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Autore: Hermione Weasley    12/12/2014    2 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
-
“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 16 -

 

 

 

Il refettorio aveva più che altro l'aria di un centro per rifugiati dopo una qualche catastrofe naturale: un enorme stanzone nel quale erano stati disposti tavoli di diverse forme e fatture. Gli odori di cibi diversi fuoriuscivano da una saletta adiacente dove doveva essere situata la cucina, mescolandosi nell'aria, già di per sé soffocante, che permeava l'intero quartier generale. Le fu piuttosto chiaro come il grosso del denaro che l'ex SHIELD aveva a disposizione fosse destinato al settore operativo più che a quello più prettamente umano: una semplice questione di priorità.

Si accodò alla fila di agenti ordinatamente incolonnata davanti al banco della distribuzione, imitando le mosse di chi le stava di fronte, simulando una familiarità che non le apparteneva minimamente. Più o meno tutti vestivano di nero, forse per suggerire l'idea di una divisa che li accomunasse tutti quanti, ma era proprio su dettagli di quel genere che il soggiorno nelle cantine della centrale di Stark doveva aver avuto i suoi maggiori e più duraturi effetti.

Non era sicura che quel posto le piacesse; anzi... prima di tutto detestava l'idea di trovarsi nelle viscere del sottosuolo, sotto strati e strati di cemento e terra: se si soffermava troppo su quella considerazione, aveva come l'impressione che le mancasse il respiro. Sapeva che la reazione aveva

a che fare col terrore sopito che ancora la tormentava, più che con la configurazione di quell'enorme bunker che l'ex SHIELD aveva assunto come base per le proprie operazioni. L'immagine della fotografia che Maria Hill le aveva consegnato continuava a palesarsi davanti ai suoi occhi nei momenti meno opportuni. Alle volte era talmente assorta in quello sfaldato ricordo da riconoscere il volto ringiovanito di Ivan in chi le stava attorno: trasaliva bruscamente, trascinandosi a forza nella realtà del presente, ripetendosi più e più volte che suo padre se n'era andato, che era morto, che il passato si era concluso e che – a dispetto di tutto l'orrore che poteva nascondere dentro di sé – non poteva toccarla. Non più.

“Il prossimo!”

La voce sgraziata della signora oltre il bancone le fece realizzare di essere ormai arrivata alla fine della fila e di essere già stata servita; la donna – grassoccia, i capelli castani e crespi che fuoriuscivano dalla cuffietta che indossava – le indicò il vassoio riempito di una purea giallastra e di un paio di polpette inzuppate in un qualche sugo non meglio identificabile.

“Grazie,” si affrettò a dire, afferrando le posate che la donna le stava ancora, impazientemente, offrendo, prima di avventurarsi al centro della sala alla ricerca di un posto libero. Tra le occhiate sospette che le arrivavano da più direzioni, riconobbe lo sguardo intento e contrito di Steve, il quale stava attualmente occupando l'angolo più vicino all'ingresso del tavolo di sinistra. Natasha si avviò in quella direzione, prendendo il posto che fronteggiava quello del capitano, con la consapevolezza di non aver poi così tanta fame a farla interrogare sull'utilità di tutto quel ridicolo, sfiancante teatrino.

“Dove sono gli altri?” Gli chiese, infilzando una polpetta giusto per tenere le mani occupate.

L'uomo, che la stava ancora scrutando attentamente, si limitò a scrollare le spalle e a far sparire l'ultimo boccone di carne e purè.

“Barton sta ancora completando gli esami,” le disse infine, come dando per scontato che fosse quello il dettaglio che le interessava. “Banner e Stark hanno finito di mangiare e sono scappati a rintanarsi in laboratorio... di nuovo. Odinson, non l'ho visto.”

Alla conclusione della nevrotica riunione a cui il colonnello Fury li aveva obbligati a partecipare, dopo aver dato risposte più o meno esaurienti ad ognuno dei loro interrogativi, il trio di ex agenti li aveva invitati a sottoporsi a dei sommari test clinici: vivendo sotto terra, era necessaria un'ossessiva cautela nei confronti di chi e cosa veniva introdotto all'interno della base. In più, Natasha sospettava, doveva essere un modo per confermare il loro stato di salute, la loro prestanza fisica e abilità. Le ci era voluto un lungo minuto per convincersi di avere sotto controllo il terrore che la vista dell'ago del prelievo le aveva procurato; l'infermiera che si era occupata di lei – una signora di mezz'età coi capelli già ingrigiti – era stata abbastanza gentile da far finta di niente, distraendola con vacue chiacchiere riguardo cosa le mancasse della vita in superficie. L'avevano pesata, fatta correre su un tapis roulant con degli elettrodi sistemati sul petto, e infine misurata... non era sicura di aver colto l'utilità di quell'ultimo rilevamento.

