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Autore: Anmami    17/12/2014    0 recensioni
Ritornai nel mio ranch e mi fermai sotto il portico a fissare l'orizzonte. Attesi l'alba e guardai il paesaggio che mi circondava.
La pianura e la riva del fiume Colorado, visibili dalla mia proprietà, si coloravano di una strana tonalità di arancione. Una mandria di cavalli selvaggi correva libera poco lontano ed un falco volteggiava sopra la mia testa salutando un nuovo giorno che nasceva.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Questa storia è un piccolo omaggio che voglio fare ad una persona molto importante per me che adora film western ed affini, ad un grande uomo che con sacrificio e amore ha cresciuto me e mia sorella. Per te papà, siamo uguali e per questo non facciamo che scontrarci, ma sappi che se sono quella che sono il merito è anche tuo. Ti voglio bene, anche se non te lo dico quasi mai.
 
SCELTE D'AMORE.

Chiudendo gli occhi potevo ancora udire chiaramente il suo grido straziante. L'immagine del suo volto distorto da quella smorfia di dolore mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Caroline, la mia bellissima Caroline, l'amore della mia vita. 
La sua unica colpa era stata quella di essersi innamorata di me, un farabutto ed un giocatore. Non avevo più toccato una carta da quella notte. 
Troppi i debiti, troppi i prestiti, troppi i miei pagherò. Per il mio stupido vizio avevo chiesto aiuto alle persone sbagliate ed alla fine era stata lei a pagarne le conseguenze. 

"Non ci restituisci i nostri soldi? Bene, noi ci prendiamo la cosa a te più cara come risarcimento." 

L'avevano violentata per ore, umiliata e picchiata senza che io potessi fare niente per impedirlo. Mi avevano immobilizzato su una sedia e costretto ad assistere mentre sfogavano su di lei, i loro più bassi istinti.
Quando furono soddisfatti ci lasciarono da soli, a cercare di ricomporre i pezzi della nostra vita andata in frantumi, a tentare di andare avanti.
Per lei, per la mia povera moglie, l'umiliazione era stata troppo grande e la vergogna per tutto ciò che aveva subito, insopportabile.
Una settimana più tardi della mia bellissima Caroline restava solo un corpo freddo e senza vita. Si era suicidata tagliandosi le vene con il mio rasoio da barba.
Dopo quella brutta storia lasciai la mia città, presi i miei risparmi e con la prima diligenza scappai via. 
Ero diretto in Colorado, nella cittadina di Donington Springs.
In quegli anni, gli scontri tra l'esercito degli Stati Uniti ed i nativi era nel vivo. Un uomo di trent'anni sano e forte come me avrebbe potuto servire con onore il suo paese, ma il mio unico desiderio era quello di comprare un piccolo ranch e qualche capo di bestiame e dedicarmi ad una vita tranquilla, coltivando e sopravvivendo grazie ai frutti della mia terra.
Arrivato a destinazione, fu molto semplice per me trovare un uomo disposto a vendermi il suo ranch. Era un cercatore d'oro, troppo impegnato da quella attività per occuparsi della sua terra.
Chiesi agli abitanti del posto notizie su quell'uomo e scoprii che il motivo della sua decisione di vendere era anche un altro. Nella parte più estrema della proprietà, vi era uno degli ultimi insediamenti Arapaho rimasti. Il capo tribù, Aquila Solitaria, aveva stipulato un accordo di pace e rispetto con il vecchio proprietario e, quando il cercatore d'oro lo scoprì, decise di sbarazzarsi immediatamente di quelle terre per paura di ripercussioni da parte dell'esercito.
Io non volevo problemi con nessuno. Volevo solo vivere in pace.
Passarono i mesi e né io né i membri della tribù sembravamo aver voglia di comunicare. 
A volte li osservavo dal mio portico e pensavo al loro modo di vivere, semplicità estrema, niente vizi, niente comodità. 
