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Autore: MZakhar    28/11/2014    0 recensioni
"Le mie orecchie sono sintonizzate sui miei amici corvi, che sorvolano gracchiando la cima di un altro vecchio salice, più avanti. Sulle prime, non distinguo altro che i loro lamenti tormentati, poi, però, mi accorgo che non sono gli unici a piangere in questo luogo abbandonato da Dio..."
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"Faccio scivolare la mano sopra il manico del pugnale, pronto a sfoderarlo in qualunque momento. Tendo ogni muscolo del mio corpo, sento il sangue pulsarmi nelle orecchie. Un attimo ancora e mi arriverà addosso con tutto il suo peso. Riesco già a sentirlo, il suo alito acre, le braccia nerborute che menano i colpi a destra e a manca. È sicuramente più forte di me, ma non mi lascio spaventare. O per lo meno, me ne convinco."
Genere: Dark, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Testa d’Alce


Il bosco è avvolto da una spettrale luce azzurra. Tutto attorno c’è il silenzio, interrotto solo di tanto in tanto dal gracchiare dei corvi. Da quando sono qui, loro sono la mia unica compagnia. Sono stati loro a indicarmi la direzione in cui si dirige Testa d’Alce, per il resto a guidarmi è il mio istinto. Fin ora mi sono sempre spinto a nord, lungo un sentiero di terriccio bagnato e foglie morte. Ho trovato un cespuglio di bacche e una fiaschetta d’argento più indietro, ho riempito la fiaschetta dal ruscello che fiancheggia quieto il sentiero e ho raccolto le bacche nella busta che avevo in tasca. È stata una fortuna inaspettata. Così come è una fortuna avere un pugnale infilato nella cintura dei pantaloni. Non ho idea di come ci sia finito e non me ne preoccupo più di tanto. Del resto, non so nemmeno che posto sia questo o da quanto tempo io stia vagando nelle sue viscere.
Mentre cammino, penso distrattamente a Testa d’Alce, al suo orribile muso e ai corpi che gli ho visto trascinare. Aveva un fucile issato sulla spalla e sospetto che la donna e il ragazzo fossero i suoi trofei. Ma non voglio immaginare come intenda esibirli, invece mi concentro sulle impronte dei suoi zoccoli, sfiorando il pugnale con le dita tremanti, in attesa di poterlo adoperare a dovere. Per qualche ragione, sono convinto che Testa d’Alce mi stia aspettando, che anche lui senta il bisogno impellente di incontrarmi. Non per fare due chiacchiere, naturalmente, ma per dimostrare all’altro chi dei due ha diritto di vivere.
È quasi buio ormai. La luce del sole sta tramontando da qualche parte dietro agli alberi, l’aria intorno a me comincia a raffreddarsi e sono felice di non dover più boccheggiare. È difficile respirare in questo posto, soprattutto di giorno, quando è più umido e caldo. Mi metto a sedere sulle radici di un vecchio salice, abbandonando appena il sentiero, e, assecondando le proteste del mio stomaco, tiro fuori la busta con le bacche. Non le ho contate mentre le raccoglievo, però sembrano un bel bottino. Se le raziono in maniera ragionevole, potrebbero bastarmi anche a colazione. Ne metto poco meno di una manciata in bocca e comincio a masticare. Non mi sarei aspettato di sentire un sapore tanto dolce sulla lingua, quasi sciropposo, ma non mi dispiace affatto. Da quando mi sono messo in cammino, non ho toccato cibo neanche una volta e queste bacche sono la cosa più vicina a un pasto che mi sia concesso. Sono momenti come questi che ti fanno apprezzare le cose che dai per scontato, come una frittata di uova ancora fumante o la morbidezza di un lenzuolo fresco di bucato. O gli schiamazzi dei vicini perennemente insoddisfatti e il conseguente rumore delle ruote che sgommano sull’asfalto. La routine di una città piccola insomma, centro del tuo mondo da una vita, ma del tutto insignificante per chi non ne ha mai sentito parlare.
Fisso le ombre contorte del bosco. Il sole ormai è scomparso del tutto, ma ha lasciato lo spazio alle stelle, luminose come piccole lanterne sospese sopra la mia testa. Mi passo una mano sulla barba ispida e inspiro l’aria della notte a pieni polmoni. Se prima avevo caldo, adesso inizio a gelare. Il vento mi alita addosso con la sua bocca invisibile, ridendo di me e dell’impresa in cui mi sono imbarcato. Lo ignoro. Le mie orecchie sono sintonizzate sui miei amici corvi, che sorvolano gracchiando la cima di un altro vecchio salice, più avanti. Sulle prime, non distinguo altro che i loro lamenti tormentati, poi, però, mi accorgo che non sono gli unici a piangere in questo luogo abbandonato da Dio e quello che mi arriva adesso è il pianto di una donna.
Con il cuore che mi martella furiosamente nel petto, raccolgo le mie provviste e mi alzo per inseguire quel suono. Nella mia testa scorrono mille scenari diversi, il più spaventoso dei quali mi induce a pensare di aver finalmente perso la ragione. Dopotutto, non ho mai incontrato nessuno, qui. Eppure, a mano a mano che mi avvicino, l’esile figura della donna prende forma. La vedo seduta sotto i rami cadenti che la avvolgono come lunghi artigli nodosi, la testa china, il viso nascosto dalle mani piene di cicatrici. Avrà sì e no una cinquantina d’anni, i capelli sono più bianchi che neri, i vestiti le stanno più larghi di una taglia. È strano, ma ha qualcosa di terribilmente famigliare. Forse quel maglioncino color lampone o il modo in cui si scuote a ogni singhiozzo. Mi avvicino quasi fino a sfiorarla.
Non osando toccarla davvero però, domando: «Le serve aiuto?».
Nessuna risposta. La donna continua a singhiozzare, come se non avessi parlato. Allora, prendendo un po’ di coraggio, le metto una mano su una spalla, stupendomi di quanto sembra fragile sotto il mio tocco.
«Com’è arrivata qui?», ci riprovo.
E all’improvviso lei alza la testa, lasciandomi senza fiato. Gli occhi di mia madre mi fissano senza vedermi davvero, due pozzi grigi e inespressivi, venati di rosso per le lacrime versate. La sua bocca trema, poi si prepara a parlare. Ma la voce che esce è troppo profonda e ruvida per appartenerle.
«Non è buono a nulla!», esclama con espressione assente. « Non è buono a nulla!».
Non oso muovermi. Non oso nemmeno respirare. Perché mia madre fa così? Perché è qui? Che cosa sta succedendo? Di chi è quella voce?
