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Autore: B___OOK    10/12/2014    0 recensioni
L'umano è una creatura strana.
Cerca sempre di sopprimere il caos dentro di sé per apparire sereno agli occhi degli altri.
Ma a volte, si sa, la follia prende il sopravvento.
Genere: Azione, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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I.





"E' quell'irrequietezza di fondo
che mi terrorizza."
-cit.













Click.
Le manette si serrano attorno ai miei polsi rendendomi impossibili i movimenti. Riesco a percepire il metallo sfregare contro la mia pelle causandomi un bruciore leggero ma fastidioso. Muovo di scatto la testa per scansare una ciocca di capelli che mi è finita accidentalmente davanti agli occhi e prendo un grande sospiro.
“Vieni, muoviti.” mi incita un poliziotto di fianco a me strattonandomi il braccio nella sua direzione. Io aggrotto le sopracciglia scansandomelo di dosso per poi fissarlo con aria truce.
“Non mi toccare.” sputo non lasciando trasparire alcuna emozione, se non una punta di ira percettibile. Il poliziotto serra la mascella non spostando il suo sguardo dal mio.
“Stai zitta ragazzina.” e mentre lo dice mi afferra nuovamente il braccio accompagnandomi rudemente verso l’uscita del tribunale. Cammino a passo lento inciampando senza volere nei lacci slacciati delle mie scarpe da ginnastica, nonostante tutto tengo la testa alta e la schiena dritta. Non sento vergogna, né senso di colpa per quello che ho fatto, seppur io sappia che non avrei dovuto essere così impulsiva e violenta. Tutte le mie azioni, tutto ciò che ho fatto, hanno una spiegazione logica. Non razionale, non intelligente, se vogliamo, ma logica sì. C’è un motivo se ho fatto quello che ho fatto e, anche se verrò messa in carcere per questo, continuo a sostenere sia un motivo sufficientemente valido. Il fine giustifica il mezzo, come diceva qualcuno. Be, quel qualcuno ha fatto centro. Mentre cammino sento gli occhi di tutti puntati su di me, occhi pieni di compassione e rabbia, combattuti tra l’idea di lasciarmi andare o di farmi marcire i miei ultimi buoni anni in prigione. “Deve pagarla.” dicono alcuni, “Ma è solo una ragazzina!” dicono altri. Be, che si fottano, tutti. Dal primo all’ultimo. Di ciò che ho fatto non devo rendere conto a nessuno, soprattutto a qualcuno messo lì a giudicare chi nemmeno conosce. Mi avvicino sempre di più alle porte del tribunale, mentre due poliziotti, uno a destra ed uno a sinistra, mi tengono ferme le braccia accompagnandomi nella mia uscita ad effetto. È per questo che mi reggono no? Per farmi sembrare più pericolosa di quanto in realtà sia. Tutta scena.
“Ana, no!” urla disperatamente una voce a me familiare. Giro la testa lentamente in tempo per vedere Letisha, mia sorella, scavalcare un paio di seggiole nella mia direzione, prima di essere afferrata dall’avvocato d’ufficio che ci era stato assegnato per l’udienza. I poliziotti che mi tengono ferme le braccia si fermano permettendomi di osservare la scena che mi si presenta di fronte: la faccia di Tisha è rossa e gonfia, rigata da litri e litri di lacrime che scendono fino a bagnarle la giacca nera che ha affittato per l’occasione. La sua mano è tesa nella mia direzione quasi a pregarmi di afferrarla e gli occhi sono spalancati e lucidi, che mi osservano tragicamente. In fondo non capisco perché si agiti tanto, non mi ha mai dedicato particolari attenzioni. Preferirei di gran lunga vedere Jeremiah, mio fratello, pochi minuti prima di spezzare contatti col mondo che mi circonda, invece che Tisha. Ma si sa, ciò che vogliamo difficilmente accade nel momento in cui lo desideriamo maggiormente. Sto alcuni secondi, minuti a fissare Tisha, mentre lei borbotta cose incomprensibili a causa del pianto che la sta coinvolgendo. Il verde spento dei miei occhi sembra calmarla leggermente, seppur le lacrime continuino a solcare le sue pallide guance. Tenendo gli occhi fissi nei miei infila una mano nella tasca dei jeans estraendo una catenina con un pendente a forma di una piccola pera. Abbasso lo sguardo e mi capacito di ciò che sta tenendo tra le mani. Dentro di me mi scappa una leggera risata e un velo di tristezza mi attraversa. Tisha si porta la catenina al cuore battendola leggermente e lentamente un paio di volte. Riposo il mio sguardo nel suo notando che il mento ha preso a tremarle facendo scendere a scatti centinaia di gocciole salate. Prima che possa dire o fare niente sento la mano paffuta del poliziotto che mi strattona facendomi riprendere a camminare.
