Serie TV > Arrow
Ricorda la storia  |      
Autore: Aries K    03/12/2014    3 recensioni
«Felicity», articolò, la voce roca.
«Oliver», disse lei, a mo’ di saluto.
Lui inspirò, gettando un’occhiata disperata al soffitto, proprio mentre la biondina lo sfiorava per dirigersi verso le scale.
«Felicity», ritentò, questa volta implicando nel suo nome una preghiera: “resta”.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Felicity Smoak, John Diggle, Oliver Queen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Angolino autrice: Ciao a tutti! Prima di lasciarvi alla lettura vorrei dirvi che ho iniziato questa storia l'anno scorso, ma che, per chissà quale motivo, l'avevo abbandonata. La prima parte, come vedrete, si colloca nella seconda stagione, dopo che Oliver perde sua madre ed è deciso nel consegnarsi a Slade. Ed è ambientata nel rifugio dove si era andato a rintanare.
La seconda parte è successiva all'episodio della terza stagione, ossia 'Cupid'. Ecco, ho detto tutto lol spero possa piacervi e....buona lettura!








Quindi è questo quel che intendevi
quando hai detto che eri esaurita
e adesso è tempo di costruire
dal fondo di una fossa
fino su in cima
non tirarti indietro
facendo le mie valigie
e dando all'accademia un piano di isolamento

non vorrò mai abbatterti
non vorrò mai lasciare questa città
perchè dopo tutto
questa città non dorme mai di notte

è tempo di iniziare, vero?
diventerò un po' più grande
ma poi ammetterò che
sarò lo stesso di quel che ero
adesso non capisci che
non cambierò mai quello che sono

"It's Time" - Image Dragons




Avrei potuto snocciolare mille motivi per detestare la mia vita, ma avrei anche potuto averne altrettanti per ammettere che, malgrado tutto, non era poi così male.
Quel malgrado tutto comprendeva una serie infinita di pericoli, di inesorabili ore davanti al pc di un vecchio magazzino in rovina e di accogliere nella mia vita l’essere più contraddittorio, complesso e assolutamente irresistibile che esisteva sulla faccia della terra: Oliver Queen.
Mi trovavo nel suo Rifugio segreto, e non facevo altro che osservare l’espressione arresa del suo volto mentre mirava un punto imprecisato che si scorgeva da oltre la finestra. Da quando Slade era tornato a Starling City giurando che avrebbe fatto di tutto per far crollare i pezzi che componevano la sua vita, Oliver era a dir poco irriconoscibile. Aveva una luce negli occhi, e quella luce adesso era solo un barlume appena visibile sotto quelle iridi chiare. Potevo solo immaginare cosa stesse osservando la sua mente, quali terribili scenari stesse ripercorrendo ossessivamente; ogni suo lineamento era stravolto da un dolore che poteva conoscere solo lui.
Ma di cui ne sentivo la eco in ogni fibra del mio essere.
Oramai avevo capito –non senza una punta di irritazione nell’averlo dovuto ammettere a me stessa, in passato- che Oliver mi si era insediato sottopelle. Sì, quel ragazzo dal passato surreale e dal presente ancora più incredibile si era lentamente e silenziosamente scavato una nicchia nella parte più profonda della mia anima, dove mai avevo creduto che qualcuno come lui vi avrebbe trovato accesso. Oliver voltò il capo nella mia direzione, guardandomi esausto, come se per tutto quel tempo non avessimo fatto altro che discutere. Avrei tanto voluto alzarmi dalla sedia su cui ero adagiata in bilico, inginocchiarmi di fronte a lui e scuoterlo, urlargli in faccia che Slade non aveva ancora vinto nonostante gli avesse inferto un colpo duro, durissimo; avrei persino avuto voglia di dargli uno schiaffo, una spinta, tutto –tutto- pur di vederlo reagire. Pur di trovare nei suoi occhi l’eroe che avevo imparato ad amare.
