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Autore: aturiel    01/12/2014    3 recensioni
"Stanco si accasciò al suolo e il buio incominciò ad avvolgerlo. Si sentiva soffocare, l’aria cominciò come a pesare e a bloccargli la gola. Si strinse il collo con le mani, il respiro iniziava a mancargli; tutt'un tratto una farfalla dalle ali candide gli penetrò nel petto: il sangue usciva copiosamente, il dolore era insopportabile e, poco prima di perdere i sensi, vide la creatura uscire dalla sua carne e le sue ali, prima bianche, erano rosse di sangue."
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Prima classificata al contest "Tempo di... Tag - Second Edition" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "AU CONTEST - Wherever we are" indetto sul forum di EFP da EmmaStarr
Seconda classificata al contest "Brace yourself : angst is coming" indetto sul forum di EFP da Starhunter
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nagisa Hazuki
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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431 a.C – Atene



Buio.
Un buio che inghiotte era tutto ciò che Aruse riusciva a scorgere; un buio che inghiotte e una strada. Quella era illuminata, ma poiché tutto il resto era sommerso dalle tenebre, non poteva far altro che seguirla senza sapere dove l’avrebbe condotto. A un tratto la strada in questione si biforcò, lasciandolo indeciso su quale via percorrere: quella alla sua destra o quella alla sua sinistra?
Aveva sempre seguito il suo istinto, in battaglia come nella vita, ma questa volta non capiva quale fosse quella giusta, non riusciva a scegliere. Cosa poteva significare?
Cercò di imboccare la strada a sinistra, ma più vi si avvicinava più quella si allontanava; provò quindi con l’altra, ma nemmeno quella riuscì a scegliere. Tentò ancora, poi ancora una volta e un’altra ancora, ma più camminava più le vie divenivano lontane.
Stanco, si accasciò al suolo e il buio incominciò ad avvolgerlo. Si sentiva soffocare, l’aria cominciò come a pesare e a bloccargli la gola. Si strinse il collo con le mani, il respiro iniziava a mancargli; tutt'un tratto una farfalla dalle ali candide gli penetrò nel petto: il sangue usciva copiosamente, il dolore era insopportabile e, poco prima di perdere i sensi, vide la creatura uscire dalla sua carne e le sue ali, prima bianche, erano rosse di sangue.