Una sera, mentre ero intento a leggere il libro preferito di Caroline, sentii bussare alla porta. Andai a controllare chi fosse piuttosto sorpreso, perché fino ad allora non avevo mai ricevuto visite e, quando aprii, lo stupore fu duplice. Davanti a me c'erano il capo con altri due membri della tribù e con loro una ragazza molto bella con dei lunghi capelli neri ed uno sguardo magnetico.
-Buonasera Signor Colbet. Io Piccolo Fiore. Lui mio padre Aquila Solitaria, capo tribù. Noi invitiamo te per festeggiare la Madre Terra. Siamo molto grati per tua ospitalità nelle tue terre e vogliamo ringraziare.- disse la ragazza.
-Buonasera a voi, io sono John Colbet. Vi ringrazio molto del vostro invito, ma ho molto da fare questa sera.- risposi io educatamente.
-Oh no mentire Signor Colbet. Noi osservato te. Tu sempre qui solo a leggere libri la sera. Prego, vieni con noi, solitudine non fa bene a spirito.-
Non so se furono le parole, o la piccola mano tesa della ragazza, ma alla fine accettai l'invito.
Mi avviai all'accampamento in mezzo alla tribù, l'unico punto di contatto tra me e gli altri era Piccolo Fiore. Ci sedemmo intorno al fuoco e ascoltai, rapito, Aquila Solitaria parlare delle sue gesta e dei suoi antenati. Ad essere sincero non capii nulla delle sue parole, ma fortunatamente potei contare su sua figlia per la traduzione.
Mi fecero assaggiare un infuso a base di erbe che mi dissero avesse proprietà curative per lo spirito e mangiai ciò che le donne della tribù avevano preparato per la festa.
Passai una bella serata, insolita, ma piacevole. Sempre meglio che rimanere a casa da solo a leggere.
A notte inoltrata salutai tutti e ringraziando per l'ospitalità, promisi che avrei ricambiato l'invito.
Ritornai nel mio ranch e mi fermai sotto il portico a fissare l'orizzonte. Attesi l'alba e guardai il paesaggio che mi circondava.
La pianura e la riva del fiume Colorado, visibili dalla mia proprietà, si coloravano di una strana tonalità di arancione. Una mandria di cavalli selvaggi correva libera poco lontano ed un falco volteggiava sopra la mia testa salutando un nuovo giorno che nasceva.
Non dormii quella notte, ma lo spettacolo al quale assistetti fece in modo che non avvertissi neanche il minimo accenno di stanchezza.
Dopo poche ore decisi di iniziare ad occuparmi della mia terra. Faticai molto quel giorno, non ero ciò che si dice un esperto di agricoltura, ma in qualche modo riuscii a ricavarne qualcosa.
Dopo pranzo mi riposai seduto per terra sotto il mio portico con il cappello a coprirmi il viso. Restai così fino a quando un rumore mi fece alzare di scatto.
-Signor Colbet, non volevo spaventare.- disse Piccolo Fiore.
Alzai gli occhi e notai che quasi tutti i membri della tribù erano impegnati con zappe, secchi, semi e piante.
-Che state facendo?- chiesi sorpreso.
-Oh, spero no fastidio. Noi visto in difficoltà. Noi aiutiamo a coltivare.- rispose lei sorridendomi.
-Beh grazie... ma perché lo fate?- 
-Tu gentile con noi, noi gentili con tu.-
Ascoltando il suo modo di esprimersi scoppiai in una sonora risata. Lei se ne accorse ed arrossì imbarazzata.
-Oh, non volevo essere scortese.- mi scusai togliendomi il cappello, come un gentiluomo farebbe davanti ad una signora.
-Io non parla bene lingua di uomo bianco, io prova. So leggere poco, so parlare poco, so scrivere poco. Piacerebbe imparare meglio, ma soldati no vuole che io frequenti scuola.- si giustificò lei visibilmente a disagio.
