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Autore: Ornyl    07/12/2014    0 recensioni
"Decisi di ucciderla, ed ecco che questo mondo informe mi tramutò in assassino. Non usai coltelli nè veleni, nè assodai un sicario: io avrei semplicemente contribuito alla sua distruzione, devastata com'era già da quell'amor tremendo che provava nei miei confronti"
Genere: Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il misantropo
 

Luridi vermi, parassiti! Stupida razza umana, multiforme come il polpo e altrettanto viscida e maledetta!
Non dico forse la verità? Non dico forse il vero, anche se sono un assassino? Ma oh, il mondo, dannato mondo, mi ha portato a questo! Il mondo m'ha avvelenato .. No, affatto! Ha tentato di farlo! Ed io mi son difeso con la sua stessa arma, eh! Stupida congerie dei mortali! E, non contenti, volendosi approfittare dei sospiri affannosi e stanchi di un povero diavolo costretto a vivere in mezzo alla marmaglia umana, brulicante come insetti schifosi, ha deciso di mettere il poveretto in trappola! Ingabbiato tra le fredde, nere e strette pareti di un comune manicomio! Imbottito di brutte pillole amare e torturato, oh, torturato con quei luridi macchinari pieni e pieni di fili, grandi come bisonti, e inchiodato ad un lettino con caviglie e polsi in trappola!
Ma nella loro stupidità i mortali, quelle bestie orrende animate da mille e più impulsi brutali, non sanno che la loro povera vittima ha saputo .. fotterli! Sì, fotterli! Eh! Con la marmaglia, la massa, condividevo solo uno spirito di adattamento e sopravvivenza .. Condividevo perchè la sciocca bestia che è l'uomo, perso nella confusione del suo tempo e dei suoi eventi e delle sue emozioni animalesche, l'ha ormai perso! Stolto com'è, l'ha perso! Ah! E ora mi detestano, mi detestano ancor più perchè mi sono adattato alla loro stessa stupidità e cattiveria, mi son adattato alle torture che mi impongono, e anzi rido loro in faccia quando mi stuzzicano con l'elettroshock, dannati invidiosi! Possa l'inferno inghiottirci tutti quanti, ma mi lasci il piacere e la sanguinolenta libidine di vedervi bruciar per primi!
Dico il vero, io. Sono la luce fioca e malata in uno stanzino mentre fuori cala il buio illuminato da fastidiosi e ronzanti insetti! Loro, luridi animali, uomini comuni, mi credono un pazzo. E sbagliano, falliscono nel mezzo del loro delirio di cieca onnipotenza! Mai fui più lucido, io, e la parola che fuoriesce dalle mie labbra è la mia verità, la verità mia, l'unica .. Io sono un assassino, una macchina di morte a sangue freddo, ormai. Ma mi han fatto diventare tale, da povero diavolo ch'ero! Sono stato costretto ad adottare i loro metodi bellici, brutali e terribili per adattarmi e consentire alla povera mente mia la meritata calma. Eppure, maledetti e razza di traditori che sono, non me l'hanno concessa! Ed ora mi ritrovo a redigere le mie memorie dinnanzi a tutti loro, sorridente giuria fredda come ghiaccio e pungente come lame di rasoio. Ridete, ridete di cuore, luridi mortali viscidi come vermi e rosa come maiali, ridete delle mie memorie, vestiti con i vostri lunghi camici e crinoline e pizzi e camicie e calzoni scuri, scuri come i vostri occhi lampeggianti e crudeli, come avete reso la mia testa.
Vecchio non sono, ma la cara mamma me lo ripeteva sempre. La cara mamma, gretta di stupidità femminile come tutte le sue simili e compagne, pensava che la mia solitaria quanto disperata e silenziosa ricerca della quiete mentale fosse indice di selvatichezza. Me lo ricordava durante le mie letture nella stanza, durante le solitarie partite a scacchi con la mia ombra, durante le passeggiate in cui ella stessa veniva a rincorrermi dietro. La cara mamma, ignorante come una capra, così come tutta la mia famiglia e il mio personale e i miei conoscenti e del resto tutto il mondo, non comprende che non v'è nulla di più selvatico e animale dell'importunare con vezzi, moine e urla chi è in cerca di se stesso. Io invece l'avevo compreso e avevo tappezzato con questo mantra le prime pagine della mia agenda, avevo inciso la frase sulla mia scrivania e sarei addirittura arrivato a scriverlo sulle pareti della mia stanza. Ma poichè non è tanto più civile e umano scrivere sui muri come i teppisti da strada, mi limitavo a prender la penna e a tracciare segni su carta.