Stava compiendo una marcia simile a tante altre, quella mattina. Era in compagnia di soldati - di amici -, eppure nel suo animo aleggiava un’ombra scura, simile a un sinistro presagio: il sogno era ancora impresso nella sua mente e non riusciva a scacciare l’immagine e la sensazione di quella farfalla che penetrava in lui.
Non c’era nulla che il suo cuore a tratti di fuoco ardente, a tratti di freddo vento invernale, temesse, ciò nonostante non riusciva ad allontanare dalla mente e dal petto quell’infima paura. Che lo scontro di quel giorno sarebbe andato male? Sarebbero forse morti i suoi compagni? O forse lui, Aruse, avrebbe conosciuto l’Ade? Tutto era incerto.
Camminando lungo le Lunghe Mura, il giovane soldato si avvicinava insieme ai suoi commilitoni alla battaglia, pronto a dar la vita per la sua polis. Non temeva il Fato, quello agiva solo per suo capriccio, ma sentiva che quel giorno sarebbe stato in qualche modo differente dai precedenti.
Apollo aveva da poco attraversato la volta celeste con il suo carro, quindi lo scontro sarebbe cominciato a momenti: uscirono dalla città a testa alta, lasciarono alle loro spalle la fortificazione immensa che li proteggeva ormai da mesi e infine si schierarono, pronti a combattere.
Di fronte a loro iniziavano ad avvicinarsi anche i nemici, con i loro muscoli possenti e gli sguardi ardenti. Gli Ateniesi imbracciarono gli scudi e afferrarono le armi; Aruse non era in prima linea, ma nel cuore dello schieramento poiché non era abbastanza abile con la lancia, ma pochi lo superavano in abilità con la spada, tanto che lo stesso Pericle, che conosceva da tempo, lo aveva lodato durante un combattimento d’allenamento.
Frattanto gli Spartani si avvicinavano sempre di più, facendo sollevare una nube di polvere con i loro sandali di cuoio e spaventando gli uccelli con il suono delle loro voci tonanti e delle armi sbattute con forza sugli scudi: stavano per arrivare. Gli arcieri in retroguardia si prepararono a lanciare le loro frecce, attendendo il momento propizio, quando il sole ormai alto avrebbe colpito gli occhi dei nemici, accecandoli per qualche attimo: il tempo si fermò, il vento smise si soffiare, i cavalli stettero in silenzio, i suoi compagni non respirarono più, tutto sembrò immobile tranne il suo cuore che, affannato e desideroso di sangue nemico, palpitava veloce nel suo petto.
Un urlo di guerra spezzò l’incanto e tutto riprese, o meglio, cominciò: la prima freccia attraversò il campo di battaglia, veloce come un fulmine e altrettanto letale, seguita poi da molte altre; i nemici si ripararono sistematicamente sotto gli scudi di cuoio senza rompere la schiera, proteggendosi dal nugolo di quelle punte pericolose che oscurava il cielo. Molti resistettero, impassibili, a quel primo attacco, ma alcuni cedettero sotto i molteplici colpi inferti dalle frecce ateniesi.
Conclusasi la prima offesa, gli Spartani sollevarono le teste, mostrando ancora una volta i volti resi scuri dal sole e temprati dalle intemperie: tutti ad Atene sapevano che quegli uomini erano fuori dal comune, allenati fin dalla più tenera età a sopportare fatiche di ogni genere ed educati alla più rigida delle discipline, eppure nessuno di loro li temeva, sicuri delle proprie capacità.
Aruse non sapeva bene rapportarsi con gli altri: aveva un carattere introverso e a tratti pareva freddo come il mare d’inverno, ma, quando scendeva in battaglia, il fuoco di Ares lo pervadeva e infiammava il suo animo e il suo corpo, rendendolo invincibile.