-Ti esprimi meglio tu di molti uomini bianchi che conosco. Cosa posso fare per sdebitarmi per l'aiuto che mi date nei campi?- chiesi io.
Lei si girò verso suo padre e pensai che stesse traducendo la nostra conversazione.
Lui mi guardò e scosse la testa come per farmi capire che non volevano nulla in cambio.
Poi rivolto a sua figlia disse qualcosa che lei subito dopo mi riferì.
-Capo Aquila Solitaria dice che tu fa tanto per noi, noi grati per tua ospitalità in tua terra. Non vuole nulla in cambio.-
-Beh ho un'idea. Lascia almeno che ti insegni meglio la mia lingua, ho molto libri, mi piace leggere. Se tuo padre è d'accordo, mi farebbe piacere, mi sentirei meno in debito.-
Lei mi ascoltò e riferì al capo. Lui abbassò il capo in segno di assenso e tornò dagli altri membri della tribù.
-Grazie John Colbet, tu molto gentile aiuta me.- disse lei, accompagnando quelle parole con un luminoso sorriso.
-Chiamami solo John va bene?- la pregai io.
-Bene John, sole sta tramontando, noi torna domani. Buonanotte.- mi informò lei.
-Buonanotte e grazie.- dissi salutandoli con una mano.
Guardai la figura esile di quella ragazza allontanarsi e non potei fare a meno di sorridere.
Passammo i mesi successivi così, io le davo lezioni e la tribù mi aiutava a coltivare la mia terra. Ormai mi sentivo anche io un membro di quella comunità.
Con Piccolo Fiore era tutto una sorpresa. Migliorava a vista d'occhio e scoprii la sua predilezione per Romeo e Giulietta. Mi insegnò molte cose sulle erbe, sulle stelle e mi parlò di tutte le leggende del suo popolo.
Cercò di insegnarmi anche qualche parola della sua lingua, ma il compito si rivelò molto arduo per quanto lei fosse un'ottima insegnate.
Dopo sei mesi capo Aquila Solitaria decise che era arrivato il momento della mia cerimonia.
Quel giorno Piccolo Fiore mi portò i vestiti che avrei dovuto indossare, un paio di strani pantaloni con le frange, fatti con la pelle di non so quale animale, una collana con un bizzarro amuleto ed un copricapo fatto di piume.
Indossai tutto e lei mi aiutò a dipingermi il viso con i colori tipici della tribù.
Guardandomi allo specchio notai come potessi benissimo essere scambiato per uno di loro e sorrisi di questo.
Arrivato all'accampamento la cerimonia iniziò. 
Ero circondato da fuoco, danze, canti e parole incomprensibili, tuttavia riuscii perfettamente a cogliere la solennità di quello che stava avvenendo intorno a me. 
Alla fine di tutto Piccolo Fiore mi disse di inginocchiarmi e Aquila Solitaria si avvicinò a me e, porgendomi una collana con una piuma bianca e nera e delle perline di osso, disse qualcosa che non riuscii a capire, ma che provocò la gioia negli altri membri della tribù.
Mi fece alzare stringendomi la mano e avvicinando la sua spalla alla mia in una specie di abbraccio.
Quando tutto fu concluso, Piccolo Fiore venne a sedersi  sul tronco dove mi ero accomodato io pochi minuti prima.
-Bene John Occhi di Ghiaccio, ora sei uno di noi.-
-Come scusa?- chiesi io confuso.
-Beh è quello che è appena successo, la collana che mio padre ti ha messo al collo è il simbolo della nostra tribù, ora sei un Arapaho anche tu. La comunità si impegna a riconoscerti come suo figlio ed a proteggerti e tu dovrai fare lo stesso. E poi se vorrai potrai anche prendere in moglie una di noi.- mi spiegò lei.
-Oh... per quanto riguarda la comunità ne sono felice, per la storia della moglie non credo di essere interessato... ho avuto una moglie, non penso di poter amare nessun'altra.-
-Ma una moglie non è per amore, una moglie è per continuare la discendenza.- disse lei lasciandomi basito.