«Non cambierò idea.» Disse e fu tremendo cogliere la categoricità con cui pronunciò quelle parole.
«C’è un’altra soluzione, Oliver», risposi, stringendo i pugni per evitare di scoppiare in un pianto che non avrebbe fatto altro che ostacolare le mie intenzioni di farlo ragionare, «non so dirti, adesso, quale sia ma lasciati aiutare. Non è una guerra solo tua questa, niente è stato sempre e solo tuo.»
Chiuse gli occhi e tornò a reclinare il capo contro la colonna di marmo contro cui era appoggiato con le spalle, le braccia tese lungo le ginocchia piegate.
«Ne abbiamo già parlato. C’è solo un modo per far desistere Slade Wilson, ed è consegnarmi a lui. Sta mettendo in atto tutto quello che mi ha promesso, ho perso qualsiasi cosa… l’azienda, mia madre, Thea fatica a sostenere il mio sguardo, Roy è la nemesi di se stesso solo perché non gli ho dato l’attenzione che meritava. Nonostante questo, la lista potrebbe crescere perché l’ira di Slade non è ancora giunta al suo termine. Devo arrendermi, solo così posso fermarlo.»
«Tu credi davvero che questa sia la scelta migliore? L’unica che ti sia concessa?», mi alzai in piedi, catturando nuovamente il suo sguardo. Lo raggiunsi con tre falcate, dunque mi inginocchiai per guardarlo negli occhi. «Non pensi a quello che lasceresti? Sei l’ultima persona che rimane a Thea, la tua perdita la strazierebbe e dubito che tornerebbe ad essere la ragazza che ho conosciuto. Ha perso sua madre, Oliver, e non c’è bisogno che io te lo ricordi, per questo ha bisogno di suo fratello. Il giorno in cui Roy si sveglierà avrà bisogno di una guida per ritrovare se stesso, e quella guida sei tu. Perché lui ha scelto te, ha voluto questa vita.
Come se non bastasse Slade e Blood sarebbero a capo di Starling City e la città morirebbe lentamente. La città ha ancora bisogno di Arrow, più che mai… e poi…», presi respiro, chiudendo e riaprendo gli occhi,«…e per quanto ne possa valere, io non riuscirei mai ad accettare la tua…la tua…»
«Felicity.» Nella sua voce, quanto nella sua espressione, non lessi la volontà di interrompermi bensì mi guardò come se il mio nome gli fosse sfuggito dalle labbra. Io avvertii un preoccupante calore localizzarsi nel solco tra i miei seni, estremamente intontita, soggiogata dalla disperata prospettiva di perderlo.
«Prima che io non possa più riuscire a parlare –e ti assicuro che potrebbe accadere da un momento o l’altro, questa cosa di ammutolirmi come se…se…- insomma, non potrei accettare di perd…Dio, Oliver, non riesco nemmeno a dirlo ad alta voce», ammisi, con un certo affanno, mentre crollavo a sedere al suo fianco. Perlomeno, ero riuscita a sottrarmi dal suo sguardo, che adesso mirava in basso verso i nostri piedi. «Qualsiasi cosa tu dica di me, vale», sussurrò dopo qualche minuto di silenzio. Si voltò per osservarmi, e mi parve più presente a sé stesso di qualche minuto prima, «non sono bravo con le parole. Perlomeno, non sono capace di articolare un discorso come te…»
«Non ci vuole chiss…»
«Felicity», mi redarguì con un sospiro. E l’accenno gradito di un sorriso.
«Comunque vadano lo cose, voglio che tu sappia che per me sei stata una preziosa alleata. La tua intelligenza, la tua arguzia e il tuo estro informatico hanno significato molto per me. Ma ciò che più mi ha reso ciò che sono, oggi, è la tua umanità.»
