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Autore: dannyrose    08/12/2014    0 recensioni
In un susseguirsi di sensazioni turbolente e asfissianti, giunsi all'epilogo del cuore e dell'amore. Finalmente libera, mi aveva abbandonato all'inesorabile gioco della vita.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una parte di me era assente. No, non assente, bensì svanita, morta. Il mio cuore era pensante tanto da non permettermi quasi di respirare. Tutt'intorno solo un vuoto immobile. Non vi era più nemmeno la speranza del semplice presentimento, dell'errore, eppure non volevo rassegnarmi. Accettare quell'agonia era impossibile, inconcepibile. Scendendo dall'auto m'immersi nella nebbia. In quell'istante, perso nel grigio del nulla, compresi la sua aspirazione d'incorporeitá. Una tentazione da scavalcare, ripudiare. Abbandonai quel desiderio di sparizione e mi avviai. Aprii il vecchio portone malconcio e venni come assorbito in un universo statico e atemporale. L'oscurità era padrona di quelle stanze da molto tempo, confinata da pareti anonime. Il suo influsso ed il suo peso non si limitavano però alla mera occupazione di quell'ambiente, ma risiedevano in lei, specchiandosi nella sua anima e nella sua psiche infranta. Nella sua languida e marginale presenza nessuno era stato in grado di avvertirne il nefasto epilogo, così incombente, opprimente e soffocante ma al contempo liberatorio e purificatore. Neanche io, accecato, nonostante il tormento del sospetto. Feci un passo, immergendomi in quella realtà spezzata. Lo stesso odore di chiuso e polvere pareva essere un presagio. La sua sfuggente figura già si scomponeva nella mia mente, spazzata via da un dolce e caldo vento. Riuscivo a percepirne la mancanza fisica, del corpo e del delicato respiro. Avanzai con cautela, in un logorante silenzio, guidato da un magnetismo asensoriale. Superato il salotto, vuoto e scomposto, mi avviai verso il corridoio. Claustrofobia era ciò che quelle pareti esprimevano con violenza. Pareva essere un vorticoso percorso verso il nulla, privo di vie alternative. La mia mente era ormai orfana di ogni razionalità. Il suono delicato quanto sconvolgente di una goccia d'acqua attirò la mia allarmata attenzione verso la bianca porta del bagno. Mi avvicinai, in quella che sembrò un'eternità ripetitiva e rallentata, a quell'invalicabile superficie di legno che pareva voler dire "Lasciate ogni speranza, voi che entrate". Un'attesa paralizzante mi portò a trattenere il respiro fino alla caduta di una seconda goccia. Fui attraversato dal suo chiaro e profetico riverbero. La mia ragione era già fuggita da quel luogo urlando, disperandosi. Avrei voluto seguirla, ma ormai era irraggiungibile. Attesi anziosamente la caduta di una terza goccia, cercando questa volta di dominare il mio respiro, così assordante e turbolento da distruggere la falsa quiete di quell'appartamento. Avvicinai la mia mano, pallida e tremante, alla maniglia della porta. Ogni forza era evasa dal mio corpo teso, controllato dall'inerzia. Per quanto bramassi avere il suo nome sulle mie labbra, non un solo suono sarebbe potuto fuoriuscire dalla mia gola arida in quell'istante. L'eco del suo nome si susseguiva solamente nella mia mente vuota e incupita. Le mie dita si scontrarono con la freddezza del pomello dorato e consunto, avvolgendolo. Potevo già sentire le grida e gli avvertimenti del mio cuore (avevo ancora un cuore?), il suo pianto inconsolabile. Ma non esisteva altro modo, il mio destino era lì dietro, che mi attendeva per deridermi e sconfiggermi. Lo scatto della porta mi fece assaggiare un intenso odore di vaniglia intriso di un forte sapore rugginoso. Lo scenario aveva già preso forma nella mia immaginativa. Con un gesto deciso, spalancai la porta, portandomi agli occhi la luttuosa immagine. Mi ritrovai al di sopra della vasca, disperato. La sua regolare superficie era attraversata da sottili e vividi ruscelli di sangue. Il rosso era ancora così brillante che pareva accusarmi dell'imperdonabile e cieco ritardo. Avventava le sue imputazioni contro di me. "Per tua colpa". M'inginocchiai, sfinito, come un fedele s'inginocchia dinnanzi all'altare per illudersi della salvezza eterna. Ma eterna è solo la sofferenza. Mi reggevo ai bordi della vasca, colto da turbini e nausea. Sentivo avvicinarsi il momento della dolorosa accettazione. L'arrivo della mancata salvazione. Contemplai quell'immagine per renderla indelebile. Volsi il mio sguardo sullo splendido volto di quella che un tempo era stata una ragazza serena e spensierata. Un tempo così remoto che era quasi impossibile da rievocare, ma estremamente prezioso. In una silenziosa parte di me quella ragazzina non era mai stata sovrastata da solitudini, dolori, malesseri e dipendenze. I miei occhi spenti scrutarono ogni millimetro ed ogni cellula di quel volto, bianco come una colomba. Una colomba colpita mortalmente dalle asprezze della vita. Dei suoi occhi verdi, amalgamabili con l'oceano, non restava che il vuoto. Inermi, non si posavano più sulla realtà materiale di questo misero pianeta. Nessuno avrebbe più avuto grazia da essi. Le sue sottili labbra spigolose, rimaste da tempo indifferenti e silenziose alle dinamiche della vita, esprimevano una forzata, estrema ed imperturbabile rilassatezza. Un'immobilità che aveva contagiato anche il suo corpo, senza possibilità di guarigione. Ed i suoi esili polsi, percorsi da profonde cicatrici e dalle lacerazioni con le quali aveva deciso di cessare. Il gesto estremo in un momento di tremenda consapevolezza e di coraggio. Si era tolta ai mali del mondo. Si era privata all'empietá delle persone. Il suo animo afflitto, che mi ero illuso di poter lenire, finalmente libero da quella prigione di tessuti fragili e decomponibili. L'antidoto non era stato il mio amore, era stata lei stessa. Il suo corpo immerso nell'acqua, ancora tiepida, e nel suo stesso sangue, non era altro che un involucro vuoto. Un raro baule, razziato di sogni e speranze, rivendicato da nessuno. Raccoglierla e piangerla sarebbe stato il mio compito. Ero l'unico pretendente. Non solo di quel fisico, lo ero stato stato anche per il suo spirito e il suo sfinito cuore. Avevo fallito il mio compito di custode e di amante. Rifiutato. Lei aveva deciso di rifiutare il mio sostegno e la mia passione esattamente come aveva rigettato il dono della vita. Aveva stravolto le regole della partita, rifiutando la sua partecipazione passiva. E con lei aveva ucciso anche il nostro futuro. «Quale dono...» la sentivo ancora dire. «La vita è semplicemente un gioco che siamo destinati a perdere».
   
 
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