-Ci credi sul serio?- chiesi io.
-Si, o almeno prima che tu mi facessi leggere Romeo e Giulietta ci credevo.- rispose lei sorridendo.
Dopo quella cerimonia tornai a casa felice.
La consapevolezza di non essere più solo al mondo ma di far parte di qualcosa di più grande, mi fece riposare bene quella notte.
Alle prime luci dell'alba, un forte odore di fumo mi svegliò invadendo le mie narici.
Mi alzai spaventato, pensando che la mia casa stesse andando a fuoco. 
Corsi fuori dalla mia stanza e guardandomi attorno mi accorsi che era tutto in ordine, mi infilai i pantaloni e uscii di casa cercando di capire cosa stesse succedendo.
Mi voltai verso l'accampamento e notai una colonna di fumo nero salire da quella zona. 
Non mi fermai a pensare nemmeno un minuto e mi avviai più in fretta possibile verso la tribù.
A pochi metri dall'accampamento la visione che mi trovai davanti mi fece gelare il sangue. 
Corpi senza vita, fiamme, fumo, sangue e desolazione.
Vagai tra i resti di quelli che erano i teepee, sperando di trovare ancora qualcuno vivo. Ad un certo punto una voce mi attirò verso un angolo isolato dell'accampamento.
-John Occhi di Ghiaccio vieni qui, prego, vieni qui.- Mi accorsi che a parlare era stato Aquila Solitaria. Era sdraiato per terra con un rivolo di sangue al lato della bocca ed un foro di proiettile sul petto. Mi avvicinai a lui e gli sorressi la testa con un braccio.
-John Occhi di Ghiaccio, mia figlia insegnato me poche parole tua lingua, tu cerca di capire me. Lei scappata, nascosta, no so dove. Trova lei prego, trova lei e aiuta. Prometti, io sto per morire, no proteggere più mia figlia, aiuta prego John Occhi di Ghiaccio io...-
-Capo Aquila Solitaria! Per favore! Svegliati!-
Scossi il suo corpo ripetutamente, ma senza risultato, ormai se n'era andato.
Restai in silenzio con ancora la sua testa tra le braccia e poi mi alzai e iniziai a guardarmi intorno, dovevo trovare Piccolo Fiore, dovevo mantenere la promessa, sperando che si fosse nascosta bene e che non fosse troppo tardi.
Vagai per ore, domandandomi ad ogni passo dove si fosse cacciata quella ragazza e soprattutto se fosse viva ed al sicuro.
Quando il sole stava per tramontare sulla valle, tornai a casa.
Aprii la porta e, rannicchiata in un angolo, addormentata su un tappeto, c'era Piccolo Fiore.
Sollevato per averla trovata mi avvicinai a lei e la presi tra le mie braccia, facendo attenzione a non svegliarla e la portai sul mio letto.
Dopo averla distesa sulle mie lenzuola, le adagiai addosso una coperta e restai quasi tutta lo notte seduto sulla mia sedia a dondolo ad osservarla.
Ad un certo punto della notte mi addormentai.
La mattina seguente un buon odore di cibo mi svegliò.
Aprii gli occhi e mi accorsi di essere sulla sedia a dondolo con addosso una coperta di lana.
Mi alzai e mi diressi in cucina, verso la fonte di quel buon profumo.
Una volta lì notai la tavola imbandita e Piccolo Fiore impegnata a prepararmi la colazione.
-Buongiorno.- dissi io imbarazzato.
-Buongiorno John.- rispose lei sorridendomi.
Il suo sorriso ed il suo comportamento mi sembrarono alquanto strani e fuori luogo visti gli avvenimenti del giorno prima, ma tuttavia cercai di assecondarla.
Mi sedetti a tavola ed iniziai a fare colazione. Ad un tratto lei si osservò allo specchio e notò delle macchie di sangue sul suo vestito. A quella vista impazzì.
