier delle Vigne e l'ho collegato immediatamente al poveraccio che parla nel canto dei suicidi, nonostante, ovviamente, la mia classe non sia ancora giunta al tredicesimo canto.
E mi è venuta una voglia tremenda di scrivere qualcosa su di loro. Bisogno urgente.
Io... Non so. Ripeto, il risultato finale mi soddisfa, perché penso che il contesto storico sia tra i più difficili, ohm.
E nulla, vi invito caldamente, come al solito, a commentare, in caso abbiate letto questa storia.
See ya'!

E.P.R.

   
 
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