“Ascolta,” Steve aveva ripreso a parlare, “mi dispiace per non avervi detto quello che sapevo.”

Natasha sollevò lo sguardo dal suo piatto, scoccandogli un'occhiata confusa: si stava seriamente scusando con lei?

“Sapevo soltanto che ci avrebbero riprovato... a reclutarmi, intendo,” si spiegò meglio il capitano, “mi avevano contattato, ma conoscevo la storia dello SHIELD.” Sbuffò, fece una breve pausa, come per raccogliere le idee e poi proseguì: “O almeno credevo di saperla. Il colonnello mi aveva avvisato che mi avrebbero fatto cambiare idea. Quando quel pacco è arrivato non ci ho messo molto a capire di che si trattasse.” La osservò per qualche istante, forse in attesa che fosse lei a dire qualcosa. “Sono davvero un bugiardo tanto pessimo?”

“Fai schifo,” confermò impietosamente lei. “Un brillante, giovane capitano della polizia dell'Alabama che accetta di correre dietro le sottane di un gruppo di delinquenti dopo neanche tre minuti di interrogatorio?”

“Lo fai suonare dannatamente stupido,” mormorò l'altro, forse l'ombra di un sorriso sulle labbra.

“Perché lo è.” Prese tempo, spilluzzicando dal piatto con aria poco convinta. “Cos'è che ti ha fatto cambiare idea?”

“Ho avuto un sacco di tempo per riflettere su quello che Fury mi aveva detto,” Steve si strinse nelle spalle, “a lungo andare, ogni cosa mi è sembrata... credibile.”

“A cose fatte resterai con loro...,” le era uscita più come una constatazione che una domanda. In realtà non nutriva proprio alcun dubbio su quella che sarebbe stata la decisione di Rogers.

“Non posso tornare indietro,” non dopo aver aiutato dei sospettati ad evadere, comunque, “e qui potrei essere utile.”

“Perché t'importa così tanto?” Si ritrovò a chiedergli, stavolta sinceramente interessata: non era sicura di riuscire a comprendere cosa lo spingesse ad aiutare il prossimo con tutta quella... altruistica costanza.

“E' quello che ho sempre fatto.” Steve sembrava essersi fatto improvvisamente più serio. “Ci sono così tante persone che non possono permettersi il lusso di difendersi,” un sorriso gli piegò inaspettatamente le labbra, “e poi detesto i bulli.”

Natasha gli rivolse una lunga, occhiata valutativa: preoccuparsi per gli altri continuava a sembrarle del tutto inutile. Quanti avrebbero fatto lo stesso per lui? Quanti non gli si sarebbero rivoltati contro se avessero potuto trarne un qualche vantaggio? Quanti altri avrebbero finito per soccombere alla paura, all'istinto che li spingeva all'autoconservazione, ad abbandonarlo a se stesso anche nel momento del bisogno?

Avrebbe voluto ribattere con una qualsiasi di quelle obiezioni, ma c'era qualcosa nello sguardo di Steve che la fece desistere: l'illusione era la sua, ed era quella che lo animava, che faceva sì che riuscisse ad addormentarsi tutte le notti. Chi era lei per smentirlo? Non sarebbe comunque riuscita a fargli cambiare idea.

“Credo che andrò a riposare,” il capitano si era frettolosamente rimesso in piedi. Seguendo la direzione del suo sguardo, Natasha si accorse che doveva aver individuato Clint in fila con gli altri agenti che ancora dovevano cenare. L'apparizione dell'arciere doveva averlo convinto a battere in ritirata. “Ci vediamo domani mattina.”

“A domani,” gli fece eco, guardandolo con aria vagamente divertita mentre recuperava il suo vassoio e quelli lasciati sul tavolo da altri commensali disattenti per riportarli al bancone, ricevendo in cambio un ampio sorriso dentato da parte della signora della distribuzione.