Si accasciò per terra ed iniziò ad urlare sconvolta.
Pensai qualche secondo indeciso sul da farsi, ma poi mi avvicinai a lei e la abbracciai forte. Lei si lasciò andare ad un pianto disperato e restammo lì per terra per un bel po'.
Quando lei si riprese la feci accomodare su una sedia e pensai ad un piano. I soldati non ce l'avrebbero certo fatta passare liscia se avessero saputo della sua fuga.
-Piccolo Fiore dobbiamo fare qualcosa.- affermai io cercando di catturare la sua attenzione.
-Sono tutti morti John... voglio morire anch'io.- disse lei, sconsolata.
-Non dire idiozie, tuo padre mi ha fatto promettere di proteggerti in punto di morte ed io non ho nessuna intenzione di tradirlo. La comunità mi protegge ed io proteggo la comunità, ricordi?- cercai di farla riprendere.
-John, dovresti consegnarmi, i soldati ti cattureranno o peggio ti uccideranno.- fece lei spaventata.
-Nessun'altro morirà. Prima di tutto devi cambiarti quei vestiti, ho qualcosa di mia moglie in un baule, potrebbero andare. Seconda cosa il nome...- le consigliai.
-Cos'ha il mio nome?- domandò lei.
-Non ha nulla che non va, ma se vogliamo che nessuno ti scopra dobbiamo cambiarlo. Che ne dici di Florence? E' simile al tuo.- risposi.
-Florence eh...?-
-Bene, poi ci vuole una storia... potresti essere la figlia di un mio caro amico, lui è morto e ti ha affidata a me, che poi in un certo senso è la verità...- aggiunsi infine in tono triste.
-Mi fa male la testa con tutte queste idee.- disse lei portandosi una mano alla fronte.
-Florence, devi abituarti. Da oggi la tua vita sarà questa. Puoi provarci?-
-Posso provarci, non intendo disubbidire né farti disubbidire all'ultima volontà di mio padre.-
E così fu, da quel giorno Piccolo Fiore diventò Florence Gale, figlia di un mio caro amico morto per una brutta malattia. 
Da quel giorno iniziò un nuovo capitolo della nostra vita. 
Passarono i mesi e le cose sembrarono piano piano tornare alla normalità.
Andavamo spesso in città e la gente osservava con curiosità quest'uomo dall'aspetto rozzo con il cappello da cowboy e gli speroni accompagnato da quella ragazzina tanto bella quanto fragile.
Le persone avevano accettato la mia spiegazione senza troppe domande ed avevano accolto Florence con gioia.
I giovanotti per strada iniziarono ben presto a notare la bellezza della mia figlioccia ed ogni volta che uno di loro azzardava un complimento nei suoi confronti, io mi irrigidivo ed una strana gelosia mi metteva in subbuglio lo stomaco.
Ero certo che questo mio fastidio fosse provocato da un affetto paterno nei suoi confronti e mi convinsi che, al momento opportuno, avrei dovuto scegliere con cura il futuro marito di Florence. Aquila Solitaria non avrebbe voluto che affidassi la sua bambina al primo uomo comparso.
I giorni passarono diventando settimane che a loro volta si trasformarono in mesi ed i mesi in un anno.
Un anno era passato da quando il capo tribù mi aveva affidato la sua cosa più preziosa. Ed in quella triste ricorrenza mi trovavo con Florence sul mio porticato, io a suonare l'armonica e lei ad ascoltarmi osservando il tramonto sul fiume Colorado e il paesaggio intorno a noi diventare rosso come se fosse avvolto dalle fiamme.
Fiamme.
Al ricordo delle fiamme che avvolsero il suo villaggio, esattamente un anno prima, Florence si rattristò.
-Flò? Tutto bene mia cara?- chiesi smettendo di suonare.