Faccio un passo indietro, pregando che ritorni in sé. Ma lei non ritorna. Le sue labbra si stirano in un sorriso estraneo, il suo sguardo si alza al cielo e io faccio altrettanto. All’inizio non capisco che cosa stia aspettando, finché le stelle non cominciano a pulsare, esplodendo in sprazzi di luce bianca. Mi devo riparare gli occhi per non restare accecato. Dura solo pochi secondi e quando tutto torna alla normalità, mia madre non c’è più. Al suo posto, scie di nebbia, dense come il fumo di un sigaro, si insinuano attraverso i rami del salice, allungandosi come tentacoli di un mostro marino.
Ed è così che appare. Colui che stavo cercando sta correndo attraverso il bosco, fendendo la nebbia con le sua corna da alce. Si sta avvicinando, sempre di più, pronto a colpirmi per fare di me il suo nuovo trofeo. E io sono qui ad aspettarlo.
Faccio scivolare la mano sopra il manico del pugnale, pronto a sfoderarlo in qualunque momento. Tendo ogni muscolo del mio corpo, sento il sangue pulsarmi nelle orecchie. Un attimo ancora e mi arriverà addosso con tutto il suo peso. Riesco già a sentirlo, il suo alito acre, le braccia nerborute che menano i colpi a destra e a manca. È sicuramente più forte di me, ma non mi lascio spaventare. O per lo meno, me ne convinco. E, quando l’impatto sembra ormai imminente, Testa d’Alce si ferma, scoppiando in una risata priva di gioia. I suoi occhi selvaggi scintillano come due pezzi di carbone messi al sole. Non ho mai visto niente di più spaventoso, il corpo di un uomo vestito di stracci, racchiuso tra la testa di un animale e due zoccoli al posto dei piedi. Visto così da vicino, il mio coraggio comincia a venire a meno.
«È così mi hai trovato», mi dice beffardo. «Immagino tu sia qui per uccidermi, spero solo che non vorrai farlo con quel stuzzicadenti».
Istintivamente, estraggo il pugnale dalla cintura, lasciando che la lama, lunga e affilata, brilli sotto i deboli raggi di una luna crescente. Butto giù la bile che mi contorce lo stomaco e mi preparo a difendermi. «Fossi in te non sottovaluterei tanto questo stuzzicadenti», rispondo, tradendo qualche nota di nervosismo, «Potrebbe portarti alla tomba».
«In tal caso», sorride accondiscendente il mostro, «non ci resta che dare inizio alle danze». E prima ancora che me ne accorga, le sue corna mi colpiscono dritto al petto, scaraventandomi lungo il sentiero. Una fitta di dolore mi attraversa il corpo come una morsa di gelo e allora resto a terra, fingendo di non avere più la forza di rialzarmi.
Soddisfatto di avermi battuto senza troppa fatica, Testa d’Alce mi si avvicina ridendo, le mani grosse come macigni appoggiate sui fianchi.
«Ti arrendi così facilmente?», mi domanda, dandomi un calcetto per obbligarmi a guardarlo. «Credevo che fossi pronto ad uccidermi, ragazzino».
«Non sono un ragazzino», borbotto a denti stretti.
«Come?». Testa d’Alce si piega su di me con la sua espressione più truce.
«Non sono un ragazzino!», urlo. E così dicendo la mia mano scatta in avanti.
Un liquido nero e appiccicoso mi cola sulle dita mentre gli occhi del mostro si spalancano per la sorpresa. Ne sono stupito e spaventato anch'io. E, mentre il suo corpo crolla a terra, con il pugnale piantato all’altezza del cuore, le immagini si sovrappongono come due negativi messi uno sopra all'altro. Un istante prima è Testa d’Alce quello che vedo. Un istante dopo qui accanto c’è mio padre. Mi rialzo in piedi, barcollando stordito. I primi raggi del sole scacciano la nebbia e non sono più nello stesso posto. Poi torno di nuovo nel bosco col mostro e ancora una volta vengo scaraventato indietro nella luce. Con il corpo che mi pulsa dolorosamente, mi trascino in parte sull'asfalto e in parte sul sentiero terroso. Con lo sguardo annebbiato distinguo una vecchia Volvo blu, a ridosso di un albero. L’altra immagine mi mostra uno dei corpi trascinati dalla Testa d’Alce. Nel mondo della luce la identifico come una donna dai capelli striati di bianco. La sua testa penzola fuori dal finestrino del passeggero e sulle spalle indossa un maglioncino color lampone. La raggiungo e tento inutilmente di liberarla dalla cintura, mentre lacrime amare mi bagnano il viso. Nello specchietto retrovisore scorgo due occhi da ragazzino fissarmi di rimando. E improvvisamente il tempo si ferma.
Mi ricordo di questo posto. Mi ricordo di questa macchina. Mi ricordo di quel giorno. Di mio padre, del suo fucile e della caccia.
«Hai cresciuto un bastardo, Marta!», aveva gridato a mia madre, stringendo il pugnale tra la mano e il volante. «Non è buono a nulla! Se non la spaventava, l’avrei presa quell’alce!».
«È solo un bambino», cercò di difendermi con un filo di voce, mia madre. «Ha solo tredici anni...».
«Stronzate!», gridò papà, svoltando pericolosamente a una curva. «Alla sua età mi guadagnavo già da vivere. Mentre lui è solo un parassita».
«Ti prego...», gemette mamma.
Ma papà non la ascoltava. Le sue urla mi spaventarono al punto da farmi piangere. Avevo paura che una volta tornati a casa se la sarebbe presa con me come succedeva ogni volta che era di cattivo umore. E allora anche mamma avrebbe pianto e lui si sarebbe arrabbiato ancora di più.
Fu questo pensiero a spingermi ad afferrare il suo fucile e a sbattere il calcio contro la sua testa con tutte le forze che avevo. Ma un bambino non può sapere quanto un gesto simile sia pericoloso. E allora la macchina aveva sbandato e papà era caduto sul clacson. L’urto fu immediato. Mamma sbatté la testa contro il finestrino, mandandolo in frantumi e io fui trascinato in avanti.
Quando ripresi i sensi, sentivo la mia pelle strusciare contro l’asfalto. I capelli mi facevano male all’attaccatura e mi accorsi che non mi trovavo più nella nostra Volvo, ma in mezzo alla strada, trascinato da mio padre come uno dei suoi animali. Mi dimenai, pregandolo di lasciarmi andare. Lui non lo fece, strinse solo di più la presa sui miei capelli. La luce del mattino si riflesse sulla lama del pugnale che aveva infilato nella cintura. A quella scoperta, mi colse il panico, stavolta l’avrebbe fatto sul serio. Mi dimenai ancora, urlando e invocando aiuto. Dopodiché non saprei dire come siano andati i fatti, mi ricordo solo del bosco e della luce azzurra che lo avvolgeva...


