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Autore: Arabelle Lee    01/11/2008    15 recensioni
E' una breve, strana Au. Un demone che sopravvive al tempo. E che è costretto a cimentarsi con un mondo dove gli umani hanno dimenticato. Quasi tutti.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sesshoumaru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La katana scivolò via dal fodero: il rumore fu leggero, come il fruscio del vento fra le foglie degli aceri, quando cominciano

La katana scivolò via dal fodero: il rumore fu leggero, come il fruscio del vento fra le foglie degli aceri, quando cominciano a ingiallire, e sembrano più presenti e vive e infine magnifiche di quando sono al culmine della loro giovinezza.

Sviup, fanno le foglie non più verdi quando il vento del mattino le sfiora, correndo fra i rami.

Sviup, fece la lama della katana, sgusciando fuori dalla guaina.

Sesshoumaru la posò ai suoi piedi, sul tetto del grattacielo abbandonato, chiedendosi per l’ennesima volta in quella giornata perché mai gli umani costruissero abitazioni così grandi (così sfrontate, aveva pensato al vederla) per poi lasciarle senza vita.

Sesshoumaru non conosceva il significato delle parole FOR SALE che brillavano al sole, bianco su rosso, ancora non del tutto sbiadite. Sesshoumaru ignorava, né gli sarebbe importato conoscerle, le complicate vicende che riguardavano l’aumento dei tassi d’interesse e la crisi dei mutui e il grande crack mondiale e, insomma, tutto l’aggrovigliato (e ai suoi occhi, ovviamente, ridicolo) meccanismo che aveva portato in pochi mesi il mondo degli uomini dalla ricchezza alla miseria. Sapeva solo che quella enorme dimora era vuota, e che era un buon posto per lui. Un buon posto per riflettere.

Guardò la lama della katana.

Il sole batteva forte sull’acciaio. Uno sguardo umano non avrebbe sopportato la vista dei riflessi della luce senza distogliere lo sguardo. Ma Sesshoumaru poteva. E guardare lo aiutava a pensare.

La luce bianca si scompose. Divenne azzurra, viola, rosa. Rossa.

Rosso come il sole che cala su prati di cui non si vede la fine.

Il brivido del vento sull’erba. Canto d’uccelli che si affievolisce. Il suo volo contro il tramonto. Sotto di lui, il tremito di animali nascosti, la paura di chi fugge, le rovine fumanti di un villaggio, il sangue dei caduti in battaglia.

Quello era stato molto tempo fa, prima che il mondo andasse avanti, come avrebbe detto un ningen sognatore che Sesshoumaru non avrebbe mai conosciuto. Per lunghi anni aveva volato sopra il mondo degli uomini osservandone le vite, le guerre, gli amori, la fatica. Da quando aveva compreso in pieno la propria natura e la sua grandezza, il bisogno di nutrirsi di loro era scomparso definitivamente, e con esso la necessità di affermare la propria superiorità uccidendoli.

Era passato, sì.

Guardò ancora la katana e il riflesso del sole che giocava sulla lama.

Viola.

Viola come il fiore velenoso che era sbocciato in un’alba di molti anni prima sulla città di Hiroshima.

Calore. Lo sente crescere mentre attraversa l’aria grigia. Sotto di lui tutto è immobile. Un gatto guarda verso il cielo senza muovere un muscolo, come una statua votiva. Persino l’erba sembra di vetro. Cosa sta arrivando? Il tempo di chiederselo, e di arrivare d’un balzo più in alto. E accade. Un sole che non aveva mai visto invade l’orizzonte. Un vento che non conosceva, sotto di lui, spazza via come un’onda bollente tutto quel che incontra. Di quel volo, ricorda solo le impronte nere dei corpi sulle pareti calcinate delle case.

Dal tetto del grattacielo si vedeva il mare, piatto e blu sotto il cielo del pomeriggio. Sulla spiaggia c’era una ragazza bionda con le braccia allacciate alle ginocchia. La grossa radio poggiata al suo fianco suonava un vecchio successo dei Beatles, Lucy in the sky with diamonds. La ragazza batteva il tempo con i piedi, guardando il cielo come se fosse veramente fatto di diamanti.

Sesshoumaru non si chiedeva il perché della musica e di quei gesti: gli umani continuavano ad essergli indifferenti. Anche se.

Anche se non aveva accolto con il sollievo che immaginava il fatto che gli youkai fossero sbiaditi agli occhi dei ningen.

I demoni esistevano ancora, certo, e sempre sarebbero esistiti. Solo, gli uomini non li vedevano più, e vivevano le loro esistenze ignorandoli. Qualcuno, intendiamoci, sembrava scorgere qualcosa, ogni tanto: nella fessura di una porta schiusa su una stanza buia, nel riflesso di un lampione sull’acqua di una fontana, nelle pupille di un cane che si fanno d’argento quando la luna è piena. O quando un volto normale – quello dell’impiegato postale o della donna dall’aria infelice a cui chiedete dove si trovi una certa strada – sembra incrinarsi e mostrare una crepa, e da quella crepa sembrano per un momento trapelare un occhio di troppo, o tremolanti ali di mosca che fremono dalla curva aggraziata di un tailleur di sartoria. O, certo, il baluginare di una zanna.

