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Autore: Elisaherm    26/11/2014    9 recensioni
Prima classificata all'Inspiration Time Contest indetto da Hanna M sul forum di EFP.
Prima classificata al contest Promete indetto da Fra.EFP sul forum del sito.
Sherlock rendeva le sue giornate interessanti, ecco la verità.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Promise me you'll live




John Watson era seduto in metropolitana, diretto a Portobello Road, dove si sarebbe incontrato con Annabeth Falk, la sua nuova fidanzata. Questa volta aveva un buon presentimento: Annabeth era alta, bionda, con un fisico snello e un viso sbarazzino; era intelligente, amava immensamente leggere libri di ogni genere, ballare il tango e andare al teatro, nel tempo libero si occupava di botanica e ascoltava musica classica. E soprattutto, John era riuscito a non farle ancora incontrare Sherlock. Il che non poteva che essere un bene, considerato come, in un modo o nell'altro, il detective più famoso d'Inghilterra era stato sempre la causa primaria della rottura con le sue ex.

John mise nella tasca dei pantaloni il biglietto omaggio per la rappresentazione di 'Aspettando Godot' a cui sarebbe andato con Anna, controllò quante fermate mancassero e si rilassò, mettendosi comodo sulla sedia e infilandosi gli auricolari nelle orecchie. Iniziò ad ascoltare una canzone che Annabeth gli aveva fatto sentire pochi giorni prima, e che lui aveva trovato davvero bella.


Promete ler meus pensamentos
Decifrar o meu coração
Porque só assim vai saber
Que minha vida inteira está em suas mãos—



La canzone si interruppe e John abbassò lo sguardo accorgendosi che stava ricevendo una chiamata. Pensò che fosse Annabeth, ma dovette ricredersi quando lesse sul display, come un fulmine a ciel sereno, il nome di Sherlock.

Per un momento fu tentato di non rispondere.



«Sherlock, che vuoi? Lo sai che sto andando da—»

«Devi venire subito a casa.»

«Cosa? Scordatelo, Sherlock.»

«Immediatamente, John, è urgente.»

«Oh, immagino quanto sia urgente!» sbuffò John alzando gli occhi al cielo «Cosa c'è, il computer è in camera e tu sei nello studio? Annabeth mi sta—»

«John, ti prego, torna subito a casa. È davvero urgente.»

Raramente lo aveva sentito così angosciato, e addirittura pregarlo di venire...

«Giuro che se è una delle tue solite cretinate non sarò responsabile delle mie azioni.»

Click.



Santo cielo, gli aveva persino attaccato il telefono in faccia!

John continuò a maledirsi mentre, alla fermata successiva, scendeva dalla metro per salire su un'altra che andasse nella direzione opposta.

Possibile che ogni volta che si trattava di lui finisse per cedere? Appena Sherlock lo chiamava lasciava tutto ciò che stava facendo per andare ad aiutarlo, ogni volta.

Come se non avesse anche lui una vita di cui occuparsi... Beh, in realtà era proprio così. A parte le poche – e brevi – relazioni avute, da quando era tornato dall'Afghanistan si era completamente isolato dalla società e, se non avesse incontrato Sherlock, probabilmente le cose più eccitanti della sua vita sarebbero state ancora il suo blog e la visita dalla psicologa.

Sherlock rendeva le sue giornate interessanti, ecco la verità.

Ormai più irritato con se stesso che con il detective, si costrinse a chiamare Annabeth e inventarsi una scusa credibile. La ragazza, sebbene un po' delusa, disse che non importava e che si sarebbero visti un altro giorno.





Circa mezz'ora dopo John arrivò a Baker Street e, ancor prima di aprire il portone, capì che c'era qualcosa che non andava. Entrò in casa e provò a chiamare Mrs. Hudson, ma non ottenne alcuna risposta. L'appartamento era stranamente silenzioso. 

«Sono tornato! Sherlock?»

Attraversò il corridoio fino ad arrivare alla porta dello studio, che si aprì lentamente quando la spinse.

Si sentì mancare.

