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Autore: B Rabbit    13/12/2014    2 recensioni
«Len…» lo chiamò allora titubante, la voce flebile ed angosciata. Si avvicinò leggermente di più e scrutò le sue iride spente, mordendosi il labbro alla vista di quel cielo, ormai ingrigito dalla sofferenza, che non riluceva più – la sua luce era sparita, fuggendo insieme alle risate e ai sorrisi–.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Untitled song




Mugolò stizzito e prese a camminare per la stanza, la fidata chitarra vicino al petto.
«No, no… così non va affatto bene…» rimuginò, pensando più e più volte alle ultime note. Pizzicò distrattamente le corde dello strumento e sussurrò la melodia, soppesando ogni battuta con minuzia – doveva essere perfetta, splendida come lei –.
Improvvisò una piccola giravolta e, riprendendo per l’ennesima volta il sentiero creato, Len suonò ancora l’ultima riga scritta.
Si fermò.
Eseguì le ultime note, lentamente, esaminandole con attenzione. «E se…?».
Ripercorse le due battute finali con le modifiche balzategli in testa e, sorridendo entusiasta, prese a suonare dall’inizio, tessendo un’armonia delicata, lenta ma con qualche leggera ripresa di velocità.
Aprì la bocca, felice, e rafforzò quel dolce vento con il suo intenso canto, pulsante di sentimenti.


«Len…?».
La voce perì senza risposta, accompagnata dalla leggera eco delle nocche contro la porta.
La giovane posò la mano sul legno e, accostando l’orecchio alla superficie, cercò di catturare qualche suono che potesse aiutarla ad abbozzare la situazione.
«Len… ehi, Len?» ritentò flebilmente, preoccupata per il fratello. «Posso entrare…?».
Attese qualche attimo, ansiosa di qualsivoglia risposta, ma sospirò quando le ritornò unicamente l’amaro silenzio.
Socchiuse gli occhi e posò la fronte sulla porta, agitando appena il capo come dissenso a tale situazione.
Sospirò ancora e sollevò lo sguardo.
Quando imparerai, eh…?
«Sto entrando…» mormorò e, con delicatezza, aprì lentamente la porta. Posò gli occhi sul letto e incontrò la figura immobile di suo fratello – la sentiva, Rin; percepiva la sofferenza appestare l’aria intorno a lui –.
Silenziosa come la notte, la ragazza avanzò verso il giovane, le iridi tinte della più scura amarezza; si accostò al capezzale, gattonò di qualche passo e si sedette vicina a lui, guardando la sua schiena ricurva.


Con lo sguardo chino, Len scriveva la propria canzone con incredibile lentezza e concentrazione, attento a non sbagliare – l’aveva ultimata il giorno prima, quando il cielo era livido e l’oscurità lo circondava paziente, pronta a piombare su di lui appena l’ultima luce fosse morta –.
Nonostante il borbottio della classe, il ronzio fastidioso del professore e il bussare della realtà, il ragazzo continuava imperterrito a graffiare quel foglio con inchiostro nero e cuore palpitante.
E mentre scriveva, dava linee e forme precise ai suoi sentimenti, gli parve di udire le risate di lei, la sua voce gentile e cristallina capace di lenire ogni animo tormentato.
La campanella suonò acuta, regalando agli studenti l’ambita ricreazione. Molte sedie stridettero, vari timbri vibrarono nell’aula.
«Len, andiamo!» intimò allegra una giovane, avvicinandosi al citato.
«Ti raggiungo dopo, Miku» rispose lui frettoloso senza mai alzare il capo. La ragazza brontolò e, salutato l’amico, uscì fuori.
Len proseguì a stendere la canzone, sopprimendo all’istante ogni possibile distrazione – doveva sbrigarsi, il tempo scappava via dispettoso, trascinando con sé l’occasione che aveva tanto atteso –.
Alzò finalmente la testa. «Sì…!» soffiò estasiato; afferrò lo spartito e corse via dall’aula senza salutare i compagni che lo chiamavano.
Ignorando le due gocce celesti che lo fissavano, adesso e i giorni prima, con l’azzurro intorbidito dalla gelosia.
Si affrettò lungo i corridoi, bruciando la distanza che lo separava da lei, invidiosa dei sentimenti che erano germogliati in lui.
Saltò velocemente i gradini e il pensiero di trovarla lì, alla fine della rampa, gli infuse un’emozione elettrizzante, e la voglia di vederla crebbe in lui, scorrendo insieme al sangue in tutto il suo corpo.
Corse l’ultimo tratto, pensando al suo dolce sorriso che, radioso, avrebbe sollevato dalle sue spalle la stanchezza come fa il vento con la polvere.
Sgranò gli occhi. Dinanzi a lui, la giovane teneva il capo basso, visibilmente imbarazzata da qualcosa; il ragazzo che la affiancava, invece, le sorrideva dolce. Len assistette alla scena: vide lo studente portare le mani dietro il collo esile dell’altra e allontanarle un istante dopo; fissò lei, la sua espressione squisitamente sorpresa, le gote vermiglie e i suoi grandi occhi nocciola, lucidi di emozione. Il giovane ammirò il suo sorriso e notò una piccola, dolorosa differenza.
«O-oh, Len!» lo chiamò lei, nella voce una goccia di imbarazzo. «Ehm… ciao».
Il ragazzo serrò la mano in cui teneva lo spartito, imprimendo su di esso una ragnatela di vergogna e sofferenza. «Ciao» la salutò, arcuando cordialmente le labbra. «Volevo augurarti buon compleanno» aggiunse, accartocciando nelle dita la propria stupidità.
«Grazie!» rispose e lo ferì con un innocente sorriso.
Len la guardò; socchiuse gli occhi ed ingentilì la linea delle sue labbra. «Di nulla».