Sesshoumaru guardò verso il mare, sbuffando. Alcuni youkai avevano scelto quella scorciatoia: camuffarsi fra gli umani per cercarne la compagnia. Perché pur avendoli disprezzati, cacciati, divorati da quando il mondo era giovane, improvvisamente sembravano sentirne la mancanza, come se non sopportassero di essere ignorati.

Ridicolo, naturalmente.

Da quando aveva trovato, dentro di sé, la propria forza pura e perfetta non necessitava di nessuno. Neanche di nemici con cui misurarsi. Non c’era bisogno di affermare nulla, ormai. Era appagato dalla propria natura, completo e bastante a se stesso. Anche la katana, lo sapeva bene, non era che la manifestazione tangibile, e in un certo senso persino superflua, di quella forza.

Eppure.
Guardò la katana, di nuovo.

Il colore riflesso dal sole era, adesso, di un tenue rosa.

Rosa. Come i cespugli fioriti in quel piccolo giardino che sorvola distrattamente, invisibile a tutti come ormai avviene da secoli. Non guarda realmente le forme di vita che vi dimorano: i piccoli animali, le donne e gli uomini che camminano a passi veloci, o si lasciano andare a gesti di quello che viene chiamato affetto, un bambino seduto ai pedi di un albero.

Passerebbe oltre, come al solito, se non ci fosse quel movimento. La testa del bambino che scatta verso l’alto, come se avesse sentito un rumore.

E poi, trasecolato, Sesshoumaru si sente chiamare.

***
Non importa che nome abbia, né l’età esatta. Se lo avesse raccontato Dickens, sarebbe un orfano picchiato. Se la sua esistenza fosse consegnata alle pagine di un giornale, sarebbe un piccolo zingaro dai piedi scalzi e callosi, o un giovanissimo martire pronto ad esplodere in nome di Allah, o qualunque bambino che conosca l’infelicità e la miseria.

Ma non è così. L’infelicità del ragazzino sotto l’albero è, per così dire, ordinaria. Lui è quello che non viene invitato alle feste di compleanno, che non sa giocare a pallone, che prende una sberla di troppo da suo padre e molte risposte annoiate da sua madre. Lui è quello troppo grasso, troppo magro, troppo timido, troppo miope, condannato ad una media, quieta, normale, umana disperazione.

Se non fosse.

Se non fosse per questa scia luminosa che attraversa il cielo, in questo pomeriggio di novembre, e per quell’alone misterioso che all’improvviso rischiara il brutto praticello del parco pubblico. E per quella creatura meravigliosa dai lunghi capelli color della luna che, oddio, è proprio vero, vola, vola, VOLA a pochi metri da lui.

Un demone, grida il bambino.

Se ci fosse qualcuno vicino a lui, si volterebbero a guardarlo, preoccupati. Ma non c’è nessuno. Solo il demone.

E il demone lo ha sentito. Sta rallentando il suo volo. Si ferma davanti a lui.

Lo guarda, stupito.

***
Il bambino non lo sa, ma in quel momento Sesshoumaru si sente attraversare da sensazioni contrastanti. Curiosità, sì. Appena un poco dell’antico disprezzo. E, imprevedibilmente, sollievo.
Non aveva capito subito: ma poi era stato facile, e appena l’intuizione era diventata chiara aveva toccato terra davanti al bambino. Si esiste davvero se qualcuno ci riconosce, gli era stato detto molti secoli prima. Sciocchezze, aveva pensato allora. Ma qui, davanti ad una misera creatura che lo riconosce per quel che è, Sesshoumaru si sente forte come non mai.

Per questo, china appena il capo, rivolgendo al bambino un piccolo, regale cenno di saluto.

Rimangono a guardarsi per qualche istante.

Gli occhi del bambino sono luminosi di felicità. Non incredula, no: i bambini sono sicuri, ancora, che qualcosa di meraviglioso possa accadere ogni giorno, magari proprio in quello che sembra più buio che mai.

Gli occhi del demone brillano di luce antica e di una consapevolezza nuova.

Condivisione, è la parola.

Il bambino condivide con lui la certezza della sua esistenza, e questo la rende le dà un significato nuovo.

La vita di un demone, si dice Sesshoumaru, è una lunghissima strada verso la pienezza della propria natura. Questo è il segreto.

***

Non sappiamo se il pensiero lo rese felice. Sappiamo però che dopo averlo formulato spiccò un balzo verso quello che avrebbe ricordato, per sempre, come il più bello dei suoi voli.

Quello che lo portò sul grattacielo.

Dove il sole, ora, non si rifletteva più sulla spada.

Sesshoumaru guardò la katana.

Sulla spiaggia, la ragazza bionda si alzò, togliendosi la sabbia dai jeans. Rimise la radio nello zaino. Raggiunse la strada. Si mise a correre contro il tramonto.

Sesshoumaru allungò la mano.

Sviup, fece la spada, rientrando nel fodero.

   
 
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