Lì, riverso a terra davanti al camino, vicino alla finestra, si trovava il corpo di Sherlock Holmes, gli occhi semiaperti, un enorme squarcio sanguinante all'altezza del petto ed un altro, probabilmente provocato dal proiettile di una pistola, sulla gamba destra. La pelle del viso era terrea, bianca, ma segnata da profonde macchie violacee che somigliavano terribilmente a lividi ed ematomi non riassorbiti. Il sangue era colato dalla camicia fino a macchiare il tappeto, su cui si trovava un pugnale sporco.



«Sh-Sherlock! Sherlock!»

John si chinò e gli appoggiò con più delicatezza possibile la testa sulle proprie ginocchia. Sentì il panico invaderlo.

«Che diavolo è successo?! Sherlock, rispondimi! Mi senti?»

Dopo qualche terribile secondo di silenzio, tornò a respirare sentendo la fievole voce del detective.

«John... Devo aver calcolato male il tempo che avrebbe impiegato la metropolitana... Saresti dovuto essere qui esattamente dodici minuti fa... Ormai è tardi.»

«Cosa? No, non è tardi! Non... Avanti, spiegami cos'è successo!» disse malgrado il nodo che gli stringeva la gola, aprendogli nel mentre la camicia per potersi rendere conto della profondità della ferita.

Gli sembrò di tornare ai suoi giorni da soldato, quando doveva affrontare cose del genere ogni singolo giorno. Mantieni la calma.

«Ricordi il caso Ferguson?» iniziò Sherlock mentre John si levava la sciarpa per fasciare la ferita. «C'era qualcosa che non mi quadrava... così ho controllato meglio il rapporto di Lestrade e ho dedotto— ah!»

«Scusa, sto cercando di fare il più piano possibile,» mormorò John.

«Per farla breve... ho capito che il signor Klint era complice dell'assassino e che presto i suoi tirapiedi mi sarebbero venuti a cercare, perciò ti ho chiamato... Ma non credevo che avrebbero fatto così presto,» concluse, respirando sempre più a fatica.

«Perché non hai chiamato direttamente Lestrade?»

«Perché volevo che prima tu tornassi a casa, magari avremmo potuto organizzare un piano... E poi perché sapevo che eri con la signorina Falk, ovviamente,» fece un sorriso tirato.

«Sempre a rompermi le scatole, eh?» scosse la testa esasperato.

Nel frattempo, John era riuscito a bloccare momentaneamente l'emorragia, ma senza neanche un kit di pronto soccorso — che in ogni caso, con Sherlock in quelle condizioni, sarebbe stato praticamente inutile — poteva fare ben poco.

«John...»

«Sì?»

«Fa freddo...»

John sentì il suo cuore spezzarsi e per un momento non percepì che dolore e paura. Le volte in cui l'aveva visto con le difese così abbassate si potevano contare sulle dita di una mano. Lo guardò in viso, una calugine di lacrime che gli impediva di metterlo bene a fuoco. La diradò sbattendo furiosamente le palpebre. Il suo colorito era sempre più chiaro e presto avrebbe probabilmente perso lucidità.

«Ascoltami, Sherlock,» disse guardandolo dritto negli occhi. «Ora devi farmi una promessa, ok? Adesso devo andare a prendere il cellulare che ho lasciato all'ingresso e chiamare un'ambulanza. Devi promettermi che non morirai, Sherlock. Che non chiuderai gli occhi. Che continuerai a lottare finché l'ambulanza non sarà arrivata. Me lo prometti?»

«John... Le probabilità che io sopravviva sono—»

«Me lo prometti, Sherlock?»



«Te lo prometto.»










L'ambulanza arrivò circa dieci minuti dopo. Il corpo di Sherlock era immobile e freddo, ma lui respirava ancora.

Una volta arrivati in ospedale, lo portarono d'urgenza in sala operatoria, costringendo John a rimanere ad aspettare fuori, in un corridoio con il neon intermittente. Su quella scomoda sedia di plastica, lo sguardo fisso sulle lancette dell'orologio da parete di fronte a lui, gli parve di impazzire.

Sherlock, ti prego, non morire. Non so se riuscirei a sopravvivere a questo un'altra volta. Ti supplico, non lasciarmi. Non ce la farei. Mi ucciderebbe. L'ha quasi fatto allora...



Dopo quasi tre ore – sia Lestrade che Mycroft se ne erano ormai andati – gli dissero che Sherlock ce l'avrebbe fatta e che avrebbe potuto vederlo il mattino dopo. Gli ci sarebbe voluto del tempo, ma sarebbe tornato in piena forma nel giro di poche settimane.

