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Autore: Word_shaker    13/12/2014    1 recensioni
Io sono Remus Lupin. La battaglia di Hogwarts sta per avere inizio. Pochi sanno la mia storia. Pochi sanno che io sto per morire.
Genere: Angst, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Nimphadora Tonks, Remus Lupin, Teddy Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Ricordo ancora quando mi presentarono Ninfadora… O meglio, Tonks.
Capelli viola, buffa, imbranata totale, però nel complesso allegra e coraggiosa, pensai.
La cosa che mi colpì di più furono i suoi capelli ribelli. Lei avrebbe potuto essere qualsiasi cosa o persona avesse voluto, ma aveva sempre creduto - da che io ricordi - che la cosa migliore che potesse essere fosse se stessa.
E dire che io, probabilmente, me stesso non l’ho mai trovato.
Sono Remus Lupin, per chi non l’avesse capito. Non so quanto importi il mio nome. Un nome resta un nome. E’ più l’immagine, l’entità, che conta. E solitamente ad un nome si associa un’immagine. Il nome è soltanto il corrispettivo verbale che la nostra stupida civiltà ha voluto darsi senza avere il bisogno di guardare, di osservare le cose per ciò che sono, e così l’uomo ha cominciato a fare uso gratuito di malelingue. Ma questa, temo, è un’altra storia. 
Sono una persona molto tranquilla, ma solo all’apparenza. In realtà ho cambiato Molliccio più e più volte. Avevo quattro amici: due si sono sposati e sono morti martiri, un altro è stato arrestato il giorno della loro morte e il quarto ci ha traditi. Le uniche persone che avessero mai veramente accettato la mia condizione se n’erano andate, e mai prima di allora mi ero sentito così solo. Riabbracciare Sirius fu un toccasana unico, nel 1994. Avevo trovato un frammento di ciò che avevo perso, sebbene completamente trasformato; in fondo, ero cambiato anch’io. Le mie cicatrici erano più profonde. Le mie lune piene, più luminose. La speranza cominciò a farsi viva in me soltanto quando vidi Harry: la fusione perfetta fra James e Lily, fra i morti che avevano inaugurato tutte le mie perdite. Un ragazzino di tredici anni che temeva soltanto la paura stessa. E poi, dopo tutto il trambusto che accompagnò le ricostituzioni di quegli anni, lei. Lei che non vedeva l’ora di affermare se stessa, a volte anche con una certa prepotenza, e poi io, io che ogni volta che potevo, da me stesso fuggivo e, quando o se mi ci imbattevo di nuovo, scappavo ancora. Ecco perché mi fece così male vedere che il ragazzino che aveva paura della paura l’aveva riconosciuto al posto mio. Lei era giovane, e per quanto ne sapevo, avrebbe potuto rimanere con quel viso per sempre. Io, invece, ero e sono vecchio, lo sono sempre stato. Il mio dolore e il mio tormento sono sempre stati anni in più che si aggiungevano sulle mie spalle e sui solchi delle mie occhiaie, sui labbri delle mie cicatrici. La prima volta non riuscii a credere che una persona così diversa da me potesse colpirmi, sono sincero; mi sono sempre piaciute le persone intraprendenti, ma non pensavo che avrei incontrato una come lei. Il fatto che volesse farmi ridere a tutti i costi, poi, mi lusingava.
Andò tutto bene finché non cominciò a farmi la corte. Appena mi si presentò davanti con quel sorriso innamorato, capii che era l’ora di scappare di nuovo, di evitare la felicità come il vaiolo di drago. Sceglievo i turni di guardia più pericolosi, mi presentavo ad orari improponibili per assicurarmi che lei non ci fosse, e poi accadde l’inevitabile: lei si dichiarò. Pensavo che scappare fosse bastato, ma avevo visto male. Io non ero scappato. Io ero inciampato su me stesso, dopo aver indietreggiato davanti alla sua imponente figura. Eppure trovai un modo di arrancare per allontanarmi da lei, e la cosa brutta fu che lei me lo permise. I suoi capelli non erano più viola perché non riuscivano più ad assumere quel colore. Il suo Patronus ero diventato io. Io ero il ricordo felice di qualcuno. Non potevo affrontare tutto questo. Scappavo da me stesso, la gioia non poteva essere da meno a quella enorme fuga quale si era rivelata la mia vita da quando avevo circa quattro anni. A volte mi sono chiesto se, senza il morso di Fenrir Greyback, sarei comunque fuggito da qualunque parvenza di gioia. La risposta è sempre stata: “Non è andata così, quindi a che serve pensarci?”.