Lei si appoggiò con la schiena alla trave che sosteneva il portico e tirando la testa indietro con gli occhi chiusi disse:
-Si, John, tutto bene. Solo non smettere di suonare, mi rilassa e scaccia i brutti pensieri. Come diceva mio padre: "la musica è la migliore medicina per lo spirito".-
-Era molto saggio, avrei voluto essere un amico migliore per lui.- affermai io, con rammarico.
-Oh lui aveva molta stima di te, ti ha affidato la sua cosa più preziosa. Credeva in te, non dimenticarlo.-
-La comunità mi protegge ed io proteggo la comunità.- dissi io sorridendole.
-Giusto e tu facevi parte e fai ancora parte di essa.-
-Flò ho una cosa importante da discutere con te... il figlio del signor Jennings pende dalle tue labbra.- 
-Si, Ronald è simpatico.- fece lei distrattamente.
-Oh bene, sono contento di sentirtelo dire, perché è venuto a chiedermi il permesso per farti la corte. Cosa ne pensi?-
-Nella mia cultura è il padre che decide se un uomo è giusto o meno per sua figlia, io sono affidata a te, sta a te decidere John.-
-Beh mi sembra un bravo ragazzo, potrebbe prendersi cura di te.- affermai io sistemandomi il cappello.
-Tu ti prendi cura di me.- disse Flò alzando le spalle.
-Penso che domani andremo in città e gli comunicherò la mia decisione. Gli darò il permesso di corteggiarti e lo inviteremo a cena, così vi potrete conoscere un po' meglio.-
-Bene, ora se non ti dispiace vorrei andare a letto.- disse lei con aria sconfitta.
-Certo cara, buonanotte.- le risposi soddisfatto.
Ero convinto che quella fosse la scelta migliore per lei, aveva bisogno di un giovane innamorato e di creare una sua famiglia. Magari non erano proprio questi i piani che si era fatta per il suo futuro, ma la vita è imprevedibile.
Restai ancora ad osservare l'ultimo spiraglio di sole che si nascondeva oltre la linea dell'orizzonte e poi entrai in casa e mi infilai a letto.
La mattina seguente dissi a Florence di indossare il suo abito più bello, prendemmo il carro e andammo in città per dare la notizia al giovane Jennings.
-Ronald, sono qui per darti il permesso di corteggiare la mia figlioccia ed a questo proposito saremmo lieti di averti a cena al nostro ranch questa sera.-
-Oh gr-grazie signor Colbet, sono molto felice di questa sua decisione, vedrà che non se ne pentirà.- disse il ragazzo stringendo la mia mano energicamente e sorridendo a Florence che rispose con un sorriso tirato.
Lui si avvicinò a lei facendole un baciamano e porgendole una margherita. Lei ringraziò forzatamente e gli diede appuntamento a quella sera.
Il viaggio di ritorno fu molto silenzioso.
-Beh, mi pare che sia andata bene, non trovi?- dissi io per rompere quel silenzio imbarazzante.
-Già, molto bene. Immagino che ora sarete molto felici tu e Ronald.- rispose Flò.
-Tu non sei felice?- chiesi tirando le redini e fermando il carro.
-Felice? Guardami John! Ti sembro felice? Avevi già deciso ancora prima di chiedere il mio parere. Io mi chiamo Piccolo Fiore e sono della tribù degli Arapaho! Nessun uomo bianco potrà accettarlo. Dovrò passare la vita a fingere di essere Florence Gale. Che poi da dove è saltato fuori il cognome Gale?-
-Mia moglie. Era il suo cognome da nubile. Ora torniamo a casa, abbiamo una cena da preparare.-
Lei annuì e la conversazione finì com'era cominciata, nel silenzio più totale.
Poche ore più tardi Ronald bussò alla nostra porta portando dei sigari in dono per me ed un delizioso cappellino rosa per Florence. Lei parlò molto poco quella sera e continuò a dimostrarsi diffidente nei confronti di quel povero ragazzo che per l'occasione aveva fatto il bagno, indossato il suo completo della domenica e si era immerso nella colonia.