Tornò alle sue polpette, aspettando – più o meno pazientemente – che Clint la raggiungesse. Sembrava che nessuno di loro avesse ancora rivelato ad un altro membro del gruppo il contenuto del proprio fascicolo: non era neppure tanto certa di volerne discutere con qualcuno, ma la presenza dell'arciere – per assurdo che fosse – aveva su di lei un effetto calmante. Tutte le volte che le era vicino, e nonostante quello che era il suo atteggiamento più frequente, Clint non smetteva di darle l'idea di uno che sa il fatto suo, che non si lascia prendere dal panico neppure nelle situazioni più drammatiche. Le era ormai capitato più di una volta di ritrovarsi a confidargli cose che non avrebbe mai voluto dire a nessuno, neanche sotto tortura.

Trascorsero pochi minuti dopo i quali non le fu più possibile distinguerlo nella fila ormai assottigliatasi, che si snodava per quasi metà della lunghezza della refettorio. Non le ci volle molto, però, per riconoscerlo seduto in disparte due tavoli più avanti al suo. Il primo istinto fu quello di alzarsi e palesare la propria presenza, ma qualcosa le suggeriva che Clint l'aveva vista eccome e che aveva avuto tutta l'intenzione di evitarla. Il modo in cui masticava di buona lena, come per finire il più rapidamente possibile, lo sguardo fisso nel piatto e le spalle incurvate in avanti... tutto le faceva capire che non aveva alcuna voglia di parlare o interagire con chicchessia.

Finì la propria cena altrettanto velocemente, rimettendosi in piedi qualche secondo dopo, rifiutandosi categoricamente di prendere atto del cocente fastidio che le rimestava lo stomaco: se non voleva parlarle che se ne andasse pure al diavolo.

Abbandonò di mala grazia il vassoio sulla pila dei piatti sporchi che si stava accumulando al bancone, beccandosi un'occhiataccia dalla signora che l'aveva servita. Vaffanculo, le avrebbe voluto rispondere, non possiamo essere tutti Capitan America.

 

*

 

I corridoi dell'area dormitorio erano dannatamente stretti e angusti. Nonostante i bocchettoni che avrebbero dovuto contribuire al ricambio dell'aria, a portare l'ossigeno dalla superficie attraverso la centrale che li sovrastava, l'atmosfera era umida e pesante. Gelida. Il sogno di chi soffriva di reumatismi.

A parte qualche isolato tentativo di rendere l'ambiente più accogliente (quadretti appesi alle pareti, indicazioni colorate che segnalavano le direzioni giuste da prendere per questa o quella zona della base, persino un vaso di fiori finti sistemato su una vecchia cassetta di legno abbandonata dove due corridoi si incontravano perpendicolarmente) l'aspetto di bunker anti-atomico, in quella particolare area, era ancora più evidente.

Clint si soffermò per l'ennesima volta davanti a quella che doveva essere la stanza di Natasha: se a lui era toccato di dover condividere la camera (un buco con due brandine schiacciate sulle due pareti più lunghe) con Steve, la donna era stata dispensata dall'avere un coinquilino.

Se doveva essere del tutto sincero con se stesso, non sapeva perché era lì: non aveva voglia di parlare, non aveva voglia di vedere nessuno... ma se fosse rimasto un secondo di più in quel glorificato loculo che il colonnello Fury gli aveva assegnato, avrebbe rischiato di perdere la testa.

Tirò fuori dalla tasca dei jeans la foto già sgualcita che aveva trovato nel suo fascicolo: non fosse stato per i capelli rossicci e l'espressione strafottente, sarebbe stato come guardarsi allo specchio. Suo fratello Barney sembrava essere tutto ciò che Clint non era: la battuta sempre pronta, le idee dannatamente chiare, la soluzione costantemente a portata di mano. O, se non altro, era sempre stato abbastanza bravo da convincerlo di essere sempre un passo avanti a lui. Erano passati diversi anni dall'ultima volta che l'aveva visto, ma quel volto tanto simile al suo l'avrebbe riconosciuto tra mille: a parte una cicatrice che gli attraversava la guancia destra, non sembrava essere cambiato granché.