Lo scontro vero e proprio cominciò solo allora, quando i nemici si lanciarono all’assalto con urla di guerra; il primo impatto fu devastante: quei corpi possenti premevano prepotenti da dietro gli scudi e cercavano di sfondare la schiera ateniese, in qualche punto riuscendo anche nell’intento. Quando qualche spartano riuscì a penetrare nell’esercito, Aruse percepì il suo cuore accelerare; cercò di mantenere la sua abituale espressione gelida e distaccata, provando a separare la mente dal corpo, quasi fosse qualcun altro a sentire il sole cocente battere sulla pelle, come se la spada che stringeva non fosse sua, ma di qualcun altro, come se l’odore penetrante del sangue che piano si diffondeva nell’aria non lo stesse sentendo lui.
Come succedeva ogni volta, tutto divenne confuso: iniziò a mulinare la sua lama con tutta la forza e la destrezza che il suo corpo gli consentiva, il sangue schizzava, le braccia venivano mutilate, le teste mozzate, il dolore lo infiammava, i visi dei nemici si sovrapponevano diventando tutti simili, i muscoli incominciavano a dolere. Il sudore che gli colava giù dai capelli neri come l’ebano gli bagnava gli occhi, appannandogli di tanto in tanto la vista; era inebriato da tutto ciò, dalla confusione che regnava, dai corpi nemici e amici che si mescolavano in quella danza di ferro e urla che, fossero di dolore o di guerra, parevano più versi ferini.
La battaglia stava raggiungendo ormai la sua conclusione, tanto che Aruse cominciò a pensare che forse non sarebbe accaduto nulla di nuovo quel giorno, che forse il suo sogno, all’apparenza divino e premonitore, fosse solo frutto della stanchezza delle sue membra provate dai continui scontri. Eppure non era quello che l’ateniese realmente si aspettava: temeva l’arrivo della farfalla scarlatta e in qualche modo sapeva che sarebbe giunta da lui, insieme a tristezza e dolore.
Bastò quel pensiero e in un attimo tutto nella visuale di Aruse mutò, lui capì: tra la polvere e gli schizzi di sangue, tra i corpi accaldati e bruciati dal sole di quei soldati, ce n’era uno che ancora non aveva finito di lottare, e non lo faceva solo per dovere, ma per brama di vittoria. Ed eccolo il terribile miracolo: un soldato scagliato sul mondo come fosse una folgore di Zeus, con quei capelli rossicci e gli abiti bianchi incrostati di sangue che continuava imperterrito a spargere, il corpo possente tipico di uno spartano che si muoveva quasi danzando, ma soprattutto quegli occhi vermigli che, ne era certo, avevano il colore della morte.
Aruse, proprio lui che mai si era preoccupato di diventare più forte e che si accontentava di ciò che il suo corpo naturalmente agile gli offriva, si sentì un debole ragazzino di fronte alla potenza dirompente di quelle membra. Afferrò la spada che prima aveva abbassato e si diresse contro di lui, con il desiderio irrazionale di sfidarlo e, se necessario, di morire sotto i colpi di quell’arma sporcata del sangue dei suoi compagni; un sospiro e tutto ancora una volta parve fermarsi: corpi di amici e nemici si mescolavano a terra, ormai rossa di sangue e interiora, i raggi del sole battevano sulla pelle bruciata e i gemiti dei feriti si alzavano lamentosi, ma niente riuscì a distrarlo da quegli occhi vermigli che, appena incontrarono l’azzurro dei suoi, sorrisero feroci.
Aveva trovato la sua farfalla.