Ecco, vecchio non sono nè mi sento tale. Ma la cara mamma e il caro papà così mi ritenevano. E ben presto, durante uno di quei fastidiosi convegni familiari in cui tutta la stirpe- o la razza?- si riunisce, qualcuno- sia maledetto! Sia maledetto il suo nome, il suo sangue, possa la sua anima non aver pace proprio come rese la mia, inquieta!- avanzò l'idea che fosse arrivato per me il momento di metter su famiglia. Dunque incontrare una donna, parlarle, condurla all'altare e permettere la continuazione della mia persona attraverso e dentro lei; dall'altro lato- quel lato nascosto di cui i sicofanti non trattano mai!-avrei ovviamente dimenticato tutti i miei quieti e solitari sollazzi, le mie riflessioni mattutine e serali, le mie agende tappezzate di scritti: avevo intrapreso la strada per ritrovar me stesso, rischiando di perdermi in mezzo alla marmaglia umana, e volevano farmi dimenticare!
Fu dunque l'inizio di un calvario, come l'uomo onesto -qualora esista! Qualora esista un mio compagno e fratello di spirito!- potrebbe immaginare: la cara mamma mi trascinava dall'una e dall'altra vecchia, tutte uguali, tutte impomatate, tutte con figlie stupide e sorridenti come galline, ritte come fusi manco un palo le stesse trapassando da dietro! Ovviamente, il compagno s'immagini il mio sdegno:  intorno elle mi danzavano, portando tazzine da tè e libri, cercando inutilmente di conquistarmi con i loro dolciastri sorrisi. Ma ancora, eh già, il peggio non era arrivato. Sarebbe arrivato qualche settimana dopo l'Ultima Cena che inaugurò le sofferenze mie, povero martire dell'invadenza umana: arrivava con un cocchio piccolo e modesto, circondata da parenti rosei e corpulenti, con un abito bianco e un fiocco azzurro tra i capelli di rame.
La chiamavano Angelo, alcuni. Ma per l'anagrafe, così per me, fu Ophelia. Ophelia e nulla più.
La cara mamma mi impaccò su di lei discorsi su discorsi, tutti d'elogio, e mi garantiva che non sarebbe stata come le altre.
E appunto non lo fu. Fu la peggiore tra tutte.
Ophelia, già da subito, mi squadrò con i grandi occhi bovini e subito avvampò. La madre mi raccontò delle sue prodezze al piano, della sua abilità a scrivere poesie e canzoni, della sua voce-e addirittura la fece cantare! Gli incontri si ripeterono una volta, due, tre, finchè la presenza della fanciulla divenne costante nei miei pomeriggi: ogni volta che mi vedeva ella avvampava tutta, anche quando le lanciavo sguardi di dissenso, e appena compresi appieno ciò in mezzo ai sorrisi della mia cara mamma e del mio caro babbo, ritenni finalmente di essere in trappola. Io, nell'adolescenza e fino a quella parte di giovinezza, avevo ignorato cosa fosse l'amore nè desideravo conoscerlo: per me e per le mie care carte l'amore era una delle peggiori forze brutali che muovono l'uomo. Era l'istinto per eccellenza, ciò che muoveva la bestia maschio ad ingropparsi brutalmente la femmina, ciò che muoveva pericolosamente  l'uomo ad avvicinarsi alla donna. Ed io ero estraneo a tutto ciò, estraneo all'animalesco sentimento; lei no, così come tutte le fanciulle, cagnette già dalla più tenera età, vissute tra mille e più favole bibbie di tale istinto brutale: nei suoi occhi grandi e neri lessi amore, lessi che io ero l'oggetto di quell'istinto, lo vidi nelle mosse di quella bocca rossastra e nelle smorfie del suo viso candido e scialbo. E ciò, povero me, mi colpì come pugnalata mentre mi disgustava e mi irritava. E mi diede un calcio nel momento di grande debolezza, quando io, spinto da chissà che pietà, chissà che piano, chissà che utopistico disegno di renderla simile a me nonostante la sua natura umana, animale, ingannevole e femminile, fui costretto a chiederle la mano. Ecco! Ecco qua! Io conducevo la mia vita quieta e solitaria ed i miei mi costrinsero a sposarmi! Io ero quieto e calmo, pacifico, unico uomo in mezzo a tanti maschi, ed io fui costretto ad unirmi alla marmaglia! Le nozze mie furono un lampo improvviso e accecante, terribili manette di ferro e acqua benedetta, con un carceriere vestito di bianco e dai capelli pieni di fiocchi e perle!