Per quanto avesse tentato di rimuovere la scena, ricordava ancora con sconcertante precisione il giorno in cui due rappresentanti dell'esercito bussarono alla porta del suo appartamento di Brooklyn per annunciargli che suo fratello era morto in azione. Se si concentrava solo un istante, riusciva persino a provare di nuovo quella medesima sensazione: lo stupore, lo shock, l'intontimento... nemmeno lo sapeva che suo fratello si era arruolato. Ci dev'essere un errore, aveva loro risposto. E quelli, probabilmente credendo di avere a che fare con un parente impietrito, nella fase del più acuto rifiuto della realtà dei fatti, si erano scambiati uno sguardo consapevole, gli avevano consegnato le medagliette che riportavano il suo nome. Suo fratello è morto in azione, avevano ribadito, questo indirizzo era il suo unico contatto d'emergenza. Se n'erano andati frettolosamente, senza guardarsi alle spalle, lasciandolo da solo ad affrontare quell'assurda verità, a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua: Barney, il fratello maggiore che non vedeva da una vita, non c'era più.

Gli ci erano voluti tre giorni per metabolizzare la notizia, poco più di settanta ore che erano culminate in un incubo orribile, accompagnato da un sommesso pianto soffocato nel cuscino.

Quelle che ne seguirono furono settimane confuse: una specie di trance in cui aveva ripreso in mano il suo vecchio arco solo perché gli ricordava suo fratello. Quell'aggeggio che aveva segnato la sua vita era l'ultimo, sottile filo rosso che lo ricollegava ancora alla sua infanzia a Waverly, alla casa dei suoi genitori; aveva bevuto fino a stordirsi, a ripetizione. Quando l'idea di essere solo al mondo senza neanche l'ombra di una famiglia aveva cominciato a farsi insopportabile, aveva chiesto a Bobbi, la sua ragazza del momento, di sposarlo.

Tra tutte, quella era la decisione di cui si era maggiormente pentito. Barbara era stata la sua storia più seria; convivevano da appena sei mesi quando si era ritrovato a blaterare quella proposta senza né capo né coda: ci aveva messo un po' a dirgli di sì, ma non gli ci era comunque voluto molto a farla cedere. Tempo dopo, quando si era allontanato a sufficienza da quella situazione da averne una visuale migliore, capì che Bobbi l'aveva fatto solo ed esclusivamente nella speranza che assecondarlo potesse effettivamente aiutarlo ad uscire dal baratro in cui era precipitato.

La cerimonia era stata rapida ed indolore, la luna di miele trascorsa in un ostinato ritiro nella camera del suo appartamento; periodo durante il quale si erano alzati dal letto solo per andare in bagno, bere e mangiare. Si era illuso, oh, se si era illuso: ma era bastato uscire da quella stanza perché le cose gli apparissero per quelle che erano, perché tutto andasse a puttane. Lui era infelice, Bobbi era infelice... non avrebbe mai potuto colmare il vuoto che la dipartita di suo fratello gli aveva causato, non a forza, non in un modo così innaturale. Si erano lasciati di comune accordo, una domenica qualunque. Dopodiché Clint si era trasferito nella vecchia casa dei suoi genitori a Waverly, decisione che si era rivelata più deleteria che altro: era lì che aveva raggiunto il punto più basso, lì che, proprio quando aveva cominciato a scavare, tra i fumi dell'alcool e il tanfo del tabacco, aveva deciso di rimettersi in piedi... un giorno dopo l'altro. Faticosamente.

E adesso quegli illustri sconosciuti gli presentavano la possibilità di rivederlo... vivo? Perché all'eventualità che gli avessero infilato quella dannata foto a tradimento, tenendo molto convenientemente per sé la parte in cui gli ricordavano che era morto, non la voleva neanche prendere in considerazione: si sarebbe preoccupato di far apparire l'HYDRA come un fottuto gattino in confronto alla furia che avrebbe scatenato su quel buco d'infami nascosti sotto terra.

Fu il rumore della porta che si apriva a riportarlo alla realtà: Natasha gli stava rivolgendo un'occhiata indecifrabile.

“Hai intenzione di fare su e giù ancora per molto? Ti sento pensare da qua dietro,” lo rimproverò seccamente.

“Ahm... n-no,” balbettò in risposta, affrettandosi a rinfilare la fotografia spiegazzata nella tasca posteriore dei pantaloni. La sua confusione fu tale da convincerla ad addolcire – anche se di poco – lo sguardo.