*****

Si era stupito non poco che quel giovane fosse stato catturato: c’era stato bisogno di quattro uomini piuttosto forti per riuscire a tenerlo fermo tanto si dimenava, cosa che aveva convinto Aruse che, alla fine, l’avrebbero ucciso; quindi, mosso da non si sa quale mano divina, gli si era avvicinato e, con la sua abituale freddezza, l’aveva colpito senza troppe cerimonie al ventre e sulla schiena con il piatto della lama così da farlo crollare a terra, poi l’aveva definitivamente tramortito con un colpo d’elsa sulla tempia. Non l’aveva più visto da quel giorno, dal momento che era custodito dagli uomini che si occupavano dei prigionieri e, probabilmente, era stato – ed era tutt’ora - sotto interrogatorio.
Decise di dirigersi da lui, anche se non conosceva la vera ragione per cui lo stava facendo; d’altronde lui seguiva ciò che la sua mente gli suggeriva e, in quell’istante, gli stava dicendo di incontrare quel nemico di cui, nonostante tutto, riconosceva una forza e un coraggio sorprendenti.
Non ci volle molto che si trovò di fronte a uno degli uomini di guardia. Per fortuna i due si conoscevano molto bene, tanto da potersi definire intimi amici, ma questo non sarebbe bastato a farlo entrare. Fu l'amico a rivolgergli, come sempre, il saluto per primo:
«Aru, come mai passi di qui? La tua abitazione è lontana».
«Machise, salve» disse, come se non avesse udito minimamente la domanda postagli dall'amico.
«Aruse, rispondimi per piacere» insistette ancora, sempre più preoccupato. Conosceva bene Aruse, e se c'era una cosa che aveva compreso del suo quasi indecifrabile modo di comportarsi era che non nascondeva mai le sue intenzioni se gli venivano chieste... a meno che non implicassero qualcosa di estremamente sciocco o di paránomos, contro le leggi. E aveva la sgradevole sensazione che, in questo caso, si trattasse di entrambe le cose.
«Aru,» lo chiamò con affetto «dimmi a cosa stai pensando».
L'altro si limitò a volgere il capo dall'altra parte, come era solito fare quando qualcosa lo imbarazzava, scuotendo i lisci e lunghi capelli corvini che gli andarono a nascondere i freddi occhi blu: non voleva rispondergli, ormai gli era più che evidente.
Machise sbuffò contrariato, poi, notando come il suo sguardo continuava a sbirciare dietro di lui dove si apriva il lungo corridoio che conduceva al luogo in cui venivano tenuti i prigionieri, gli sussurrò: «Non so cosa tu abbia intenzione di fare lì dentro, Aruse, ma spero non sia così stupido da farci punire entrambi quando ti avrò fatto entrare».
Ormai Machise aveva smesso di tentare di capire la persona di fronte a lui: avevano passato molto tempo insieme da bambini, instaurando una forte amicizia che poi si era naturalmente tramutata in qualcosa di più, ma niente di tutto ciò era riuscito a fargli realmente comprendere cosa muovesse il cuore del compagno e questo, come tante altre cose di lui, lo facevano spesso intristire. Ciò però non gli avrebbe impedito di aiutarlo: di lui si fidava ciecamente, sapeva che il suo animo era cristallino come l'acqua di fonte, e niente l'avrebbe convinto del contrario.
Aruse incrociò lo sguardo smeraldino dell'amico e gli rivolse un cenno riconoscente quando lui si spostò lateralmente, lasciandolo passare.
Percorse il corridoio maleodorante in pietra, uno dei pochi non decorati della polis, poi, alla fine di quello, si ritrovò in uno stanzone incrostato di muffa con numerosi insetti che correvano indisturbati sul pavimento. Si nascose dietro una delle colonne presenti per non farsi scoprire e, con gli occhi che dardeggiavano di qua e di là, lo cercò.
Un uomo era seduto per terra, in un angolo, e molti soldati gli stavano di guardia. Sapeva che quello era stato uno dei pochi catturati vivi durante la battaglia, ma il giovane si chiese ugualmente se davvero quella figura spenta e lacera fosse lo stesso feroce guerriero che, ne era certo, era la sua farfalla scarlatta, ma poco dopo tutti i suoi dubbi si dissolsero quando, probabilmente accortosi del nuovo arrivato, il ragazzo alzò gli occhi su di lui: lo sguardo infuocato dai curiosi riflessi vermigli lo trafisse, guardandolo con un disprezzo molto simile all'odio e le sue labbra screpolate si aprirono in un ghigno ferino.
Una scarica di adrenalina lo percorse da capo a piedi, il petto improvvisamente fu dilaniato da un dolore indescrivibile, tanto intenso da farlo cadere in ginocchio. Non seppe mai quale mano divina lo nascose dagli occhi vigili delle guardie o quale incanto non fece loro udire il rumore che il suo corpo straziato produsse a contatto con il suolo, fatto sta che riuscì in un modo o nell'altro a trascinarsi fino alla fine del corridoio senza che qualcuno lo vedesse, a eccezione del prigioniero. Non riusciva a comprendere cosa gli stesse accadendo, voleva solamente raggiungere la luce di fronte a lui e la mano forte di Machise che lì lo attendeva, pronta, come sempre, a sorreggerlo.

Solo quando finalmente uscì da quell'infinito corridoio e l'amico lo aiutò a tirarsi su dalla polvere, la sua mente annebbiata collegò il dolore del sogno a quello reale che ora lo attanagliava, e solo allora capì: la farfalla era entrata in lui, ora stava solo aspettando di inzupparsi del suo sangue e di traforargli il corpo per uscire.



 


Note:
Il simbolo della farfalla rispecchia la duplicità dell’essere, la linea sottile che separa il confine fra il bene e il male. Così la farfalla è anche simbolo di leggerezza spirituale, curiosità, incostanza, imprudenza, fino ad assumere il simbolo della morte. Il nome di una farfalla ricorda infatti una delle Parche.
Inoltre, come penso abbiate notato, ho "grecizzato" i nomi - non potevo di certo far vivere un Haruka, un Makoto o un Rin nell'Antica Grecia! - e quindi, anche se ho giocato un po' con i suoni e quindi sono tutti abbastanza simili agli originali, questi sono i risultati:
Haruka--->Aruse
Rin---> Rinidoto
Makoto---> Machise
Nagisa---> Naghise
Non sono molto fantasiosi in realtà, però volevo appunto che qualcosa del nome originale venisse mantenuto. In realtà l'unico davvero pensato è Aruse, costruito in modo che possa essere abbreviato in Aru, che quindi ha lo stesso suono del corrispettivo giapponese. 

 



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