“Ana, ANA!” sento che urla Tisha prima che le enormi porte del tribunale si chiudano attendendo la prossima sentenza. Serro la mascella infastidita dal comportamento del poliziotto fissandolo con la coda dell’occhio mentre questo mi accompagna fuori dall’edificio. Appena siamo fuori vedo davanti ai miei occhi una folla di persone, tra cui molti con telecamere e microfoni inviati da chissà quale canale. A primo impatto mi sembrava che tutti si occupassero dei loro affari, ma appena entriamo nel loro campo visivo, ci si buttano addosso rendendomi difficile anche respirare. I poliziotti che mi accompagnano mi si parano davanti facendomi da scudo. Almeno a qualcosa servono, seppur non stiano facendo un lavoro impeccabile dato che davanti ai miei occhi l’unica cosa che vedo è un’infinità di microfoni.
“Signorina Blackwood, ci dica, com’è andata in tribunale?”
“Cosa ne pensano i suoi familiari di tutto questo?”
“Era intenzionata a fare quello che ha effettivamente fatto?”
Milioni di frasi seguite da punti interrogativi e facce curiose mi trotterellano in testa, sono fastidiose. I poliziotti non dicono niente, semplicemente mi trascinano sempre più vicina alla macchina. Nemmeno a questo servono, comincio a credere siano messi lì solo per bellezza e per far sembrare tutto all’apparenza molto più equilibrato di come è realmente. Mentre le parole dei giornalisti mi appannano la mente posso notare dei cartelloni in lontananza, di varie misure e colori che recitano tutti la stessa frase: “Guarisci presto Cameron.”. Che figli di puttana. Prima che possa anche solo contrarre la mascella, uno dei poliziotti mi getta con poco garbo sui sedili posteriori della vettura della polizia chiudendo poi la portiera. Entrambi poi salgono in macchina, si allacciano la cintura e mettono in moto l’auto. Facendo attenzione a non investire o ferire nessuno, escono da quella folla di matti. Mentre la mia mente cerca di svuotarsi da tutti i pensieri inutili e fastidiosi, la macchina traccia il percorso di quella che sarà la mia nuova casa. Non sono agitata o eccitata all’idea di andare in carcere, forse solo un po’ curiosa di sapere cosa succede lì dentro. Con le mani ancora unite dalle manette, piego entrambe le braccia provando a grattarmi un orecchio. Dopo circa una mezzoretta di viaggio finalmente il motore della macchina smette di vibrare e fare casino, permettendo ai due uomini di scendere dalla vettura. Uno di loro mi apre la portiera strattonandomi fuori dall’auto. Ho l’impressione che, qualsiasi cosa succeda lì dentro, violenza e cattiveria non mancano di certo, ma meglio così: sono abituata alla cattiveria degli esseri umani. Appena alzo lo sguardo mi trovo davanti ad un edificio possente sebbene molto piccolo, rispetto a quello che mi immaginavo. È sulle tonalità del grigio scuro e dell’azzurrino, contornato interamente da kilometri di filo spinato. Lo osservo con espressione atona alzando di poco un sopracciglio.
“Casa dolce casa.” dico sarcasticamente, seppur il tono della mia voce rimanga piatto e inespressivo. Uno dei due poliziotti si gira verso di me sospirando.
“Ragazzina tu non starai qua.” e così dicendo prende a camminare. Io sbuffo roteando gli occhi al cielo. L’ultima cosa che voglio è che mi sballottolino di qua e di la a loro piacimento, che mi portino in carcere e basta.