D’altronde, la mia testa è sempre stata un groviglio, un groviglio di problemi che, a quanto pare, soltanto io ho sempre visto.
Essere la felicità di qualcuno mi ha sempre spaventato; forse perché io stesso non riuscivo a trovarla, la felicità, e se ce l’avevo, apparteneva alla mia giovinezza. Eppure la paura fa fare cose terribili. Quella della solitudine, non ne parliamo. Ma uno come me, un reietto, è condannato a stare da solo. Autoinfliggere una pena: ecco come si chiama, secondo gli altri. Secondo me si chiama realismo. Una persona condannata alla solitudine è una persona condannata alla profondità: alla fine tu non senti le voci degli altri e cominci a dare ascolto a quelle dentro la tua testa, e ti chiedi costantemente perché quando un sorriso si piega al volere della circostanza gioiosa, subito pronta a sovrastare tutto il resto, a sconvolgerti e ad essere dolorosamente scacciata. Ecco cos’è stata Tonks per me: gioia a cui non dovevo sottostare, eppure mi sono dovuto arrendere. Era necessario che Fenrir Greyback tornasse, che Silente fosse morto, per farmi sibilare un ‘sì’. Lui aveva sempre avuto un debole per lei, come anche Malocchio. Come biasimarli?
Ricordo ancora quel giorno di luglio, quando lei irruppe in casa mia quasi senza bussare.
- Remus. -
- Dora! - esclamai, un po’ sorpreso. Strano, mi dissi, solitamente lei avvisava prima di presentarsi a casa mia.
- Come stai? - e mi buttò le braccia al collo. Fin qui, tutto normale. Quando chiusi la porta, risposi: 
- La luna piena è la settimana prossima, per cui non scoppio di salute. -
- Sei da rottamare, tesoro mio. - commentò lei ridacchiando. 
- Io ti ho avvertita per tempo, se ricordi. Sei tu quella testarda, qui. E non ho ancora capito che cosa ci trovi in me -.
Sospirai e mi sedetti senza fare troppi complimenti, massaggiandomi le tempie. 
- Per la barba di Merlino, Remus! - esclamò con le sopracciglia corrugate.
- Sì, lo so, era una battuta. Scusami. Fatto sta che non hai ancora risposto. -
Uno sbuffo scocciato. Le punte dei suoi capelli si erano sollevate e la cosa mi fece quasi ridere. Non seppi dire se lo fece apposta o meno. 
- Che cosa ci trovo in te? Te l’ho detto miliardi di volte, ma tanto non ascolti mai - e poi ci fu una pausa di silenzio quasi preoccupante. Il momento dopo, in cui mi decisi ad alzare lo sguardo colpevole verso di lei, cambiai idea, non avendo più il tempo materiale per farlo, dato che pronunciò una parola che mi fece quasi cadere dalla sedia. 
- Sposami. -
La parola mi aveva reso sordo: era entrata nei miei timpani e li aveva bucati, espandendo con violenza un dolore che partiva dalle orecchie e che arrivava fino al petto, sul cuore, e si espandeva verso lo stomaco. Dato che credevo davvero di essere diventato sordo, scoppiai a ridere e la mia risata, seppur conscio che fosse forte, mi sembrava un alone di rumore lontano.
Lei abbassò la testa verso di me, e, corrucciata, mi chiese: 
- Che cos’hai da ridere? -
Io scossi la testa.
- Va bene. Ti sposo. -
Dissi sorridendo, ad alta voce. Forse quella fu l’unica volta in tutta la mia vita in cui lasciai che un gesto d’amore mi condizionasse fin dal primo istante. Lei mi abbracciò ed io glielo lasciai fare.
- Avrei dovuto chiedertelo io. Scusami per non averlo fatto - risposi con un tono dispiaciuto.
- Oh, credi che non abbia imparato la lezione? Se aspettassi sempre te, non combinerei mai niente! - Ninfadora ribatté con aria di rimprovero, per poi lasciarsi andare ad una piccola risata.
- Venerdì prossimo - affermai io.
- Venerdì prossimo - confermò lei.
La cerimonia fu semplicissima ed invitammo soltanto gli amici più stretti. Avrei voluto che ci fosse stato anche Harry, ma ciò non era possibile. Sicuramente James, Lily e Sirius hanno esultato quando io e Dora siamo scappati mano nella mano verso un campo di zucche per sfuggire a tutti i fuochi d’artificio che Fred e George Weasley hanno insistito per portare. Gran bello spettacolo, se non fosse che ad un certo punto ho seriamente temuto per la mia vita. Non avevo mai visto Ninfadora ridere così forte. 
