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Autore: The Writer Of The Stars    18/12/2014    5 recensioni
" ... Bulma sorrise leggermente, pensando a quanto Vegeta fosse talmente influente nella sua vita, da entrare addirittura in discorsi come la matematica. Ma infondo, adesso grazie a lui, ha capito un po’ meglio la solitudine dei numeri primi. Per quanto ci provi, l’anima di Vegeta resterà sempre quella di un ragazzo che è cresciuto nella solitudine, e che la ama senza riserve. Ma magari, adesso possono provare ad essere soli insieme. Lui e lei. Vegeta e Bulma. E si, anche quel bambino che adesso porta in grembo, che Vegeta ancora non sa, ma un giorno lo chiamerà papà. Ci vorrà solo del tempo. Ed intanto, mentre aspetta Vegeta, possono provare a farcela da soli. Lei e il suo bambino. Alzò lo sguardo, sorridendo verso il cielo terso. Con un po’ di fatica, sapeva rialzarsi da sola."
One shot su Vegeta e Bulma. (Il titolo fa riferimento all' omonimo romanzo di Paolo Giordano)
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Time after time ...'
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Del momento in cui Vegeta se ne era andato, Bulma ci aveva capito ben poco. In un primo momento non aveva pensato a niente; era semplicemente rimasta a fissarlo senza dire niente. Lo aveva osservato salire a bordo della navicella, lanciarle un’occhiata veloce ed indecifrabile prima che il portellone dell’astronave si chiudesse con un tonfo metallico. Aveva visto la navicella sollevarsi in aria dal terreno, scuotendo l’erba sotto di sé, e piano piano allontanarsi verso l’alto, sparendo poco dopo nella notte, perché lui aveva deciso di partire al buio. Lontano dalla luce, dagli occhi di tutti. Ma soprattutto dagli occhi di lei. Bulma invece ha voluto assistere ad ogni costo alla sua partenza. In silenzio, senza dire niente. Senza muoversi, senza piangere o cercare di fermarlo, perché tanto sapeva sarebbe stato inutile. Quando quella mattina era corsa a cercarlo nella Gravity Room, tutto si sarebbe aspettata che di scoprirla vuota. Dopo attimi di smarrimento, lo aveva finalmente visto entrare all’interno del trainer gravitazionale con un asciugamano blandamente abbandonato sulle spalle e una bottiglietta d’acqua tra le mani. A vederlo, gli occhi di Bulma si erano illuminati e l’euforia di pochi attimi prima era spuntata fuori nuovamente, divorandola. Guardandola, Vegeta le aveva chiesto duramente cosa ci facesse lì, e lei aveva risposto dicendo solamente che doveva parlargli urgentemente. Non sembrava arrabbiata, anzi era euforica, quasi … felice. Gli occhi di Vegeta si erano assottigliati e nello scrutarla, aveva intravisto nelle sue iridi uno strano luccichio.

“Devo dirti una cosa importante …” aveva cominciato lei, cercando di mantenere la calma.

Vegeta l’aveva subito interrotta, dicendole che anche lui doveva parlarle di qualcosa di urgente. Bulma si era perciò zittita, prestandogli tutta la sua attenzione. Che avesse saputo?

“Parto.” Basta, veloce e conciso, come solo lui sapeva essere. Bulma aveva udito il cuore arrestarsi e per un attimo aveva temuto stesse per svenire.

“C – come parti? Ma, dove …” aveva balbettato incredula.

“Devo andarmene da qui. Ho bisogno di allenarmi e questo non è certo il posto adatto. Ci sono troppe distrazioni …” aveva detto, facendo riferimento a Bulma  “se non me ne vado non riuscirò mai a diventare un Super Sayan.” Aveva concluso con ovvietà, quasi fosse una cosa normale.
Bulma sentiva la gola secca e le lacrime pungerle gli occhi, ma mai si sarebbe concessa il lusso di piangere. Non davanti a lui.

“E – e dove andrai?” non aveva potuto evitare di chiedere. Lui le aveva risposto che sarebbe andato in giro per lo spazio, e che comunque non erano affari che la riguardavano. Ingoiando un groppo di saliva troppo grande, Bulma aveva serrato gli occhi, scuotendo la testa.

“Quando parti?” aveva chiesto infine, con voce stranamente ferma.

“Stanotte.” Un’altra pugnalata, dritta al cuore, precisa ed affilata.

Per alcuni attimi stettero entrambi in silenzio. Vegeta era calmo, sembrava quello di sempre. Sarebbe solo partito quella notte, per lui che differenza c’era? Pensava, cercando di non ammettere che diamine, quella terrestre gli sarebbe mancata. Ostentando una calma e una freddezza degna del miglior assassino della galassia, le aveva chiesto alla fine ciò che più gli premeva da quando l’aveva vista nella Gravity Room pochi minuti prima.