Il cuore mi batteva come un ossesso; mille e più volatili dibattevano le loro ali all’interno del mio stomaco, e la minaccia di piangere non era mai stata così tangibile come in quel perfetto istante. Era la fine del mondo, ma mi sentii viva.
«Smettila di parlare come se tu non fossi umano», dissi in un sibilo, stringendo i pugni in grembo, «forse io ti ho ricordato che lo sei, ma tu…tu lo sei sempre stato.»
«Non posso essere Oliver e Arrow allo stesso tempo. E per essere il secondo, devo necessariamente diventare qualcun altro. Qualcos’altro.»
Scossi il capo, venendo frustata sulle gote dalla mia coda di cavallo, tanta la veemenza del movimento.
«Quando ti cali il cappuccio sul capo, non cambia niente. Niente.»
Come se non mi avesse ascoltato, come se le mie parole non avessero preso vita e non fossero mai giunte alle sue cocciute orecchie, Oliver disse:
«Non posso essere entrambi, Felicity.»
La stanchezza con cui pronunciò quella frase mi impose un castigato silenzio. Avrei voluto continuare a contraddirlo –quanto è vero che era diventato il mio hobby per eccellenza- ma anche io mi sentivo prosciugata, al limite di me stessa. Mi avvicinai impercettibilmente a lui, ad osservare la città che si mostrava nella sua decadente imponenza. Avrei voluto poggiare la testa sulla sua spalla rilassata, piangere, sì, fino a sciogliermi tutta. Ma non feci niente di tutto questo. Ma lo avrei fatto in un’altra occasione, fino all’ultimo briciolo di forza. Perché non poteva finire così. Oliver non poteva e non doveva concedersi al nemico. Non avrei potuto accettare quella realtà, né viverne le conseguenze.
Il cielo si tinse lentamente di rosso, le nuvole si erano spostate nel cielo come se avessero voluto concederci di ammirare la bellezza che Starling City poteva ancora offrire. L’eco del traffico era la vita che continuava, ignorando cosa si muovesse nel sottosuolo. Oliver ruppe il silenzio:
«Ti prometto che ci penserò, Felicity. Troverò un’altra soluzione.»
Non ero sicura che avessi fatto breccia nella coscienza di Oliver, ma sapevo che riuscire a persuaderlo equivaleva nel riuscire a spostare una montagna. Non cantai vittoria, ma oltre le mie lacrime invisibili, l’ombra di un sorriso fece capolino.
Era la fine del mondo, o forse le somigliava soltanto.





Qualche mese dopo…





Non c’era mai stato niente, nella sua vita, a sembrargli così vicino eppure così distante. Soprattutto, Oliver Queen non avrebbe mai potuto immaginare che la cosa cui sentiva fuori portata potesse essere una persona e che quella persona potesse rispondere al nome di Felicity Smoak.
Saprebbe ripercorrere con perfetta lucidità e nitidezza i passi che li avevano portati a guardarsi a stento, a parlarsi a mezza bocca e mai più del necessario.
Oliver osservava Felicity, rigidamente poggiato contro il tavolino d’acciaio della loro tana, mentre lei spiegava a Diggle il nuovo programma antivirus –anti invasione, anti qualsiasi cosa- installato nei computer. John Diggle aveva l’aria perplessa e una ruga d’incomprensione a solcargli la fronte, sebbene il suo capo annuiva in cenno di assenso alle parole della giovane informatica.
«E questo è quanto», sancì lei, andando a spegnere i suoi pc con un gesto plateale della mano. Oliver aveva imparato ad odiare quel gesto, poiché esso significava il termine della giornata. Il momento in cui il crimine era stato dominato, il momento in cui si sarebbero tutti salutati, quello che avrebbe visto Felicity recuperare la propria borsetta e correre dal suo nuovo impiego.
Da Ray Palmer.