“Fa' come ti pare. Chiudi se decidi di andartene,” lo avvertì, abbandonandolo solo come uno stoccafisso in mezzo al corridoio, la porta ancora spalancata in un tacito, irruento invito. Esitò ancora per qualche istante prima di decidersi ad accettarlo, a varcare la soglia della stretta camera che Fury le aveva assegnato. Il libro aperto e capovolto sul letto non ancora disfatto e lo zaino poggiato sul pavimento, erano gli unici indizi a suggerire l'effettiva presenza, in quella sottospecie di sgabuzzino, di un essere umano.

Natasha si era rimessa seduta sul materasso, un'occhiata interrogativa nella sua direzione. Indossava ancora gli abiti che lo SHIELD aveva loro consegnato alla conclusione dei test a cui li avevano sottoposti. Se pensava a tutto quello che si era fatto fare senza neppure accennare ad una protesta, gli veniva da ridere: era stato sufficiente mostrargli una foto di Barney per fottergli definitivamente il cervello.

La sensazione che era solita assalirlo quand'era solo con Natasha, non tardò a manifestarsi... facendogli molto prontamente mettere in discussione la bislacca decisione che l'aveva portato fin lì.

“Rogers ti tiene sveglio con i suoi racconti di guerra?” Gli domandò, ostentando un'artificiosa disattenzione nei suoi confronti e, di contro, un particolare interesse per quel libro che aveva recuperato da chissà dove.

“Rogers sta dormendo come un angioletto,” replicò, un accesso improvviso di imbarazzo ad impacciare ogni sua mossa. Accennò ad un paio di passi nella sua direzione, un attimo prima che Natasha lo invitasse a sedersi accanto a lei con un rapido sguardo, sollevandolo dall'onere di prendere l'iniziativa. Non se lo fece ripetere due volte: la raggiunse senza troppe cerimonie. La brandina si piegò pericolosamente sotto il suo peso, facendogli temere che potesse cedere da un momento all'altro.

“Come sono andati gli esami?” Si decise a domandarle.

“Niente di troppo invasivo.”

“Già.”

Studiò per un istante il suo profilo: sembrava ci fosse qualcosa che la infastidiva, ma non avrebbe saputo dire cosa. Si era illuso che il suo comportamento a cena fosse passato inosservato, ma adesso non ne era più tanto sicuro: si sorprese a sentirsi in colpa senza che potesse far molto a riguardo.

“O ne vuoi parlare o non ne vuoi parlare,” Natasha aveva decretato in tono fermo e deciso. “Non girarci attorno.”

“Non so se ne voglio parlare,” ammise, mettendosi immediatamente sulla difensiva.

“Allora perché sei venuto fin qui?” Incalzò lei.

“Non lo so, va bene?” Stava già cominciando ad esasperarsi. “Vuoi che me ne vada?”

“Non ho detto che voglio che tu te ne vada.”

“Bè la tua faccia sembra dire tutto il contrario.”

“Perché non mi piace essere ignorata!” Esclamò innervosita, voltandosi – solo in quell'istante – per poterlo guardare in faccia.

“Non avevo voglia di parlarne,” si giustificò di nuovo.

“Ma adesso sei qui,” gli fece notare in tono insopportabile.

“Cazzo, se non la smetti giuro che me ne vado.” Si sentì stupido a minacciarla con un evento di cui – molto probabilmente – non gliene fregava proprio niente. Per quale motivo avrebbe voluto averlo lì, comunque? Scattò in piedi, accompagnato dai cigolii di quel letto scadente.

“Non mi pare che qualcuno ti stia trattenendo.”

“Vaffanculo, Natasha,” borbottò inviperito, e se ne sarebbe anche andato se la voce della donna non arrivasse molto prontamente a fermarlo.

“Ti è caduta la foto di tuo fratello.”

Sentirle pronunciare quelle due misere parole ad alta voce, ebbe il pessimo effetto di farlo scattare come una molla: si voltò bruscamente, strappandole di mano lo scatto che gli stava porgendo. L'occhiata turbata e furente che gli lanciò, insieme al folle battito del suo cuore impazzito, lo trascinarono di nuovo con i piedi per terra a chiedersi che cazzo gli fosse preso. Sei un fottuto stronzo quando ti ci metti, non poté fare a meno di ribadire a se stesso, sentendo il calore dell'imbarazzo risalirgli su per il collo, le guance, fino alle orecchie.