“Allora? Cosa c’era di così importante che dovevi dirmi? Ti consiglio di sbrigarti, perché non ho alcun tempo da perdere con te.” Era stato duro e diretto, come sempre, anche se in verità, nelle sue parole si celava un piccolo strato di curiosità.

Bulma aveva abbassato lo sguardo verso il pavimento, serrando gli occhi. Le braccia incrociate dietro la schiena avevano tremato vistosamente, ma Vegeta aveva fatto finta di non vederle. Bulma strinse con forza il bastoncino che teneva serrato tra le mani, nascosto dietro la schiena, dove una lineetta blu, una minuscola lineetta azzurra, le confermava l’esistenza del dono più grande che la vita e Vegeta avrebbero mai potuto farle. Il test di gravidanza urlava per essere mostrato, ma Bulma non lo ascoltò. Alzò timidamente lo sguardo, puntando le iridi azzurre e colme di lacrime in quelle scure di Vegeta e sorridendo amaramente.

“Lascia stare. Non era poi così importante …”
 


Che forse non dirgli niente del bambino sia stata la cosa più giusta, non lo sa. Magari se glielo avesse detto, Vegeta sarebbe rimasto con lei, avrebbe accettato di crescere insieme il loro bambino. Bah, stupidaggini. A Vegeta non importa niente di lei, altrimenti quel giorno nella Gravity Room avrebbe indagato un po’ più a fondo, non si sarebbe fermato a quel “lascia stare, non era poi così importante” perché, diamine, lo era e come importante. Che magari di fronte alle sue lacrime non le avrebbe voltato le spalle, ma l’avrebbe cinta in un abbraccio rude e possessivo, perché Vegeta non è in grado di abbracciare nessuno. Glielo avrebbe insegnato lei, ad abbracciare. Gli avrebbe insegnato lei a stringere a sé qualcuno, a restare al suo fianco a letto dopo aver fatto l’amore e non a scappar sempre, come era più semplice. Gli avrebbe insegnato a cullare un bambino, gli avrebbe fatto scoprire la bellezza e la meravigliosa sensazione di amare ed essere amati. Gli avrebbe fatto scoprire come è bello stare stretti l’uno accanto all’altra avvolti da qualche coperta mentre fuori piove e si gela, parlando di tutto senza in realtà dire niente. Gli avrebbe insegnato ad amare. Ma stava parlando di Vegeta, e la cosa era alquanto impossibile. Inutile farsi film mentali; Vegeta se ne era andato.
Appena Vegeta se ne era andato, la prima cosa che aveva fatto era stato sedersi in terra. Faceva freddo,c’era anche la neve, ma non se ne era nemmeno accorta. La neve scricchiolava sotto il suo peso e non appena si sedette in terra, avvertì subito lo sbalzo di temperatura e le era parso che il suo fondoschiena si fosse congelato. Poi non ci aveva fatto caso, e si era spostata un po’ più indietro, poggiando la schiena sulla corteccia del grande ciliegio in giardino, quello dove da piccola saliva sempre, come suo padre le aveva insegnato. Si ricordava di come era bello saltare da un ramo ad un altro e salire, salire sempre più in alto, lasciandosi dietro tutto il resto del mondo. Arrivare in cima, guardare tutto quanto dall’alto e pensare, nella propria piccolezza, di essere i padroni del mondo, da lassù. In quel momento, decise che non appena suo figlio sarebbe stato grande abbastanza, gli avrebbe insegnato a salire sul ciliegio, perché quel ciliegio era importante. Suo padre lo aveva piantato il giorno della sua nascita, ventisei anni prima, e da allora era cresciuto con lei. Lei e il ciliegio erano cresciuti insieme, ed era stato bello, perché in due ogni cosa diviene più bella. In due, niente fa paura. Alzò lo sguardo verso le fronde del ciliegio, scoprendole stracolme di neve, ma non per questo meno belle. Fu forse guardando tutto quel bianco intorno a lei, ascoltando il silenzio che la circondava, che la chiave di tutto si palesò dinanzi ai suoi occhi, in una pura e semplice verità. Vegeta era solo.