L’arciere sentì uno spasmo scuotergli il corpo, tanto che dovette voltarsi per poggiare i palmi delle mani sul piano del tavolino. Quel nome…aveva imparato a detestare anche lui.
Erano trascorsi pochi giorni da quando gli era capitato di vedere Ray baciare Felicity e quell’immagine lo perseguitava come una bestia feroce pronta a rodergli il fegato.
Per farlo deliberatamente impazzire.
E ci fu un breve lasso di tempo in cui Oliver credette sul serio che la ragione lo avesse abbandonato. L’aver visto la ragazza che amava ma che non poteva avere tra le braccia di un altro, pronto a donarle ciò che lui non poteva offrirle, gli fece offuscare la percezione del mondo. Era tornato con foga nel Rifugio, scendendo le scale come se l’intera Starling City stesse bruciando e lui potesse salvarsi solo rimanendo nel suo luogo segreto. Si era posto al centro della stanza cercando di placare il fiato corto, il cuore straziato e impazzito, l’adrenalina nelle vene… ma non ci riuscì.
La rabbia…cielo, la rabbia che lo aveva pervaso fu tale che distrusse tutto ciò che aveva sotto tiro. Scandagliò le sedie, spazzò via con un gesto affaticato e disperato ogni oggetto presente sul tavolo e gridò fino a sentire le corde vocali implorare pietà.
Poi era crollato a terra e, non seppe come, con una freccia tra le mani.
Avevi detto che potevo essere sia Oliver che Arrow, si rivolse mentalmente a John, eri riuscito a infondermi fede, di nuovo. Ma sono arrivato troppo tardi.
Guardò la promittente punta della freccia, la quale ammiccava sotto la luce metallica sopra la sua testa, e Oliver si domandò cosa ne sarebbe stato di lui. Adesso che nemmeno colei che lo aveva aspettato aveva saputo resistere.
Non aveva saputo rispondersi, ma riuscì stoicamente a rialzarsi dal pavimento. Ripose delicatamente la freccia mentre osservava il disastro che aveva creato. Poi uscì, dirigendosi verso casa Diggle.
Era questo il rovescio positivo di essere un guerriero: poteva mascherare in fretta il dolore, dissimulare, almeno per una notte.
Per tutta la serata non aveva fatto altro che osservare il piccolo paradiso privato che Diggle –malgrado tutto- era riuscito a crearsi assieme a Layla e alla piccola e adorabile Sara. Li osservava offrire drink, ridere, ciarlare di cose di poca importanza, sussultare per un ruttino fin troppo forte della piccola e il dolore sordo che provò alla vista di quella vita che gli mancava gli spezzò il fiato.
Ma continuò ad osservarli, con il triste disincanto con cui si guarda la pioggia precipitare dal cielo.
«Parlale.»
Quella parola, appena sussurrata, lo fece trasalire e dunque distogliere dai suoi ricordi. Il volto di Diggle era ad un centimetro dal suo naso, gli occhi castani che perforavano i suoi.
Conosco quello sguardo.
Oliver deglutì, i suoi occhi si arrampicarono lungo i polpacci di Felicity, aggrappandosi ai lembi della sua gonna rosa fino a posarsi sulla sua nuca bionda.
«Glielo devi. E lo devi a te stesso», continuò imperterrito il suo amico, ora dandogli una pacca sulla spalla in segno di incoraggiamento.
Fu quando la porta si richiuse lasciandoli soli che Oliver si sentì, per la prima volta dopo Slade, di fronte ad un nemico più forte di lui: se stesso.
Esso si palesava quando la vita li lasciava da soli, e lui lo temeva. Lo temeva con tutte le sue forze.
«Felicity», articolò, la voce roca.
«Oliver», disse lei, a mo’ di saluto.
Lui inspirò, gettando un’occhiata disperata al soffitto, proprio mentre la biondina lo sfiorava per dirigersi verso le scale.
«Felicity», ritentò, questa volta implicando nel suo nome una preghiera: “resta”.