Pensavano ormai di avermi in trappola ed io condividevo il loro punto di vista: da appena sposati, Ophelia non faceva altro che starmi addosso, mossa com'era da Amore e dalle sue frecce.  Ophelia mi faceva portar la colazione a letto mentre dormivo ancora- che terribile visione che era lei, con quell'abito grigiastro, ogni mattina con il vassoio tra le bianche mani mentre io ancora sonnecchiavo placido come un bimbo!-, mi faceva trovare sulla poltrona orribili segni di affetto come sciarpe fatte ai ferri, quasi volesse costantemente ricordarmi la mia prigionia, aveva premura che prendessi i miei sciroppi e che stessi bene. Quella dannata ragazza, spinta da chissà quale strana perversione, pareva volesse prendere il posto della cara mamma di cui mi ero felicemente liberato con le nozze! Ecco, ecco cosa accade all'uomo onesto che brama la quiete: trova un modo per sfuggire ed ecco che sopraggiungono altre difficoltà, altri impedimenti al raggiungimento dell'agognata quiete, unico vero orgasmo che avrei voluto raggiungere in vita mia! Ma come godere, come amarsi, come ritrovarsi, con Ophelia innamorata in giro per casa, ancora rossa come se fosse la prima volta che mi avesse visto, maledetta lei e maledette tutte le cagne come lei!
Mi ritenevo in trappola, con l'acqua alla gola, strozzato dalle sue sciarpe e dai suoi capelli infiniti. Poi, durante una notte senza sonno alcuno -l'ennesima oramai- ecco che giunse l'illuminazione, collegai il puzzle della mia vita dopo averne preso le tessere di nuovo in mano, tutto in una volta, scacco ai nemici mortali miei e della mia compagna, sposa, amica quiete.
Ophelia era pazza di me, i suoi occhi vacui e melanconici non vedevano che me. L'amore terribile che aveva nei miei confronti continuava a bruciare nei suoi occhi ancora bambini, talvolta tristi a causa della mia freddezza senza amore nè odio, e non avrebbe sicuramente retto alcun tipo di violenza da parte mia: semmai l'avrebbe accettata come una martire terrena, testimone di un diverso tipo di dolore che io non volevo comprendere e che non avrei mai compreso, oppure si sarebbe lasciata sopraffare. Ophelia, come tutte le donne, come tutte le fanciulle, come chiunque al mondo, era terribilmente debole. Era stata mia carnefice anche lei, assassina terribile della mia quiete, ma era la più debole fra tutti e avrebbe potuto esser distrutta con un soffio di vento. Le mie catene, finalmente, si sarebbero spezzate!
Decisi di ucciderla, ed ecco che questo mondo informe mi tramutò in assassino.  Non usai coltelli nè veleni, nè assodai un sicario: io avrei semplicemente contribuito alla sua distruzione, devastata com'era già da quell'amor tremendo che provava nei miei confronti.  Ecco che la mia freddezza, improvvisamente, esplose lasciando fuoriuscire un vulcano di rabbia e rancore: a stento le rivolsi il buongiorno, la lasciavo sola la notte e mancavo da casa per giorni e giorni. I suoi pianti lamentosi e lenti, da neonato in agonia, divennero più frequenti ed io mi rinchiudevo in cantina per non sentirli: ma in cuor mio sarebbe valsa la pena di quel tormento, di quella angosciosa e stupida tristezza femminea! Al pianto, si aggiunsero le crisi e la febbre: la bile che provava -ah!  Che dolciastra e angosciosa e tremenda gioia vederla penare!- si tramutò in malattia mortale, destinata a peggiorare ad ogni "Taci!","Levati di torno","Lasciami solo!". Ah, che gioia ripeterli dopo così tanto tempo! La mia anima ritrovava se stessa, la mia quiete risplendeva del mio trambusto ma pur sempre quiete era, vibrante delle apollinee frecce mortali che inviavo a lei! E Ophelia piangeva, piangeva e soffriva, dimagriva e raggiunse l'aspetto della morte. Ed ecco che io, appestato dal marciume umano ma ormai al culmine della mia gloria, le diedi il colpo di grazia. "Ti vedo pallida e smagrita. I tuoi capelli son grigiastri e spenti. Non assomigli neppur lontanamente alle altre donne, quali Louise o Sylvie. Loro sì che son da considerarsi affascinanti. Beato chi le marita": ella mi guardò, i suoi occhi giganteschi si riempirono di pianto e, singhiozzando piano, uscì dalla stanza. La febbre, quella benedizione che se la portò via, animò la sua agonia per una settimana: dopo di che, durante una mia solitaria partita a scacchi, una domestica venne ad interrompermi. Aveva il viso mesto ed io gioivo a guardarla. "Signore, vostra moglie è spirata".