“E allora perché sono qui?” l’uomo ridacchia leggermente, seppur non ci sia assolutamente niente di divertente.
“Non mi sembra tu sia nella posizione di fare domande.”
“Giusto. Stai buona e fai ciò che ti diciamo.” irrompe l’altro. Sento una sorta di rabbia, ira crescermi dentro. Non è accettabile che qualcuno mi manchi di rispetto in questo modo. Risentita, mi blocco sul posto scansando le loro mani dalle mie braccia. Si girano entrambi verso di me con un’espressione esausta sul volto.
“Ascolta principessa qua nessuno usa le buone maniere okay? Nessuno ti chiede “Per favore” e nessuno ti dice “Grazie” dopo che hai fatto qualcosa per lui. Se non ti andava bene potevi pensarci…” ma si blocca a causa del calcio nelle palle che gli ho gentilmente tirato. Si piega a terra dolorante mentre con le mani si regge i gioielli di famiglia. Prima che possa tirargliene un altro, l’altro poliziotto mi afferra dalla vita facendomi accasciare a peso morto sulla sua spalla.
“Mollami stronzo!” le mani ammanettate sono schiacciate tra la mia pancia e la sua spalla sinistra, di conseguenza sono come immobilizzata.
“Hai esagerato, principessa.” e così dicendo inizia a camminare verso l’entrata dell’edificio, mentre l’altro poliziotto, ancora in stato di shock, cerca invano di mettersi in piedi.
 


Sento la testa che mi pesa su una spalla mentre apro lentamente gli occhi, posso percepire il mio sedere posato su qualcosa di duro e freddo. Spalanco le mie iridi verdi del tutto, facilmente, considerando che il posto in cui mi trovo è quasi del tutto buio se non per la luce che entra da una finestrella molto piccola. Sento ancora il metallo che mi irrita fastidiosamente i polsi, causandomi sicuramente tagli e segni rossi, a giudicare dal bruciore che sento. Cerco di concepire dove sono e che sta succedendo ma una voce mi scuote.
“Ben svegliata, dolcezza.” dice con voce roca un ragazzo seduto davanti a me. Mi giro verso di lui distinguendo la sua figura nel buio della stanza. Riesco a delineare il contorno del suo viso e a percepire un luccichio proveniente dalla sua bocca. Sta sorridendo. Poco dopo mi rendo anche conto che la stanza in cui siamo si sta muovendo: siamo su un camion.
“Dove mi stanno portando?” chiedo al ragazzo davanti a me, continuando a vedere quel luccichio persistente. Ma prima che possa rispondere fa capolino una seconda voce.
“Semmai dove CI stanno portando. Ti faccio presente che siamo in sei qua dentro.” stavolta è una ragazza a parlare, e la sua voce sembra molto più scocciata di quella del ragazzo. Mi do un’occhiata attorno per vedere che, effettivamente, siamo in sei. Io sono seduta in mezzo a due persone e il ragazzo davanti a me pure. Non avrei mai detto che fossimo così tanti, dato che ognuno si tiene a debita distanza da qualsiasi altro individuo. Ignoro beatamente l’intervento della ragazza di prima rivolgendomi al ragazzo.
“Dove mi stanno portando?” il ragazzo accenna una risata.
“Dì, non lo sai?” chiede lui che, ora posso dirlo con certezza, ha i capelli chiari. C’è una nota di ironia nella sua voce e questa mi irrita abbastanza, ma lascio passare.
“Poverina, non capisce. Massimo avrà rubato una caramellina al supermercato per finire in gattabuia.” afferma spavalda un’altra voce femminile. Queste due mi stanno davvero facendo incazzare.
“Chiudi quella cazzo di bocca, stronza.” le dico lentamente scatenando le risate del ragazzo davanti a me.
“Come mi hai chiamata puttanella?” domanda lei, ma un’altra voce la blocca prima che possa alzarsi e venire verso di me, stavolta la voce è maschile.
“Già ci stiamo andando, in carcere, Giuditte, vuoi anche giocarti la condizionale?” quindi la seconda ragazza si chiama Giuditte, buono a sapersi. La sento sbuffare e strusciare il sedere e la schiena scivolando in avanti. Poco dopo capisco che si è addormentata.