Con la coda dell’occhio vide il suo movimento arrestarsi; quando egli si voltò completamente verso di lei, solo la sua codina di cavallo dondolava. Felicity lo guardò da sopra la spalla.
«Se arrivo in ritardo potrei giocarmi il posto di lavoro una volta per tutte.»
Oliver fece un’impercettibile smorfia. Entrambi sapevamo che non esisteva nessuna situazione al mondo capace di far camminare Felicity sull’orlo del licenziamento. Ray non l’avrebbe lasciata andare.
Nonostante il tono forzatamente giocoso che la voce di Felicity aveva assunto, Oliver fu ferito dalla fretta che lei gli aveva lasciato intendere.
Perché le cose non possono essere semplici?
«Quello arrivato in ritardo sono solo io», ammise Oliver, serrando i pugni lungo le gambe, «non ho avanzato nessuna pretesa, ma allo stesso tempo non riesco a sopportare di aver rovinato una delle poche cose buone che ho nella vita.»
Silenzio.
Gli occhi di Felicity, oltre le lenti degli occhiali, sembravano aver rubato l’azzurro del cielo e la tempesta che stava soggiogando Starling City al di fuori del Verdant. Si girò, le labbra sigillate.
Poi disse:
«Non hai avanzato nessuna pretesa? Ti comporti come se lo avessi fatto. Decidendo per entrambi, Oliver», le tremava la voce, «ti ho aspettato per così tanto. E non è stato abbastanza. Non posso aspettarti in eterno, non posso mettere in stand-by la mia vita quando tu non cerchi nemmeno di sconfiggere i tuoi demoni. Vorrei, lo vorrei, ma non posso. Perché io voglio di più.»
Felicity ansimava, il petto le si abbassava e alzava come se avesse parlato correndo. Solo allora Oliver si rese conto quanto le loro emozioni fossero latenti, pronte a scagliarsi l’uno verso l’altro.
Basta farci del male.
«Ho sempre voluto proteggerti.»
Felicity abbassò le palpebre, toccandosi una tempia in un gesto di stanchezza.
«Ne abbiamo già parlato», fu tutto ciò che disse una volta riaperti gli occhi. Mirava Oliver come se stesse dialogando con un bambino particolarmente cocciuto e duro di comprendonio. E molto spesso Oliver si percepiva come si vedeva riflesso in Felicity; quella volta non fece eccezione.
E’ finita.
E’ troppo tardi.
Lei merita di più.
«Voglio solo dirti che io ci avevo davvero creduto in noi.» Oliver gli diede le spalle, sapendo che era giunto il momento in cui i loro percorsi avrebbero intrapreso strade speculari una volta per tutte. La ragazza indugiò qualche istante, poi lui seguì i passi di lei che salivano le scale.
In un gesto impotente Oliver si portò le mani alla base della nuca, le braccia piegate contro le orecchie, gli occhi strizzati e una smorfia di frustrazione a piegargli la bocca.
Voleva sentire l’ultimo maledettissimo passo di Felicity prima di concedersi l’ultima maledettissima nottata all’insegna del dolore.
Ma quel passo non arrivò.
I suoi tacchi avevano smesso di risuonare nel piccolo ambiente.
Oliver aprì gli occhi.
Si voltò con calcolata lentezza, abbandonando con altrettanta calma le braccia lungo i fianchi. Felicity lo guardava dall’altro della scalinata, sostando sull’ultimo gradino, le nocche delle mani completamente bianche a furia di stringere la ringhiera.
«C’è una cosa che tu non hai mai capito, Oliver», proruppe, tirando su col naso, «beh, in teoria ce ne sarebbero molte altre prima di questa ma…», deglutì, prendendo respiro, «quello che non hai mai capito era che io preferivo essere in pericolo con te che al sicuro con qualsiasi altro.»