Qual gioia fu quella processione! Qual gioia fu vedere le facce angosciate e meste dei parenti e dei genitori dinanzi quel pallido feretro! Qual gioia fu cercar di simulare il pianto nonostante la felicità stesse uscendo da ogni orifizio del mio corpo! Ma dopo quei mesi d'agonia, ecco che il condannato otteneva giustizia e vedeva la luce della libertà, ecco che le porte del carcere si aprivano! Che gioco di fanciulli fu quel funerale, quella sepoltura, quell'addio illacrimato ad una sconosciuta, ad una disturbatrice, alla mia carceriera! Che bellezza, che bravura ebbi, fingendo il pianto e la disperazione del vedovo, ad inventare il motivo della sua morte: povera moglie mia, povera mia compagna! La notte se l'è portata, maledetta e nera notte, brulicante delle frecce della morte! Avevan ragione i greci! Chissà quale infero Apollo se l'è portata, povera Ophelia mia! Quanto, quanto potei mai ridere in vita mia, dopo aver passato cotali sofferenze! Quanto, quanto potei ridere a veder che tutti credevano alle mie parole! Che oratore ero diventato, odiando tutti indistintamente? 
E pensai, finalmente, che la mia anima avesse raggiunto la pace. Eppure, il mondo crudele spezzò anche questa speranza mia. Io e il mondo, io e gli uomini, io e i vivi tutti giocavamo, l'uno contro gli altri, una terribile partita a scacchi il cui premio era la mia sanità, la salvezza della mia anima che pensavo d'aver ottenuto togliendo Ophelia di mezzo. Ma forse non conoscevo bene il mio disturbante quanto terribile avversario: quello che pensai rappresentato dal mondo sporco e puzzolente dei vivi, brulicante di brutte combinazioni di colori come un caleidoscopio rotto, era, a quanto pare, invece costituito dall'oscuro, invisibile, mondo dei morti. Colei che pensavo d'aver cacciato dal mondo terreno, rendendola solo un ricordo lontano nella lista dei miei disturbatori, era paradossalmente più viva che mai ed io, costantemente, la sentivo.
Io pazzo non sono, è la marmaglia umana che mi crede tale. Io sono lucido, razionale, bramo la mia sola quiete e nient'altro vedo intorno a me. Eppure, passati alcuni giorni dalla sua morte, iniziai a provare un senso di opprimente angoscia e terrore. Io, chiuso com'ero nel mio mondo perfetto e cristallizzato, delimitato dalle cupe grate dei miei capelli, non conoscevo neppure il terrore. L'unico terrore che provavo non era da definirsi tale, ma semplicemente fastidio misto ad astio. E, ora, a libertà raggiunta, provavo il terrore, paradossalmente e inaspettatamente: era denso e nero, addensato dentro il mio petto e lentamente mi consumava. Ogni ombra, ogni angolo, ogni monile in casa aumentava codesto sentimento, quasi avessi visto l'ombra di quella maledetta donna, ma in cuor mio pregavo la Quiete, mia protettrice, per raccogliermi nelle sue ali candide e cullarmi. Io pazzo non sono, non lo sono affatto, nè credo ai fantasmi: fu questo il motivo per cui uccisi quella creatura indifesa e fastidiosa. Dalla morte non si ritorna, i santi e i savi non ritornano da essa, figuriamoci gli stolti e i disturbatori. Eppure, più passava il tempo, più quell'angoscia terribile cresceva e mi divorava dentro, e mi faceva assumere le sembianze del pazzo che tali truffatori mi credono: ero animato da uno strano senso di tristezza e malinconia, quasi quell'anima scialba e grigiastra si fosse impossessata del mio povero corpo. E più vi pensavo più il torpore cresceva, e dunque cercai di non pensarci. Ma ogni ritratto, ogni luccichio di monile, ogni particolare di casa mia insomma mi ricordava lei. No, non era un ricordo! Mi pareva ogni momento di veder quegli occhi tristi e grandi e irritanti emergere dai muri e fissarmi in cerca di consenso, perdono o forse vendetta. Quegli occhi, ah! Quegli occhi neri come pozzi, tomba improvvisata per bambini distratti e animaletti del bosco! Quegli occhi mai m'abbandonavano nè nel sonno nè nella veglia, così come il sospirare lento e grave del suo petto immaturo e giallastro, giammai! Le pareti, vi giuro sulla mia stessa quiete- la mia bramata e amata quiete!