A fine serata dopo averlo salutato provai a chiarire la situazione con Flò, ma lei non volle parlarmi né starmi a sentire. 
Il corteggiamento durò circa sei mesi al termine dei quali Ronald venne da me a farmi la fatidica domanda.
-Signor Colbet, sono qui per chiederle la mano di Florence.-
Ed io non potei fare altro che accettare.
La sera stessa lui lo comunicò a Flò facendole dono di un anello appartenuto alla sua defunta nonna, un cimelio di famiglia. Lei con falsa gioia, dopo aver ringraziato il ragazzo, si ritirò nella sua stanza fingendosi spossata per la grande emozione.
Quando Ronald tornò a casa passai davanti alla porta della stanza di Florence e la sentii singhiozzare.
Bussai ed entrai a controllare che stesse bene.
-Flò? Stai bene?- chiesi titubante.
-No. John come puoi pensare che io stia bene?- disse tra le lacrime.
-Ne abbiamo già parlato. E' per il tuo bene, è un bravo ragazzo, potrà prendersi cura di te.-
-Ed io ti ho già detto che tu ti prendi cura di me!-
-Io non posso prendermi cura di te allo stesso modo in cui potrà farlo lui, come marito.-
-E perché no?- chiese lei mettendosi a sedere sul suo letto.
-Perché tuo padre mi ha chiesto di occuparmi di te.-
-Appunto!- disse lei quasi urlando.
-Florence! Cerca di capirmi...-
-No John! Tu cerca di capire me! Io sono l'ultima rimasta della mia tribù. Tu ricordi cosa ti dissi la sera della tua cerimonia? Ti dissi che ora che facevi parte della comunità avresti potuto scegliere una donna e farla diventare tua moglie. Eccomi, sono l'ultima rimasta. Ma non devi scegliermi solo per questo, devi scegliermi perché non potrò mai amare Ronald quanto amo te.-
-Florence, tu sposerai Ronald ed io ti starò accanto come tuo padre. Fine della discussione.-
Uscii dalla stanza, con un nodo in gola, lasciandola lì sola a piangere. 
Lei mi amava. Amava me, questo uomo rozzo e solitario con il cappello e gli speroni e forse anche questo uomo rozzo e solitario amava lei allo stesso modo e non come avrebbe dovuto, come aveva promesso a suo padre in punto di morte.
Non dormii quella notte e riposai male e poco per le sessanta notti successive, fino a che non arrivò il giorno del matrimonio di Florence e Ronald. 
Tutta la città era stata invitata e tutti erano molto felici di condividere la gioia di questi due giovani.
Avevo preso la mia decisione, avrei aspettato la fine della cerimonia prima di parlare con Florence.
Quando il Reverendo Simmons li dichiarò uniti in matrimonio capii che era arrivato il momento.
Aspettai che i festeggiamenti per i novelli sposi fossero nel vivo e chiamai in disparte Flò.
-Ho bisogno di parlarti.- dissi senza far trasparire nessuna emozione.
-Ti ascolto.- rispose con lo stesso mio tono freddo.
-Ti amo e non dovrei. Quindi questo è un addio.- dissi senza giri di parole né abbellimenti che avrebbero potuto rendere meno dolorosa e scomoda quella verità.
La baciai velocemente sulle labbra, mi voltai e me ne andai senza ascoltare le sue suppliche perché sapevo che se l'avessi guardata ancora una volta avrei sicuramente cambiato idea.
Infilai il mio cappello e salii sul mio cavallo dirigendomi verso l'orizzonte.
Avevo promesso di prendermi cura di lei ed ero sicuro di aver fatto la scelta giusta, Ronald era la scelta giusta. Lui l'avrebbe amata e protetta, molto di più di questo giocatore d'azzardo, di questo uomo rozzo e solitario con il cappello e gli speroni.
  
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