“Lasciala stare, ha perennemente il ciclo.” scherza il ragazzo che poco fa mi ha difesa. Io non dico nulla trovando però la battuta abbastanza divertente, così involontariamente alzo di poco un angolo della bocca.
“In ogni caso, ci stanno portando al riformatorio di Tannerhill, se te lo stessi ancora chiedendo.” mi informa, e, mentalmente, lo ringrazio. Non avrei mai il coraggio di dirglielo a parole, così semplicemente me lo tengo per me. Mi prendo un attimo per riflette su come sono arrivata lì, dato che mi sono svegliata in un posto in cui non ricordavo di essere stata prima. Devono avermi addormentata per farmi stare tranquilla. Quei pezzi di merda, sembra si divertano a ostacolarmi in qualsiasi cosa io faccia. Prima che possa imbattermi in qualsiasi altro pensiero, il ragazzo davanti a me mi si avvicina.
“Comunque, io mi chiamo Liam dolcezza, e tu sei?” si presenta, e forse mi tende anche la mano ma non posso vederla a causa della poca luce. Fisso lo sguardo dove dovrebbero essere i suoi occhi.
“Infastidita.” sussurro in modo che lui mi possa sentire. Il ragazzo fa un verso strano con la bocca, come se si fosse bruciato con qualcosa.
“Che c’è?”
“Oh niente, è che sei così talmente fredda che solo sfiorandoti mi sono ustionato.” scherza, ma non fa ridere.
“Ci si ustiona col fuoco, non col ghiaccio.”
“Au contraire, dolcezza, anche col ghiaccio ci si può ustionare se, come te, questo è freddissimo.” posso distinguere un sorriso sul suo viso. Scappa anche a me un sorriso, sapendo che è lui ad avere ragione in questo caso, ma ovviamente non glielo faccio presente. Prendo un respiro profondo cercando di distogliere i miei pensieri da quello che mi sta succedendo in questo preciso momento, ma non ci riesco. Mi accovaccio sulla fredda panchinetta dove sono seduta piegando le ginocchia al petto e facendole passare tra le braccia unite nella morsa delle manette, le quali tirano di più nel momento in cui le ginocchia mi arrivano sotto al mento. Rimango in quella posizione seppur non sia la più comoda, cercando di prendere sonno, invano. Ormai i miei polsi stanno chiedendo pietà, spero me le tolgano il prima possibile perché inizio a sentire veramente male. Mi porto entrambe le mani alla bocca e tasto con le labbra i polsi per provare ad auto convincermi di lenire un po’ il dolore, ma sento un liquido caldo gocciolare dalle manette e mi ritiro di scatto. Sto sanguinando. Non credevo che un paio di manette potessero provocare tutto quel danno, considerando anche che ho i polsi decisamente piccoli mentre quegli aggeggi sono piuttosto larghi. Cerco di non pensare al dolore piegando la testa da un lato e respirando profondamente. Quando sento che il sonno mi sta finalmente per abbracciare, una voce maschile mi disturba.
“Hei, dolcezza, ancora sveglia?” non rispondo, sperando che creda che io dorma e mi lasci stare una buona volta. Sento dei movimenti da dove proviene lui, fruscii farsi sempre più vicini finché non percepisco qualcosa sfiorarmi la caviglia. Sobbalzo, ritiro i piedi velocemente e lo becco a sorridere mentre si rimette seduto al proprio posto, davanti a me.
“Lasciami stare.” dico piano stringendo ancora di più le ginocchia al petto, come a implorare di addormentarmi. Ride leggermente.
“Andiamo, tutti dormono ma non mi viene sonno, voglio qualcuno con cui parlare.” dice sottovoce, per non svegliare gli altri. In quel momento alzo la testa e mi accorgo che, effettivamente, tutti stanno dormendo tranne noi due. Ero troppo impegnata a placare il caos nella mia testa per badare a ciò che facevano gli altri. Non sono girata verso Liam ma posso scommettere che mi sta fissando, posso sentire il suo sguardo bruciare su di me come una calda giornata di estate. Non mi piace essere fissata, proprio per niente, e quando controllo con la coda dell’occhio se lui lo stia veramente facendo, capisco che avevo ragione.