- respiravano come lei: erano un soffiare sofferente e basso, come il sospiro dei malati in agonia, come il sospiro che mi rifiutai di sentire all'ora del trapasso per poi accorgermi che il trapasso non era difatti avvenuto! Persino le domestiche, persino le mendicanti alla mia porta avevano il suo volto sofferente e pietoso come un brutto ritratto di santa, di martire forse innocente .. Ah, maledetti mortali! Quasi m'avete reso colpevole! Quasi m'avete reso un assassino, quando invece fui la vittima! Ah! Quegli occhi e quel sospirare e poi quel volto mai, mai m'abbandonarono, mai una volta: nei ritratti e nelle fotografie e persino nei vasi e negli specchi vivo era quel tremendo, innocente riflesso.  Il demone che anima i mortali e la loro sorte s'era personificato nella mesta e triste e trista immagine di lei, Ophelia, che tentai di annegare in fiumi di lacrime e parole, che nonostante ciò continuava a cantare dall'oltretomba in cui l'avevo gettata, povera Euridice tradita e terribile, demoniaca Eco dietro i miei passi. Le ombre danzavano e cantavano, animate dalla sua terribile volontà, ed io le ignoravo; le pareti soffiavan come belve, le mie orecchie si riempivano dei loro sussurri demoniaci ed io cercavo di ignorarli. E più li ignoravo più tutto soffiava e brulicava e cantava e danzava sotto le infere note della sua voce lamentosa, dei suoi pianti diurni e notturni, unica musica che ormai sentivo.  Tutto mi consumava, tutto mi consumava dentro e fuori: deliravo e non dormivo, tenuto sveglio da quel soffiare e lamentare, smagrivo e non mangiavo consumato da quell'angoscia .. Persino il masticare sentivo! Le mie orecchie, povere orecchie mie, s'erano riempite anche di questo!
Il mondo dei vivi e dei morti, brulicante dei loro sospiri, muoveva la Regina. La sua Regina era pallida e sofferente, coi lunghi capelli dinanzi al volto bianco e funereo, ma vittoriosa e tremenda. Sospirava e soffiava come una belva su me, povero Fante, e mi schiacciava mangiandomi.
Era notte quando persi la partita, una notte illuminata da una luna biancastra e malata, simile tanto al suo volto.
Un fascio di luce lunare oltrepassò la finestra aperta e illuminò lo specchio, falciando prima il mio volto in dormiveglia.
Fu  in quel momento che mi svegliai, stordito da quella lama fantasmagorica.
Fu in quel momento che mi alzai, spinto dagli stessi sospiri e dallo stesso tremendo soffiare.
Fu in quel momento che mi avvicinai allo specchio e tesi una mano verso la sua fredda superficie.
E lì, ritta dinanzi a me, dentro lo specchio, la vidi. Era più tremenda che mai, lei, immagine della mia morte e sorridente del mio fallimento e della mia rovina. Ah, lurida donnaccia, rideva vincitrice brandendo in mano la spada con cui avrebbe falciato me e la mia quiete, la mia unica sposa. Nemmeno lei avrebbe usato armi, nè veleni, nè sicari: lei m'aveva distrutto come io avevo distrutto lei, ed in maniera addirittura peggiore.
Il viso fantasmagorico e pallido di lei, quei capelli dinanzi al volto come drappi mortali, erano il mio viso, erano i miei capelli. Ophelia, dannata, dannatissima fra tutti, aveva i miei tratti. Io ero diventato Ophelia, immagine stessa della morte, dopo aver causato la sua. Fu lì che urlai squarciando quel buio già ferito, mentre la mia pedina nerastra veniva buttata fuori dalla scacchiera.
   
 
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