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Autore: Elissa_    14/12/2014    9 recensioni
La bambina aveva il naso di Mary.
Fu la prima cosa che John notò di lei, quando l’infermiera gli indicò il fagotto nella nursery. Guardarla ogni giorno sarebbe stato come guardare il proprio fallimento, il più grande tradimento che avesse mai subito. Per il resto della sua vita, l’eterno memento della sua stupida incapacità di vivere serenamente.

Aka la parentlock post-season 3 di cui nessuno aveva bisogno.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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La bambina aveva il naso di Mary.
Fu la prima cosa che John notò di lei, quando l’infermiera gli indicò il fagotto nella nursery. Guardarla ogni giorno sarebbe stato come guardare il proprio fallimento, il più grande tradimento che avesse mai subito. Per il resto della sua vita, l’eterno memento della sua stupida incapacità di vivere serenamente.

Prima, prima di Magnussen e Moriarty e Moran, avevano pensato a dei nomi. Jack, Irma, Martin, Madeline. Mary aveva preparato una lista enorme subito dopo la luna di miele, e lui aveva assistito, quasi passivamente, l’entusiasmo del matrimonio che già scemava, lasciandolo esausto e con un retrogusto amaro in bocca. 
Riconosceva solo col senno di poi il tentativo di Mary di tenerlo con sé, e quasi provava un attimo di pena. 

Gli uomini di Mycroft la stavano sorvegliando attentamente, in attesa che si riprendesse abbastanza da essere portata via. John ignorava dove, e cosa le sarebbe successo, ma trovava appropriato che la parabola discendente della sua storia con una donna il cui nome ancora gli era sconosciuto terminasse nell’ignoto.

Il visino della neonata si storse in una smorfia offesa, quasi gli leggesse nel pensiero e non approvasse i termini con cui descriveva sua madre. Dovrai abituartici, si immaginò di risponderle. Non aveva altro che parole amare per Mary Morstan. Scosse la testa quando realizzò di star avendo una conversazione immaginaria con un essere vivente che, per il momento, non sarebbe stato in grado di comprendere una parola.

“Hai intenzione di tenerla?”
Sherlock, ovviamente, arrivava sempre al cuore della vicenda.
John nemmeno sapeva sarebbe venuto; si erano separati a Baker Street con un cenno brusco, da lontano. La faccenda della bambina era l’unica cosa di cui non avevano discusso da quando avevano preso Moriarty: Sherlock sembrava voler rispettare il suo diritto di prendere una decisione in solitaria, un’azione molto nobile se non si considerava che l’ultima volta che aveva fatto una scelta del genere, era finito sposato con una psicopatica, calpestando i sentimenti di più persone di quante gli piacesse ricordare, tra cui se stesso.
Quindi scrollò le spalle in direzione di Sherlock, a mo’ di risposta.

La verità era che i programmi di adozione che gli aveva proposto Mycroft erano fin troppo allettanti; la bambina sarebbe vissuta serenamente, lontana dalla realtà di una madre assassina e di un padre che l’aveva avuta perché troppo spaventato da se stesso.

“Crescerà coi tuoi occhi” affermò Sherlock, improvvisamente più vicino.
“Dici?” replicò, tentando di sembrare noncurante.

La verità era che i programmi di adozione che gli aveva proposto Mycroft erano fin troppo allettanti, ma John Watson non aveva mai sopportato le cose semplici -aveva vissuto 18 mesi di fila con Sherlock Holmes, almeno questa era una certezza- e l’istinto gli chiedeva di prendere quella neonata tra le braccia e portarla via, lontano da tutto e tutti. 
La verità era che la guardava e rivedeva il sorriso crudele di Mary quando aveva confessato di aver mirato per uccidere e aveva paura di rivedere quell’espressione, un giorno.

“Non diventerà mai come sua madre, John, non essere banale. L’educazione conta quanto e più della genetica.”
“L’hai dedotto dal movimento delle sopracciglia o dal lobo del mio orecchio?” domandò, più sarcastico di quanto non volesse realmente essere.
Sherlock si strinse nelle spalle, senza dir nulla. Osservava la bambina con attenzione, quasi non avesse mai visto un neonato prima.
Il che era altamente probabile. Non molte persone avrebbero affidato un neonato a Sherlock Holmes.
(Ovviamente, lui si trovava sempre tra le eccezioni. La cosa non lo disturbava quanto avrebbe dovuto.)

