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Autore: Ysera    18/12/2014    0 recensioni
"Passarono i giorni e continuai ad aspettarlo, portando la foto sempre con me, in attesa di restituirgliela e di poter osservare nuovamente i suoi occhi spenti ma più espressivi di mille parole.
Però, non rividi mai più quell’uomo in giacca e cravatta dall’aria vagamente trasandata."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni mattina come se quel posto fosse riservato esclusivamente a lui, l’uomo in giacca e cravatta dall’aria vagamente trasandata si sedeva accanto a me. Sembrava avere intorno ai trentacinque anni, a giudicare dai capelli bianchi disseminati nella folta chioma nera e dalle prime rughe che cominciavano a segnargli il viso. Erano mesi che andava avanti così: dove mi sistemavo io, si sistemava anche lui. La cosa non mi piaceva. Scendeva una fermata prima della mia e ogni volta non riuscivo a non sentirmi in un certo senso affrancata: finalmente potevo sciogliere la tensione e il disagio che la sua presenza mi provocava. L’unica cosa che mi tratteneva dal fuggire via urlando, in quei momenti, era la mia amata musica. La soluzione a tutto: cuffiette e Linkin Park a tutto volume.
Talvolta, mentre guardavo fuori dal finestrino, riuscivo a scorgere il viso dell’uomo con la coda dell’occhio e mi accorgevo che mi fissava. Impossibile descrivere la sensazione d’orrore che mi riempiva il cuore -insieme ai brividi che mi percuotevano il corpo- in quegli istanti. A volte, tornata a casa, piangevo. “Perché? Perché proprio io? Cosa vuole da me?” mi chiedevo.
Avrebbe finito per farmi del male, un giorno? Se sì, quanto avrebbe fatto durare quella snervante attesa? Altrimenti, cosa lo spingeva ad avere un interesse così maniacale e silenzioso nei miei confronti? Credeva davvero di passare inosservato?
Ciò che più mi feriva era sapere che i miei, essendo solo sospetti, non mi permettevano di denunciarlo poiché non avevo nessun genere di prova tra le mani... per ora.
Anche se cambiavo posto lui era sempre lì, accanto a me, come un’ombra disperata in cerca del suo corpo d’appartenenza. Non potevo fare altro che reggere il suo gioco, stringere i denti e andare avanti.
 
«Mi dispiace per la tua perdita, James».
In una mattina particolarmente nebbiosa, questa frase mi colpì profondamente, turbandomi non poco. Un signore piuttosto anziano stava parlando con l’uomo in giacca e cravatta che, come di consueto, sedeva accanto a me.
«Non preoccuparti» rispose, sfoderando un sorriso malinconico.
«Anne era una brava ragazza, non fartene una colpa. Ti auguro il meglio dalla vita. Ci vediamo e ricorda: non hai fallito come padre» continuò l’anziano signore, stringendo la mano del signor James, prima di scendere dal pullman.
Mi dispiace per la tua perdita, James”, quelle parole continuavano a rimbombarmi in testa e finirono per  provocarmi la nausea.
Ero quasi completamente immersa nella lettura quando ero stata attratta dalla conversazione dei due uomini. Desiderai di non aver dimenticato le cuffie a casa, quel giorno.
Questa volta fui io a fissare l’uomo. Aveva dei grandi occhi grigi, gonfi e arrossati. Sulla mascella squadrata si disperdeva una scura barba mal rasata e le labbra, sottili, erano curve in una smorfia di tristezza. Rimasi a osservarlo finché non scese; non sapevo bene il perché, ma improvvisamente mi sentii triste e vuota. Sospirai e decisi di rimettermi a leggere. Quando abbassai lo sguardo, però, mi accorsi che sul sedile di fianco al mio c’era qualcosa. A occhio e croce sembrava essere una cartolina. Mi avvicinai per guardarla meglio e realizzai che era una foto. La presi. Vi era ritratta una ragazza piuttosto giovane, dai lunghi capelli castani e dai grandi occhi grigi, abbastanza magra e sorridente. Deglutii quando mi resi conto che mi somigliava spaventosamente: gli unici elementi che differivano erano il colore degli occhi e la lunghezza dei capelli. Girai la foto e ne lessi la scritta che si trovava sul retro:
Anne J. Smith; o7/04/1996 – 04/11/2013.
                                          Non ti dimenticherò mai, bambina mia.
D’un tratto, con un nodo alla gola, compresi: compresi il perché degli sguardi dell’uomo, compresi il motivo della sua continua ricerca della mia presenza, compresi la causa del suo sorriso spento e compresi il suo dolore.
Ricorda: non hai fallito come padre.
Il pullman stava per ripartire quando afferrai in fretta lo zaino e feci segno all’autista di aspettare un secondo, catapultandomi fuori. L’aria fredda mi trafisse la pelle come un milione di piccoli e gelidi aculei. Cominciai a correre, facendomi strada tra la folla, nella speranza di trovarlo, ma invano. Dovevo riconsegnarli ciò che gli apparteneva di diritto, l’unico ricordo di una vita spezzata da un male a me sconosciuto.
Passarono i giorni e continuai ad aspettarlo, portando la foto sempre con me, in attesa di restituirgliela e di poter osservare nuovamente  i suoi occhi spenti ma più espressivi di mille parole.
Però, non rividi mai più quell’uomo in giacca e cravatta dall’aria vagamente trasandata.
   
 
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