Poi arrivò Teddy. Cominciai a pensare che la mia felicità fosse un errore, che io stesso dovessi chiamarmi Errore per il danno che avevo fatto. Avevo condannato due innocenti alla mia stessa vita e, cosa peggiore, io amavo questi due innocenti. Scappare ancora una volta mi sembrava la soluzione migliore, come se i problemi non avessero mai potuto permettersi di inseguirmi. Il miraggio dell’irresponsabilità era così bello, così tentatore, che non potevo fare a meno di inseguirlo. E poi arrivò Harry, che letteralmente mi schiaffeggiò con la verità. Un ragazzo di diciassette anni più responsabile di qualsiasi adulto. Non potevo scegliere padrino migliore per Ted.
I tempi erano duri. Dovevo fare la spia per l’Ordine della Fenice come lupo mannaro. Nessuno sapeva da che parte stare, nessuno sapeva se fidarsi perfino di se stesso. Per ringraziare Harry per avermi fatto vedere la verità, accettai di collaborare con Kingsley Shacklebolt, Lee Jordan e Fred Weasley al progetto di Radio Potter. Chissà se ogni tanto gli è capitato di trafficare con la radio e di sentirmi? 
Fui così felice quando lo abbracciai, quando Teddy nacque. La verità avrebbe cresciuto mio figlio. 

 

Harry è tornato a Hogwarts. Voldemort lo sta raggiungendo. Io devo andare a combattere. So che sto inseguendo la morte, eppure, paradossalmente, stupidamente, non mi sono mai sentito così vivo. Ho dato un bacio veloce a mio figlio e a mia moglie e me ne sono andato, nonostante le sue proteste.
- Remus, vengo con te. -
Mi ha fermato il braccio, la sua voce era rotta ed io ho chiuso gli occhi, come a non voler vedere quella scena, come a voler evitare di vivere quel momento.
- Non ti azzardare. -
Le ho risposto voltandomi verso di lei, una rabbia d’opposizione che montava nelle mie vene ed arrivava dritta al cervello.
- Remus… -
Il suo sguardo supplichevole non mi piaceva.
- Guai a te se provi a seguirmi. -
L’ho rimproverata.
- Non ti lascio solo. -
Ha detto. Quelle parole mi hanno fatto strizzare gli occhi. Non ho voluto sentirle, non ho voluto accettarle… Non ho voluto crederci.
- Devi. Fallo, una buona volta. -
Ho pronunciato ad alta voce, come se un tono di voce più alto potesse servire con una come Ninfadora.
- Mai. -
Il suo tono era molto più deciso del mio, ma non potevo lasciarla venire.
- Dora, ti prego, ti prego. Pensa a Teddy. -
Ho detto, un po’ scocciato. Lei ha abbassato lo sguardo e ha mollato la presa. Pensavo di averla vinta, ma mi sbagliavo. 
- Ti amo, Remus. -
- Anch’io ti amo, Dora. -
- Torna presto. -
- Lo farò. -
Me ne sono andato e ho affrontato qualunque cosa mi fosse capitata davanti. Adesso sono all’ultimo piano, la stanchezza comincia a farsi sentire e sorrido al pensiero di Tonks e Teddy che mi aspettano a casa. Poi un grido mi lacera l’anima e i miei occhi si chiudono, si piegano al volere dell’accettazione della preoccupazione. 
- REMUS! -
La sua voce. Non può essere. Devo essere morto. 
- TONKS! -
Urlo con tutte le mie forze, lei che mi trascina via dagli orrori della battaglia.
- Come stai? -
E’ preoccupata, glielo si legge dappertutto. Posso biasimarla? Ovvio che no.
- Dovevi restare a casa! -
Grido per rimproverarla, per sovrastare il mio cuore che batte con prepotenza su ogni centimetro della mia pelle, per fermare il sangue che sgorga su alcuni punti del mio viso. 
- Il mio posto è con te. Ovunque tu sia. -
Non ho il tempo di sorridere. Ci mettiamo schiena contro schiena e cominciamo a combattere contro i Mangiamorte. Dolohov è mio. 
E’ tutto meraviglioso, davvero. La luce, il brivido, la vita che senti fluire in un brivido disperato lungo la bacchetta ad ogni incantesimo pronunciato. Il ridicolo pensiero di potersi aggrappare alla vita prima e meglio di altri.
Va tutto benissimo, finché una luce

   
 
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