Non riuscì a bloccare un impercettibile sospiro mentre gli cadeva lo sguardo sull'immagine di Barney: non era poi così difficile capire come Natasha avesse intuito il grado di parentela che li legava. Ricordava ancora le poche volte, in estate, in cui sua madre permetteva loro di accompagnarla per le commissioni del giorno, il modo in cui quasi tutti coloro che incontravano non mancavano di sottolineare quanto si somigliassero, che – non fosse stato per il colore dei capelli – sarebbero potuti passare per gemelli. Riusciva persino a figurarsi l'espressione disgustata di Barney, che ci teneva a ribadire (giusto per farlo arrabbiare) che avrebbe preferito ingoiare un moscone piuttosto che dover condividere la faccia con quello sfigato di suo fratello.

“Lo credevo morto,” mormorò senza neanche accorgersene. “Pensi...,” si interruppe per qualche istante, finendo seduto sul pavimento come per paura che le gambe gli tirassero un brutto scherzo. “Pensi che me l'avrebbero fatto vedere se... s-se non fosse vivo?”

Natasha lo stava scrutando attentamente, di nuovo con l'aria di chi sta cercando di capire il funzionamento di un qualche complicato meccanismo.

“Non noti niente di diverso?” Finì per chiedergli in tono asciutto, pacato.

Era questo che gli piaceva di lei: chiunque altro si sarebbe lanciato in una tirata all'insegna della speranza e dell'illusione, convincendolo che non c'era motivo di dubitare delle intenzioni dell'ex SHIELD, che suo fratello era ancora vivo, da qualche parte, in attesa che qualcuno andasse a riprenderselo... prima o poi. Niente del genere: Natasha era rimasta coi piedi per terra, valutando minuziosamente la situazione, quali che fossero le sue condizioni psicologiche e a dispetto di ciò che avrebbe voluto sentirsi dire. Sincera fino a far male, ma senza cattiveria.

“La cicatrice,” replicò dopo un lungo attimo di silenzio. “Ma potrebbe essersela fatta prima di morire,” aggiunse, rifiutando di concedersi anche la più piccola delle speranze.

“Da quanto non lo vedevi?”

“Un sacco di tempo. Avrò avuto diciassette anni al massimo,” sussurrò appena udibile.

Dopo gli anni trascorsi al circo, si erano susseguiti dei rocamboleschi pellegrinaggi che li avevano portati ad attraversare il paese. Si erano stabiliti a New York per quello che doveva essere solo un soggiorno limitato, ma Clint aveva trovato lavoro e la sistemazione – la soffitta di un vecchio scorbutico che aveva bisogno d'aiuto a rimettere in sesto il suo appartamento – di cui disponevano non era poi così scadente. Avevano litigato, si erano presi a male parole, avevano rischiato di venire alle mani... la mattina dopo Barney non c'era più. Nonostante in cuor suo non avesse mai dubitato della sua partenza, Clint aveva comunque sperato che si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi. Finché i giorni non erano diventati settimane, le settimane mesi e i mesi anni.

“Quando avremo finito il lavoro te lo diranno,” puntualizzò Natasha.

“Se sopravviviamo,” non poté fare a meno di sottolineare.

“Non ho intenzione di morire prima di aver scoperto cosa sanno,” decretò seccamente lei.

La vide armeggiare con le pagine ingiallite del vecchio volume, tirandone fuori una fotografia; gliela porse senza alcuna spiegazione. Lo scatto ritraeva quella che gli ricordò, immediatamente, una di quelle orrende foto di classe che si scattano alla fine di ogni anno scolastico; ma non gli ci volle poi molto per cogliere la tensione che animava i visi di tutte quelle bambine vestite di grigio, insieme all'aspetto militaresco dei due adulti che chiudevano le due file.

“L'uomo è mio padre,” lo informò lei a mezza voce.

“Ci sei anche tu,” non riuscì a fare a meno di notare. Tra tutte quelle facce spaurite aveva individuato il suo cipiglio serioso, i capelli rossi e lisci, una mano stretta sul polso dell'altra: sembrava stesse imitando la postura di quello che gli aveva indicato come suo padre.

“Non ricordo niente... e nessuno,” riprese lei, quasi non l'avesse neppure sentito. “Solo la faccia di quella donna, ma...,” scosse il capo, sovrappensiero, “non riesco a collocarla.”

