Un peso come di un macigno mi schiaccia il petto. È il senso di impotenza o la scheggia di una freccia insinuatasi tra le maglie della gabbia toracica? Forse entrambe. Conquisto l’entrata della tenda con un respiro forzato. Il puzzo di morte ammorba l’aria di questa città. L’ho odiata fin dal primo momento in cui l’ho vista, Cair Andros, questa fortezza dimenticata dagli uomini, ultima alcova di una masnada di orchi ed ora cripta per i loro resti. Lancio uno sguardo al di là della stoffa che mi separa dai ruderi di carne e di pietra che fanno, in un tutt’uno, la triste cornice della nostra avventura giunta all’ultimo atto. Siamo rimasti in duecento appena. Gli altri si sono riappacificati con il nemico abbracciandone il medesimo destino nella fossa. Le braccia mi si sono fatte di marmo a furia di trascinare i corpi dei miei compagni fuori dal tappeto della battaglia. Cerco di farmi forza per affrontare i reduci di quel massacro senza ragioni. Non ho ancora raccolto coraggio a sufficienza per guardarli in faccia. Quel ramingo venuto dal nord, quello che aveva preso il comando delle truppe, avrebbe voluto che anche noi marciassimo sul Nero Cancello e che vi marcissimo sotto le imponenti mura. Nella sua follia non gli è riuscito difficile di servirsi delle vite degli uomini come se fossero pedine di un gioco. Ho preferito che il mio nome fosse marchiato di codardia piuttosto che spedire al macello amici e compagni, come fossero maiali. Abbiamo pagato questa scelta con l’assurda conquista di Cair Andros. Eppure abbiamo tutti combattuto sui Campi del Pelennor per la difesa della Bianca Città e prima ancora ad Osgiliath ed ancora prima sui confini di Gondor, regione su regione, valle su valle, metro su metro, contro un nemico ognora crescente. Tra noi vi è anche qualche rohirrim che vagheggia di aver cavalcato su oceani di scudi a torre al fianco degli Ent e di aver messo sotto assedio Orthanc. Ma gli antichi Re e gli Stregoni sono pronti a morire e a far morire perché non hanno niente per cui morire. E noi che abbiamo qualcosa per cui morire, conosciamo bene il valore della vita. Non avremmo gettato le nostre anime al vento perché siamo l’ultima speranza per la Terra di Mezzo.
Una voce mi distoglie da quel pensiero – Capitano – dice. Sì, chiamano me. Mi ci vuole qualche istante per collegare il suono al volto. È una delle sentinelle del perimetro esterno, una di quelle poche che sono riuscito a disporre a difesa della nostra posizione. Fino a pochi mese addietro aveva meno di vent’anni, oggi non avrei difficoltà a dargliene quaranta. La guerra ci ha reso più mortali di quanto già non fossimo. – Dimmi – gli rispondo mentre rivesto la cotta di maglia costellata di anelli spezzati in lotta con l’avanzare della ruggine – Nessuna notizia dal Morannon, Signore. I corvi ne hanno in compenso coperto il cielo – mi dice, e nello sguardo posso leggergli i sottintesi – È finita? – è la domanda che aleggia sulle nostre teste, carica di una dolorosa risposta. La sentinella mi guarda, attende un istante e poi si ritira. I corvi staranno banchettando con i cadaveri dei nostri eroi. E questo sarebbe di consolazione se nel baratro non vi avessero trascinato anche l’ultimo esercito degli uomini. I nostri padri hanno fallito. Gli Dei e i loro primogeniti hanno abbandonato queste terre. Ora siamo soli. E siamo gli involontari testimoni di Arda al di là delle Ere, alla fine dei tempi.