------------------------------------------------------------Angolino autrice!------------------------------------------------------------

Ed eccomi qua! Con una nuova, travolgente one shot! Ah-ah-ah. Lo so, lo so. In realtà nessuno di voi probabilmente mi conosce, dopotutto pubblico una volta ogni morte di Papa XD Ciononostante, ci tenevo a farvi conoscere questa storia. Soprattutto perché l'ho concepita per il corso di scrittura a cui partecipo ogni martedì, dove io e altri aspiranti scrittori ci sediamo attorno a un tavolo e diamo l’impressione di essere un circolino di alcolisti anonimi! Sì, perché le idee che partoriamo sono più o meno tutte così: tragiche e diaboliche... Ma vi assicuro che nessuno di noi fa davvero uso di alcol per inventarsi roba del genere! Al meno non io XD
Anyway! Mi sto dilungando come al solito. In realtà volevo solo conoscere i vostri pareri riguardo a questo parto mentale, perché era il mio compito per casa e non ho idea di come l’abbia svolto. Spero che sia felicemente riuscito, anche se mi rendo conto che i punti chiave che il nostro insegnante ci aveva chiesto di inserire, nel mio caso sono debolucci. Di preciso, dovevano essere presenti: 1.visione di un corpo trascinato, 2.sprazzi di luce bianca, 3.tra sogno e realtà, 4.complice nei fatti. Detto questo, aspetto i commenti! Mi fareste un favore enorme!

In attesa di qualche buon sammaritano,
M.Z.
   
 
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