“Smettila di fissarmi.” sputo in modo acido. Non posso vederlo ma so per certo che sta sorridendo, e la cosa oltre a darmi fastidio mi inquieta un po’. Dev’essere difficile sorridere sempre, ma lui ci è riuscito per tutta la durata del viaggio e, ad occhio e croce, staremo viaggiando da circa tre orette se non di più.
“Dovresti essere contenta, di solito si fissano le cose belle.” dice, ma lo ignoro completamente. Sono tornata con la mente ad oggi pomeriggio, quando i due poliziotti mi hanno portato in auto fino a quell’edificio. Perché non portarmi direttamente in riformatorio? Che poi quello dove eravamo che cos’era? Aveva tutta l’aria di essere un carcere a sua volta, perché non mi hanno lasciata lì? Penso che Liam abbia tutte le risposte alle mie domande e, al momento, il sonno è corso via da me, quindi alzo lo sguardo su di lui e gli chiedo:
“Perché ci stanno portando da un riformatorio ad un altro?” lui mi fissa, sempre sorridente, e scrolla le spalle.
“Se sei su uno di questi camion, significa che hai fatto qualcosa di tanto grave da meritarti di stare in un riformatorio più rigido e sicuro. In pratica ci ritengono più pericolosi di chi comunemente viene rinchiuso in un riformatorio. Tipo… fai conto che noi siamo i Charles Manson della situazione.” scherza facendomi ridere appena. Effettivamente non c’è niente da ridere, ma il paragone è simpatico dato che, per quanto violenta possa essere stata, non sarò mai ai livelli di Manson.
“Suppongo di sì.” scherzo a mia volta. Lui annuisce facendo nuovamente spallucce.
“Ma non mi lamento: è già la seconda volta che mi incastrano e mi mandano allo stesso riformatorio. Almeno ho già la mia crew. E poi conosco bene il posto, così mi so’ orientare.” afferma con un filo di soddisfazione nel tono della voce. Penso a quello che mi ha detto, e in effetti non fa una piega: di solito dei normali sedicenni non fanno quello che ho fatto io, ma, come ho già detto, sono fiera di ciò che ho fatto, e lo rifarei se ne avessi la possibilità.
“E quindi tu sei una pericolosa? Non l’avrei mai detto, ti facevo di più il tipo che diventa capo delle cheerleaders.” il suo commento mi sorprende: non ho né la classica faccia né il classico fisico di una cheerleader, ma lo prendo come un complimento, seppur non mi interessi esserlo.
“Non sono pericolosa, sono solo… impulsiva.”
“E pericolosa, se sei qua.” afferma spavaldo. Stava iniziando ad essermi simpatico ma ora sta tirando un po’ troppo la corda. Per fortuna sono stanca, e non mi va di ribattere, quindi mi limito a scuotere la testa fissando un punto indefinito sulla parete del furgone. I polsi mi fanno ancora un male cane, ma lo sento meno mentre chiacchiero con qualcuno, quindi tutto sommato non mi dispiace così tanto scambiarmi qualche parola con Liam.
“Come mai sei qua?”
“Come scusa?” chiedo scettica fissandolo e lasciando trasparire la mia irritazione. Lui sogghigna.
“Non me lo vuoi dire? Però, oltre ad essere fredda sei anche chiusa, beati quelli che ti conosceranno allora.” dice alzando le mani teatralmente. Io serro la mascella.
“Non sono cazzi tuoi.” sputo prima di girarmi nuovamente da un’altra parte. Liam alza le mani facendo scontrare la sua schiena contro la parete dietro di lui.
“Come vuoi dolcezza, ma almeno il tuo nome me lo dici?” chiede, stavolta senza sorridere. Io rimango immobile, senza rispondere o accennare a muovermi di un millimetro e sento lui sbuffare sonoramente. Non capisco perché gente come Liam non si faccia gli affari propri, come invece faccio io. Tuttavia non credo sia così grave dirgli come mi chiamo, d’altro canto lo vedrò ancora parecchie volte in riformatorio, e conoscere qualcuno che sa bene come muoversi nel posto fa sempre comodo.
“Ana.”
“Che?”
“Il mio nome, mi chiamo Ana.”









 
  
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