“Vuoi prenderla in braccio?” si trovò a chiedere, senza sapere perché. Sherlock non distolse lo sguardo dalla culla di plastica, dove la piccola riposava ignara. Sembrava ipnotizzato, più di quanto non lo fosse John. 
Si chiese se lui riuscisse a vedere le somiglianze con Mary, se non gli dessero i brividi. John non vedeva nient’altro, e la cosa lo spaventava.
Sherlock annuì impercettibilmente, senza neppure voltarsi. In quegli ultimi due mesi in cui si erano riscoperti a vicenda, aveva imparato come gesti del genere fossero indicatori di timore reverenziale, più che di noncuranza. Un anno prima non avrebbe osato usare la parola “timido” per descrivere Sherlock Holmes; ma in quel momento era l’unico aggettivo adatto a descrivere il cenno del capo con cui annuiva.
“Forse prima dovresti prenderla tu” aggiunse, subito dopo. “Dopotutto, sei suo padre.” 
John rimase in silenzio per qualche minuto, incerto su come rispondere. La parte di lui che rivedeva Mary in ogni lineamento della bambina si rifiutava anche solo di avvicinarsi. 
(Un’altra parte, più piccola ma rumorosa, si sarebbe già voluta mettere tra lei ed il resto del mondo.
Com’era possibile provare due sentimenti così forti e contrastanti allo stesso tempo?)
“Prima tu” stabilì, alla fine. Sherlock acconsentì silenziosamente, la confusione che scintillava chiara nei suoi occhi dal colore indefinibile.

La mano di Sherlock, inaspettatamente calda, s’insinuò nella sua prima che uscissero dalla sala d’aspetto, e John si lasciò rassicurare da quel tepore, mentre disegnava cerchi concentrici sul suo dorso. Non parlarono, ma si avvicinò un po’ di più al consulting detective e si fece confortare dalla certezza di averlo lì, nonostante tutto.

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L’infermiera li fece passare con una smorfia. “Stanno tutti dormendo, cercate di non far troppo rumore.” 
Stava per commentare quando notò le occhiaie scure –“Tre figli, un cane, appena separata” gli fece sapere Sherlock all’orecchio, non appena li ebbe lasciati soli. John si congratulò con se stesso per aver evitato di replicare sarcasticamente.

Si avvicinarono alla culla in religioso silenzio, le dita ancora intrecciate.

Da vicino, la bambina era minuscola, più corta di un braccio e così incredibilmente fragile che John sentì di nuovo il bisogno impellente di proteggerla. 
Sherlock la contemplava con le labbra schiuse e gli occhi spalancati, come se non credesse ai propri occhi. “Ehi,” gli sussurrò, stringendogli la mano un po’ più forte. Quando non ottenne risposta, gli afferrò il mento con la mano libera. “Va tutto bene?” chiese, quando gli occhi di Sherlock si focalizzarono su di lui.
Quello annuì lentamente, anche se non sembrava troppo convinto.
“Come si prende in braccio?” bisbigliò, le sopracciglia corrucciate come se fosse stato alle prese con una scena del crimine complicata da decifrare.
Sorrise, mentre gli mostrava come mettere le braccia. “Devi stare attento a reggerle la testa, più che altro” disse. Ignorò il tremolio delle proprie mani quando la prese per depositarla tra le braccia di Sherlock. Era calda e minuscola, e quando il tepore del suo corpicino lo lasciò, fu come se gli stessero strappando un arto.
Nonostante ciò, quando alzò lo sguardo non si pentì assolutamente di aver abbandonato la neonata alle cure dell’altro uomo. Sherlock osservava la piccola come se il mistero più complicato della terra stesse prendendo vita davanti ai suoi occhi; provò a dondolarsi un po’, quasi volesse cullarla, e contemporaneamente avvicinò il viso al corpicino, lo sguardo fisso sulle sue mani. John non lo vedeva così catturato da qualcosa dal Grande Gioco di Moriarty, quando ancora le loro vite non erano in pericolo.
“Le unghie sono praticamente invisibili” mormorò, poco più di un respiro. 
“Sono proporzionate al resto.”
Sherlock gli rispose con un’occhiataccia, ma non era esattamente credibile, da sopra il pancino di una neonata.
“Lo so, John” disse il suo nome con il tono con cui diceva “idiota”, ma lui non se la prese. Non sarebbe riuscito ad arrabbiarsi nemmeno se l’avesse voluto, quando lo vide guardare in faccia la bambina e salutarla, senza fare vocine strane, come se lo potesse capire.
“Ti assomiglierà molto” sussurrò Sherlock, finalmente guardandolo negli occhi.
“Somiglierà anche a lei” la sua voce era dura, amara più di quanto avrebbe voluto. Non era giusto che Mary fosse in grado di influenzare così tanto la sua decisione, ma non riusciva ad impedire che la rabbia scorresse nelle sue vene, si appropriasse di ogni spazio rimasto.
“Tutti hanno legami genetici di cui vorrebbero disfarsi. Pensa a me e Mycroft.”
Quello riuscì a strappargli una mezza risata. “Non è lo stesso, Sherlock.”
“Se non altro il Governo Inglese non la costringerà a fargli favori in nome di puerili promesse. Anche se questo non gli impedirà di tentare di corromperla con regali su regali, suppongo.”
A quelle parole, la promessa implicita di essere lì, John quasi sobbalzò. “ …Ovviamente, posso convincerlo a lasciarvi in pace, se vuoi che rimanga fuori dalle vostre vite. Potrei anche riuscire a trovarvi un posto lontano da tutto questo, se vuoi.” Il ‘tutto questo’ comprendeva anche e soprattutto lui, realizzò John; lo sguardo basso e la linea determinata delle labbra ne erano la prova. Eppure teneva la bambina tra le braccia, le mani ferme ma gentili mentre le sorreggeva il capo e la schiena. Lei si agitò in quella maniera inconsapevole dei neonati, e Sherlock sorrise, un attimo di accecante felicità.