Lentamente, liberò lo spartito dalla cedevole stretta delle sue dita; lo guardò, dispiegò ogni piega con premura, percependo l’affetto del gemello pungerle fastidiosamente le dita.
Lesse lo spartito, una battuta dopo l’altra, e la melodia germogliò in lei, avvelenandole il cuore con la sua dolcezza.
Si morse il labbro e smise di dar vita alla canzone, socchiudendo gli occhi mesti – l’ira e la tristezza soffocavano il suo animo ferito –.
Scrutò il foglio di carta, la cura con cui Len aveva scritto ogni croma e semiminima; notò uno scarabocchio all’altezza dello spartito, linee dure e rabbiose che seppellivano il titolo sotto lacrime nere.
«Len…» lo chiamò allora titubante, la voce flebile ed angosciata. Si avvicinò leggermente di più e scrutò le sue iridi spente, mordendosi il labbro alla vista di quel cielo, ormai ingrigito dalla sofferenza, che non riluceva più – la sua luce era sparita, fuggendo insieme alle risate e ai sorrisi –.
«Come si chiama questa canzone?» sussurrò debole. Notò il fratello sussultare a quella semplice domanda – il dolore si contrasse e pulsò in lei con veemenza, acquisendo una vivace sfumatura di colpa –.
«… Canzone senza nome» portarono i mormorii al suo udito, così deboli da sembrare piccole vibrazioni dell’aria. Rin lo guardò confusa. «Non ha un titolo?» chiese ancora, trattenendo la mano che, senza accorgersene, si era avvicinata alla spalla di Len, vogliosa di saggiare la consistenza morbida di quelle onde dorate.
«E’ “Untitled song”» disse lui tenuamente. «… Credo si dica così, in inglese» aggiunse e si voltò verso la sorella; le sorrise appena, e Rin udì il petto gemere e sanguinare dinanzi a quella felicità ostentata. «Len…».
«Sto bene» la interruppe lui con dolcezza. «Sto bene, davvero…» ripeté, e rise alla vista di quegli occhi splendidi, gravidi di lacrime. «Perché piangi, adesso?» le chiese con la stessa delicatezza di sempre, di quando erano bambini e lui la consolava per ogni singola cosa, dolorosa o sciocca che fosse.
«P-perché…» balbettò, e un singulto la percosse dentro.
Il ragazzo sorrise amorevole; le scostò le ciocche bionde dalla fronte e posò le labbra sulla sua pelle in un tenero bacio. «Non piangere…» le sussurrò affettuoso, rivolgendole gli occhi socchiusi.
«Sei uno scemo…!» rispose lei, quasi con rabbia.
Len accennò una risata spenta e la cinse in un debole abbraccio. «E per questo, quindi? Perché sono scemo?» le chiese, cominciando a carezzarle piano la schiena. Rin scosse energicamente la testa. «No, stupido!» lo sgridò, stupendo il giovane. «Perché tu non piangi, non gridi e non ti arrabbi!» rigettò lei furente, sentendo le lacrime segnarle la pelle. «Sei sempre stato così… hai sempre nascosto il tuo dolore a me, perché sono la tua sorellina…».
Len socchiuse gli occhi e strinse di più la ragazza a sé, improvvisamente voglioso di calore, impaurito dalla solitudine.
«Hai sempre desiderato la mia felicità, così tanto da allontanarti nei momenti tristi, quasi potessi contagiarmi…».
Ricambiò l’abbraccio, Rin, stringendo la stoffa della maglia nelle dita e percependo nitidamente quel tepore che sapeva calmarla. «Voglio aiutarti, Len… voglio starti accanto come nessun’altra persona…» ammise, avvertendo il rossore ravvivarle le guance.
Sarò la tua luce – pensò, beandosi di quei brevi e magici secondi –. Solo per adesso, voglio esserlo io
«Rin…» la chiamò il fratello, carezzandole piano le ciocche vicino l’orecchio. «Grazie…».
La giovane sospirò. «Ripetilo e ti metto sotto con il trattore del nonno» gli disse, una nota divertita ad ingentilirle il tono.
Dalle labbra di Len vibrò una risata che, seppur debole e fragile, fu limpida. «Va bene» rispose lui, e Rin sorrise dolcemente.
«Bravo ragazzo».

















Kagamine PowAH!
Ok, no, torno seria…
Sono saltellata di nuovo qui, con una Kagatwincest – si può considerare tale? – semplice semplice, ma, soprattutto, tranquilla.
Devo ammettere che è stato un vero piacere scrivere questa shot, soprattutto con la robaccia che devo fare xD
Inoltre, devo ammettere che questa storia è nata un po’ per caso, un po’ per raptus; stavo ascoltando, infatti, Namae no nai uta del piccolo Len, e, leggendononsoperchéiltitolo, mi è venuta voglia di scrivere (oxo)d – la versione che ho io è quella con Len Appen Serious Leeeeeen –.
Cosa posso dire… sono felice di aver scritto ancora su questi due pulcini – gente, non è morto nessuno! – . Spero che vi sia piaciuta almeno un pochetto.
Colgo l’occasione per augurarvi buon Natale e una felice conclusione dell’anno ^ ^
Ho bisogno delle vacanze! cxc
Ciao ♥

Cloud ̴

  
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