Si era appassionata alle scienze, che era ancora una bambina. Si ricordava di quella volta quando – quanti anni aveva? Sei, forse sette – sfogliando un libro di matematica si era imbattuta in un capitolo che aveva attirato tutta la sua attenzione. “Capitolo 6: I Numeri Primi, pagina 46”, se lo ricordava ancora e se avesse fatto un piccolo sforzo in più, le sarebbero venute in mente anche le righe precise, la calligrafia e l’odore di inchiostro che quel vecchio libro di suo padre emanava. “In matematica, un numero primo  è un numero naturale maggiore di 1 che sia divisibile solamente per 1 e per sé stesso.” La definizione era stata così diretta e chiara, che subito le era rimasta impressa nella mente. Da quando li aveva scoperti, si era innamorata della matematica. I numeri primi la attiravano, la interessavano e la rendevano vogliosa di passare interi pomeriggi a cercare di imparare il maggior numero di primi, perché a lei piaceva scoprire cose nuove. Aveva sviluppato una sorta di attaccamento, quasi ossessione, verso quel ramo della matematica. Si era affezionata ai numeri primi, tanto che aveva preso a chiamarli confidenzialmente “numeri solitari”, perché da piccola se ne era accorta. I numeri primi possono dividersi solo per uno e per sé stessi. I numeri primi sono soli, e la solitudine alle volte è bella, ma non faceva per lei. Lei aveva bisogno di stare a contatto con la gente, di chiacchierare e chiacchierare senza fermarsi mai, di ridere, di scherzare, di vivere con qualcuno. Era sempre stato così, fin da piccola, e sempre lo sarebbe stato. Vegeta invece era sempre stato solo. Vegeta ero cresciuto senza nessuno, tirando avanti, combattendo e uccidendo come quella lucertola gli ordinava. Vegeta conduceva una vita orribile, divisa tra sangue, odio, distruzione, e soprattutto solitudine. Perché in tutto questo Vegeta era solo, solo come un numero primo. Ma poi in realtà, a furia di stare da solo, si era affezionato alla solitudine. Vegeta si era innamorato della solitudine, perché quando era solo non c’era nessun altro, perché quando era solo nessuno poteva dirgli cosa fare, cosa dire o come comportarsi. Vegeta amava la solitudine. Vegeta era come un numero primo. E Bulma amava i numeri primi. Ma soprattutto, amava Vegeta. E forse proprio perché lo ama non ce l’ha tanto con lui per essersene andato. Da quando Bulma era entrata nella sua vita, Vegeta aveva scoperto che esiste un’altra dimensione oltre alla solitudine. E che quella dimensione ha due occhi color del cielo e capelli come l’oceano più limpido. Che quella dimensione non è in grado di restare più di due minuti in silenzio perché è più forte di lei, deve vivere. Che quella dimensione sprizza vitalità e gioia da tutti i pori, e che per quanto fastidiosa e tediante possa essere, non si stancherebbe mai di ascoltarla. E si, che lui di quel mondo si era innamorato, senza rendersene nemmeno conto.  Per questo aveva avuto paura; lui, fedele compagno della solitudine, si era lasciato sedurre dalla bellezza della compagnia di quella terrestre dai colori assurdi. Lui non poteva tradire la solitudine, lui era nato per essere solo. Lui era convinto di ciò, perciò se ne era dovuto andare,spaventato da quel calore che gli invadeva il cuore ogni qualvolta Bulma comparisse dinanzi ai suoi occhi. L’amore significava essere in due, ed essere in due gli faceva paura. Perciò era scappato via, desideroso di ritrovare la sua tanto amata solitudine, lontano da quegli occhi color del malre,un po’ troppo grandi e sinceri. Dopo anni di solitudine, l’amore fa paura, Bulma l’aveva capito. E allora infondo, non è colpa sua, non è colpa di Vegeta. lui si era solo innamorato, per la prima volta in tutta la sua vita, e aveva fatto ciò che un figlio della solitudine avrebbe fatto; scappare e tornare ad essere solo. Bulma sorrise leggermente, pensando a quanto Vegeta fosse talmente influente nella sua vita, da entrare addirittura in discorsi come la matematica. Ma infondo, adesso grazie a lui, ha capito un po’ meglio la solitudine dei numeri primi. Per quanto ci provi, l’anima di Vegeta resterà sempre quella di un ragazzo che è cresciuto nella solitudine, e che la ama senza riserve. Ma magari, adesso possono provare ad essere soli insieme. Lui e lei. Vegeta e Bulma. E si, anche quel bambino che adesso porta in grembo, che Vegeta ancora non sa, ma un giorno lo chiamerà papà. Ci vorrà solo del tempo. Ed intanto, mentre aspetta Vegeta, possono provare a farcela da soli. Lei e il suo bambino. Alzò lo sguardo, sorridendo verso il cielo terso. Con un po’ di fatica, sapeva rialzarsi da sola.
 

Nota autrice:
salve gente! Che dite, non vi mancavano le mie one shot?  Credo di no … ;) comunque, dopo la pegir settimana della mia vita passata tra compiti in classe ed interrogazioni (l’ultimo oggi, compito in classe di greco -­_-) ho finalmente trovato il tempo per scrivere! Questa one sot è una cosa un po’ così, ispirata dal romanzo “la solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano (ho solo letto spezzoni sul mio testo di antologia ma confido nel cominciare il romanzo al più presto, giacché già lo adoro) . e niente, come avete notato questa storia è ambientata nel periodo antecedente l’arrivo dei Cyborg, subito dopo l’abbandono di Vegeta, che nella mia storia, avete notato non sa niente della gravidanza di Bulma, perciò non è quella la causa scatenante del suo abbandono. Bene, credo di aver terminato. Vi ringrazio per aver fatto un salto a leggere questa cosa, e in attesa di recensioni, vi ringrazio già da ora per l’attenzione! Aspetto recensioni! ;)
alla prossima
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