Clint ricordò le parole del colonnello Fury, il modo in cui le aveva arrogantemente chiesto se avesse preferito il siero di suo padre alla minaccia delle prigioni che – non dubitava – li attendevano in caso di rifiuto: una necessaria precauzione se volevano assicurarsi che i segreti dell'ex SHIELD rimanessero sotto terra insieme a loro.

“Ti faceva dimenticare?” Si azzardò a domandarle, perplesso. La osservò mentre sfogliava distrattamente il libro, i denti affondati nelle labbra in un'espressione incerta, contratta. Avrebbe voluto allungare una mano, sfiorarle il viso e... nemmeno lui sapeva bene cosa. Rise tra sé di quel primordiale, inutile impulso. “Non devi rispon-”

“In continuazione,” lo interruppe con una certa urgenza, impedendogli di finire la frase, gli occhi verdi e profondi di nuovo puntati nella sua direzione.

“Perché?” Non era sicuro di riuscire a capire.

“Per controllarmi meglio.” La risposta fu tanto banale da risultargli disarmante. “Non era il mio padre biologico,” aggiunse a mo' d'appendice.

“Che è successo alle altre?” Se l'uomo se l'era portata via, obbligandola a girare il mondo mentre lui metteva all'asta i suoi servizi, significava che quella specie di inquietante asilo era stata solo una soluzione temporanea... forse l'inizio di tutto.

“Credo siano tutte morte.” La voce di Natasha lo fece agghiacciare: avrebbe voluto chiederle cos'è che glielo facesse pensare, ma aveva come la netta sensazione che più che una riflessione razionale, quella fosse solo una nebulosa impressione confermata – forse – da qualche vago ricordo.

Rimasero immobili per quella che gli parve un'eternità, lasciando che il tempo scorresse silenziosamente tra di loro, che il respiro di uno si regolasse su quello dell'altro man mano che i secondi si avvincendavano gli uni agli altri.

“Vuoi rimanere qui?” Fu costretto ad osservarla per un paio di istanti prima di capire cos'è che gli avesse chiesto. “Possiamo fare a turno,” specificò lei.

“Non ti dispiace?” Si ritrovò a chiederle prima ancora di poter registrare le implicazioni di quell'offerta. Nonostante i pensieri che si ritrovava ad ignorare e reprimere, fossero tutt'altro che casti, quel loro bizzarro patto aveva un non so che di innocente, qualcosa che andava salvaguardato a dispetto dei suoi più sordidi e bassi istinti.

“No, c'è posto.” La vide sedersi ai piedi del letto e scostare la coperte come per invitarlo a prendervi posto. “Faccio io il primo turno.”

“No, figurati, posso farlo io.” Mentre sistemava le due foto sullo zaino della ragazza, si chiese se non fosse per caso impazzito: eppure tutto quello che voleva fare, in quel momento, era smettere di pensare, riposarsi e – per quanto suonasse stupido – l'idea che Natasha vegliasse su di lui era la sola, vera consolazione che sembrava in grado di convincere gli ingranaggi del suo cervello a fermarsi per qualche ora di assoluta, benefica quiete.

“Lo faccio io,” insisté lei. “Devo finire di leggere questo, comunque.”

“Che cos'è?”

Frankenstein.”

Mentre si toglieva le scarpe e si infilava sotto le lenzuola, gli venne inspiegabilmente da ridere.

“Odiavo quel fottuto libro,” decretò solennemente, lanciandole un'ultima occhiata assonnata. “Non riuscivo a non tifare per il mostro.”

Natasha abbozzò un sorriso.

“Per chi altri, sennò?”


__________________________________________

Note:
Un capitolo di "pausa" per riallacciare un po' di fili (più che altro riguardo la posizione di Steve) e esplorare un po' il passato di Natasha (o almeno quello che suppone sia il suo passato), ma soprattutto quello di Clint, con la straordinaria apparizione di Bobbi e Barney... sarà vivo? Sarà morto? Ce lo deve dire Fury ù_ù
Nient'altro da aggiungere. L'azione si articolerà sui prossimi due capitoli, con il diciannovesimo conclusivo e il ventesimo che fungerà da epilogo (provvisorio? Chi vivrà vedrà XD).
Ringrazio le "fedelissime" che leggono e recensiscono sempre (Ragdoll_Cat, Blackmoody e Frau Blucher) e ovviamente la sclerosocia (a questo giro per le sue consulenze letterarie in particolare :P).
Ed è tutto! Buon weekend a tutti e alla prossima!
S.
  
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