E John, per un minuscolo, glorioso momento, riuscì a dimenticare tutto il resto.
Come al matrimonio, si trovò con la gola secca, incapace di emettere suono, mentre osservava la vita adattarsi attorno a quell’immagine. Un nuovo centro di gravità, pensò, e il tempo riprese a scorrere, come se nulla fosse accaduto.
“Non sapevo che ti piacessero i bambini” disse, schiarendo la voce.

La bambina mosse il capo, istintivamente alla ricerca della fonte del suono. Sherlock cercò di seguirne il movimento con la mano, ma John era davanti a loro prima ancora che la testolina della neonata avesse finito di muoversi. Il consulting detective gli consegnò il fagotto tra le braccia senza proferire parola, un sorrisetto sornione in volto, lo stesso di quando un sospettato faceva qualcosa che lui aveva previsto. Rimase comunque a distanza ravvicinata, tanto che John poteva sentire il suo respiro caldo contro la fronte. Lo osservò premere delicatamente un dito sul piede della bambina, con espressione concentrata come se stesse lavorando con elementi chimici particolarmente instabili. Lei curvò la pianta del piede, le minuscole dita che si arrotolavano attorno a quello di Sherlock, e un sorriso spuntò contemporaneamente sui loro volti.
“Molly mi aveva detto che i neonati sono sensibili a questo tipo di stimolazione, ma non credevo fosse vero” bisbigliò, incapace di mascherare l’incanto nella voce. 
Lui annuì, incapace di rispondere in qualsiasi altro modo. La bambina puntò lo sguardo su di lui, grandi occhi di un colore ancora non comprensibile. Sapeva che ancora non poteva vederlo, non allo stesso modo in cui lui vedeva lei, eppure quel contatto gli sembrò qualcosa di autentico, come l’inizio di una connessione.
I suoi occhi non avevano nulla della cattiveria di Mary, realizzò; il suo viso recava molte meno tracce della donna che l’aveva partorita di quante ne avesse viste John inizialmente. La guardò per davvero: il ciuffetto di capelli chiari arruffati, il viso tondo e paffuto, le guance rosse, gli occhi grandi e le labbra minuscole. Si chiese, per la prima volta da quando l’aveva vista, se avrebbe mai avuto le fossette. Se in futuro avrebbe voluto tenere i capelli corti o li avrebbe preferiti lunghi, se avrebbe preferito Halloween o il Natale. Si chiese per la prima volta che persona sarebbe potuta diventare, quella bambina appena nata con metà dei suoi geni. Se le sarebbe piaciuto investigare con Sherlock o se avrebbe preferito cose più ordinarie, come una serata al cinema.
(Avrebbe voluto essere in grado di spaventarsi perché non riusciva ad immaginare la sua vita senza Sherlock Holmes, ma la verità era che non ci era mai riuscito, mai per davvero. Aveva solo smesso di mentire a se stesso.)