Poco dopo Sherlock fu portato fuori e in una stanza di terapia intensiva, dove a John fu permesso di rimanere. La notte era scesa su Londra e John era stanchissimo quando si sedette vicino al letto del suo migliore amico, ma, incapace di addormentarsi, si appoggiò allo schienale e iniziò a pensare. Pensò molto. A se stesso, a Sherlock, ai due anni in cui aveva creduto che lui fosse morto e aveva cercato di rifarsi una vita, al giorno in cui se l'era ritrovato davanti vestito da cameriere come se niente fosse. Aveva davvero creduto di morire quando l'aveva visto buttarsi da quel palazzo. Nei mesi seguenti, si era trasferito e si era chiuso nel suo dolore, credendo che non sarebbe mai riuscito ad andare avanti. Ma chiunque abbia avuto un dolore così grande da piangerci fino a non avere più lacrime, sa bene che ad un certo punto si arriva ad una specie di tranquilla malinconia, una sorta di calma, quasi la certezza che non succederà più nulla. Invece Sherlock l'aveva stupito ancora ed era tornato. Pensò alla rabbia provata, seguita da una felicità immensa. E ancora, ricordò la paura di solo poche ore prima – anche se sembrava essere passata una vita – quando aveva creduto di poterlo perdere per sempre. 

L’amore può condurci all’inferno o in paradiso. Amare Sherlock lo faceva sentire come se fosse continuamente in entrambi.

Non avrebbe più permesso che accadesse una cosa simile.








Freddo. Intorpidimento. Dolore in diverse parti del corpo. 

Una fasciatura sul petto, un'altra sulla gamba. 

Il caso, gli assassini, le ferite.

Aprì gli occhi.

John.

«Signor Holmes, finalmente si è svegliato!» 

Si trovava nella stanza asettica di un ospedale. Non aveva abbastanza elementi per poter dire quale. Un'infermiera gli stava portando un bicchiere d'acqua. Accanto a sé un John profondamente addormentato gli stava tenendo la mano. Un sorriso si disegnò sulle labbra del detective mentre si tirava a sedere cercando di non svegliare l'amico.

L'infermiera seguì il suo sguardo. «Lei è davvero fortunato ad avere un fidanzato del genere. Ieri notte non ha fatto altro che prendersela con noi perché non voleva lasciarla neanche un secondo, sa?» 

Sherlock non aveva voglia di spiegare alla donna che non erano affatto fidanzati, ma sentì il proprio sorriso allargarsi ancora di più.

«Non lo svegli, per favore.»

«Ma certo. Posso aiutarla in qualche modo?»

«Può fare qualcosa per il dolore? Mi sta uccidendo.»

«Oh, signor Holmes, dubito che ci sia davvero qualcosa là fuori che possa ucciderla,» gli rispose l'infermiera, spingendo nel frattempo alcuni tasti accanto al detective. «Quando è arrivato qui ieri sera era messo davvero male, ma ha lottato per la sua vita come solo pochi fanno.»

In quel momento, John iniziò a svegliarsi.

«Vi lascio soli, per qualsiasi cosa sono qui fuori.» 





Doveva essersi addormentato in una terribile posizione su quella sedia, perché ora aveva tutto il collo e le spalle indolenzite. Si stiracchiò, prima di aprire lentamente gli occhi. 

«Sherlock? Sei sveglio!»

«Buongiorno, John.»

«Come ti senti? Hai bisogno di qualcosa?»

«Calmati, sto bene ora.»

«Grazie a Dio. Non farmi mai più una cosa del genere, chiaro?»

Sherlock sorrise. John si rese conto solo in quel momento di star tenendo ancora la mano al detective e gliela lasciò, a metà tra l'imbarazzato e lo stizzito.

«Che hai da sorridere? Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai? Io –»

«Hai visto? Ho mantenuto la mia promessa.»

«Già... L'hai mantenuta.»


Si guardarono negli occhi. Si possono dire tante cose, ma ci sono silenzi in grado di farti capire cose che nessuna voce può spiegare.




«Ehi, quanto hanno detto che devo rimanere a riposo?»

«Almeno due mesi, perché?»

«Come andranno avanti a Scotland Yard senza di noi per tutto quel tempo?»






  
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