Le parole pesarono come piombo nel silenzio che seguì. Oliver non sapeva che espressione avesse assunto, poiché non si sentiva padrone di se stesso.
Aveva giocato con i destini di entrambi, con l’infantile convinzione che se Felicity fosse rimasta confinata nel Rifugio allora sarebbe rimasta al sicuro. Eppure un’intuizione improvvisa gli fece sapere che lui l’aveva fatto perché, in realtà, aveva paura.
Era più facile cedere ad una piccola menzogna che alla terrificante verità: Oliver Queen aveva paura della vita che avrebbe creato. O, più semplicemente, della felicità.
Si sentì incredibilmente idiota. Aveva preferito non trovarsi a faccia a faccia con quella consapevolezza, nascondendola sotto il tappeto della sua coscienza, ma adesso…adesso gli era scoppiata nella mente; quella mente che non poteva reggere una motivazione simile.
Si rese anche conto che Felicity attendeva una risposta.
Lui rialzò lo sguardo verso di lei, in procinto di parlare, ma Felicity alzò una mano:
«Non sei obbligato a rispondere. Abbiamo finito.»
«No, aspetta!»
«Sei fuori tempo, Oliver. Ancora.»
Uscì di scena sbattendo la porta, lasciandolo in compagnia delle parole che non era riuscito a pronunciare.
Oliver salì i gradini di volata, zigzagò tra i tavolini del pub e uscì in strada sotto la pioggia battente. Non si vedeva granché, tanto cadeva fitta. I contorni delle auto, delle case tutt’attorno erano confusi e apparivano a brevi intervalli per poi riscomparire nella notte.
Fu un lampo, seguito da un fulmine e accompagnato da un tuono a rivelargli che Felicity si trovava di fronte a lui, di spalle, con un ombrello che faticava a reggere l’ira del diluvio.
«Felicity!», gridò Oliver, «aspettami», sussurrò mentre correva per raggiungerla.
Ebbe come l’impressione di non arrivare mai, che la strada che lo divideva da lei fosse infinitamente più lunga del normale, fin quando non l’avvolse tra le sue braccia facendole perdere l’ombrellino.
«O-Oliver?!»
«Ti amo, Felicity. E ho avuto paura. Non dirmi che è troppo tardi.»
«Ho paura anche io», confessò lei, tremando nell’abbraccio.
Oliver lasciò viaggiare le proprie mani sulle sue spalle, fino a prenderle il volto tra le mani.
«Ma lo vuoi?»
«Lo voglio? Il soggetto della frase sarebbe…»
Oliver rise, scuotendo la testa.
La sua dolce, impossibile Felicity.
«Noi. Vuoi ancora un noi? Se la tua risposta è sì, ti prometto che sconfiggeremo insieme le nostre paure. Devo smetterla di perderti, Felicity Smoak.»
L’arciere sentì sotto le sue dita il calore di lei, il suo imbarazzo e desiderio così palpabili. Un sorriso fece capolino sulle sue labbra dischiuse e per un attimo Oliver si compiacque di averla lasciata senza la sua proverbiale rispostina pronta.
«Non mi hai mai perso davvero», sussurrò, ora carezzando il suo viso. Oliver si beò del suo tocco, quindi chiuse gli occhi e la baciò.
Era un bacio molto diverso dal loro primo: questo sapeva di pioggia e lipgloss e di vita. La stessa che Oliver aveva rischiato di mancare.
Strinse a se Felicity come se avesse timore che qualcuno arrivasse lì con l’intento di portargliela via. La strinse a se fino a farla gemere al suo tocco. La strinse a se mentre la pioggia lavava via le loro paure, disinfettando le ferite che si erano inutilmente inferti.
Un lampo illuminò i loro corpi intrecciati, famelici.
Un tuono borbottò sopra di loro, furioso.
Sembrava la fine del mondo, pensò Oliver, o forse le somigliava soltanto.
   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Arrow / Vai alla pagina dell'autore: Aries K