E la decisione era già presa, non era così? Senza che lui avesse voce in capitolo. Come quella volta, anni prima, in cui aveva lasciato il bastone da Angelo per correre dietro ad un pazzo geniale che di lì a poco si sarebbe preso ogni centimetro della sua anima. 
Tese le braccia verso di lui, la bambina, sua figlia, come se sapesse già tutto. Come se gli stesse venendo incontro.

Fu in quel momento che Sherlock scelse di tossire piano. Il sorriso era sempre al suo posto, un misto di soddisfazione e tenerezza -altra scoperta recente nel Repertorio Delle Emozioni Di Sherlock Holmes- e forse, in parte, malinconia. John si trattenne dal baciarlo solo perché aveva paura di stritolare la bambina.
“Devo chiamare Mycroft perché mandi qualcuno a comprare una costosa carrozzina?”
“Pensavo che chiedere favori a tuo fratello ti desse una reazione allergica o qualcosa del genere” commentò, ma non poté fare a meno di sorridergli. L’espressione che gli restituì Sherlock era simile, ma velata da un’impalpabile tristezza. “È sempre un piacere rubare uomini e fondi al governo inglese” replicò, con un sorrisetto tutto rivolto alla bambina. Aveva ancora la mano sul suo piede, e lo accarezzava con movimenti lenti e rassicuranti.
Rimase lì ad osservarli per un po’, incantato dalla semplicità del momento.
“Quindi?” domandò Sherlock, alla fine.

John dovette insegnare a se stesso come respirare almeno due volte, prima di poter parlare. C’era un peso che gli comprimeva il petto, quello delle responsabilità e del possibile rifiuto, e ci volle un po’ perché la morsa a cui erano sottoposti i suoi polmoni si allentasse.
“Ti rendi conto che cambierebbe tutto, vero?”
Sherlock fece mezzo passo indietro, deglutendo. Sembrava gli avessero appena tirato un pugno allo stomaco. “Ovviamente, una bambina ha bisogno di un ambiente particolare. Se vuoi lasciare Baker Street, sono sicuro che ci sarà un modo per mettervi in sicurezza e agevolarvi, anche a livello economico.”
“Cristo, Sherlock, sei veramente un idiota” si lasciò sfuggire, in un sospiro. Fece un passo avanti, nel vedere l’espressione ferita del consulting detective. Il suo braccio, ora, era a contatto con lo stomaco di Sherlock. “Ti sembra che io abbia parlato di andarmene da casa? Se sei così impaziente di buttarmi fuori da Baker Street dovrai dirmelo chiaro e tondo.”
“E io che speravo di poter mettere in affitto la tua stanza” disse, ma il sospiro era sollevato; gli occhi si chiusero brevemente, come ad assaporare il momento.
“Per quanto mi piacerebbe continuare a scherzare sull’argomento, ho bisogno che tu mi dica se sei d’accordo, Sherlock. È una cosa seria questa, okay? Non un esperimento che puoi mollare a metà. Ho bisogno che tu mi dica se sei pronto. Veramente pronto, al cento per cento, niente ‘ops, mi sbagliavo’ o cose simili.” Era lui, stavolta, a chiudere gli occhi, in attesa del verdetto.

Sentì la mano di Sherlock sul viso, una carezza appena accennata. “John, ti ho preparato il matrimonio per diciotto mesi. Credo di poter cambiare pannolini per altri dodici” mormorò, un sussurro sulle sue labbra.
Il peso di poco prima svanì, sostituito da un’incontenibile euforia. Si concedette solo un bacio a fior di labbra, perché la creaturina tra le sue braccia reclamava attenzioni con mugolii insoddisfatti.
Sherlock la osservava, quasi contrariato. “Cos’ha?” domandò.
“Probabilmente fame, anche se non ne sarei troppo sicuro. Sarà il caso di chiamare un’infermiera.”

Uscirono dalla nursery mano nella mano.




Note: Se vi state chiedendo cosa sia, state tranquilli/e, non siete i soli. Detto ciò, se vi sentite personalmente offesi/avete voglia di gridare addosso a qualcuno, sono qui. Qualsiasi commento è bene accetto.
  
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