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Autore: ElaSmoakQueen    18/12/2014    5 recensioni
Piccola OS su come potrebbe reagire Felicity nella 3x10. ATTENZIONE SPOILER!!
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dinah 'Laurel' Lance, Felicity Smoak, John Diggle, Roy Harper
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Salve! 
Piccola OS su come potrebbe reagire Felicity alla notizia della "morte" di Oliver. Mi ha ispirato una fanart trovata sul web dove vediamo una Felicity seduta per terra che indossa la giacca del costume di Oliver/Arrow. Mi ha fatto tanta tenerezza e ho partorito questa cosa xD Spero possa piacervi! 
Buona lettura!

Ela.

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Perché continuavano a toccarmi? Perchè sentivo le loro mani sulle mie braccia, sulle mie mani? E le loro voci tristi e compassionevoli che continuavano a chiamarmi.
“Lasciatemi in pace”, avrei voluto gridare.
Ma tutto quello che riuscii a fare fu girare la testa a destra, aprire e chiudere gli occhi, riconoscere il viso di Diggle; poi la girai alla mia sinistra, aspettai che la vista tornasse limpida e riconobbi il viso di Roy. Mi guardavano.. mi guardavano come se fossi un oggetto prezioso che avrebbe potuto rompersi da un momento all’altro. Ma c’era una cosa che non consideravano: ero già rotta.
Dentro di me non sentivo più nulla, solo il vuoto più assoluto. Come se qualcuno avesse aperto la porta del mio cuore e avesse fatto uscire tutto fuori. Tutti i sentimenti spariti. Andati.
Portai gli occhi alla teca di vetro, la sua divisa era lì. O meglio, quasi tutta. Mancava la giacca. Dov’era? Perchè era sparita?
Non sapevo darmi una risposta. Era lì cinque secondi fa.
- Felicity – sussurrò Diggle, mentre ancora mi teneva ferma per un braccio. – Roy, tienila. – disse ancora.
Notai un leggero movimento del capo alla mia sinistra, qualcuno obbediva silenziosamente.
- E’ ancora sotto shock, John. Non dovremmo farla sedere? Farla calmare? – disse il ragazzo, marcando il tono sull’ultima parola.
Sapevo cosa significava: sedativi. Volevano sedarmi per paura che andassi in crisi, quella crisi che ancora non avevo raggiunto. Chissà come mai, poi. Proprio io, emotiva e schietta com’ero.
- Vieni, siediti! – disse Diggle, cominciando a muoversi per accompagnarmi alla mia postazione.
Ma nell’istante stesso in cui mi girai, l’occhio mi cadde su quel tavolo argenteo e freddo. Quel tavolo su cui, molte ore prima, era poggiata quella misera borsa.. e che me l’aveva portato via. Strattonai il braccio e mi divincolai da quella presa ferrea. Finalmente, ero libera.
Camminai all’indietro fino a sbattere, col fondoschiena, contro il tavolo con lo schermo più grande di tutto il covo.
Il covo. Cosa sarebbe stato ora? Come l’avremmo chiamato? L’avremmo frequentato ancora?
Scacciai dalla mente tutti quei pensieri e quelle domande.
- Felicity, ti prego, sei sotto shock. Hai bisogno di calmarti. Vieni qui! – mi disse Diggle, tendendo una mano verso di me. Voleva che lo raggiungessi. Ma io non lo feci.
E parlai. Con una voce più ferma di quello che pensavo.
- Non ho.. bisogno di nulla! Scusate! – dissi e mi avvicinai alle scale.
Ma Diggle e Roy furono più veloci. Ma cosa pensavo? Che un ex-militare, ora guardia del corpo di.. lui, e Roy il suo aiutante, non mi avrebbero fermato? Illusa.
Ma no, gli illusi erano loro. Io non potevo restare un altro minuto là dentro.
- Lasciatemi!! Vi prego, devo andarmene! – dissi. E non so cosa lessero sul mio viso, perché il loro sguardo seppur triste e preoccupato, era anche consapevole. Consapevole di non potermi negare la libertà di reagire come volevo, di piangerlo come volevo.
Salì le scale di corsa, nonostante i tacchi mi rendessero la cosa non proprio facile. Arrivai alla porta e mi ritrovai nel locale, quel locale pieno di gente che si muoveva e si strusciava, ed era troppo interessata a scambiarsi effusioni per accorgersi di una piccola ragazza che passando tra loro a gran velocità stringeva tra le sue braccia una giacca. Di pelle. Verde.
Mi infilai nella mia Mini Rossa e sfrecciai, come guidata da un navigatore, per le strade di Starling senza sapere di preciso dove fossi diretta.
Parcheggiai dopo un quarto d’ora, salii la gradinata ed entrai in quelle massicce porte a vetri che riflettevano la mia immagine. Nascosi la giacca sotto il mio soprabito, ben consapevole di quanto si vedesse che stessi stringendo qualcosa, ma avevo bisogno di sentirla contro di me. Sulla mia pelle. Usai il mio budge e salii fino a quel piano. Fino a quella piccola stanza.
Non era più il mio ufficio da ben due anni. Ma era tutto come lo ricordavo, tranne per il mio tipico tocco.
Quella scrivania dove, anni prima, un pc era stato poggiato lì. Crivellato di colpi. Ed io che lo guardavo stringendo una penna rossa. Una penna rossa.
Mi accasciai contro la parete e mi lasciai scivolare, finché al contatto col freddo pavimento mi resi conto che stavo singhiozzando. Avevo il viso in fiamme, la guance inondate dalle mie lacrime incessanti, gli occhi che mi bruciavano e la testa che rischiava di scoppiarmi da un momento all’altro.
E poi guardai le mie mani, sulle mie gambe, ma non le vedevo. Erano coperte dal tessuto verde della giacca di Arrow. Il mio Arrow.
Avvicinai l’indumento al viso e inalai. Inalai quel profumo di uomo, misto a dopobarba e con un retrogusto selvaggio. E fu lì che scoppiai.
Emisi un grido talmente forte, acuto ed angosciante che non loriconobbi nemmeno come mio. Mi strinsi al petto quella giacca, l’unica cosa che ormai mi restavadi lui. Di.. Oliver.
Come avevo potuto lasciarlo così? Come avevo potuto non rispondere al suo “Ti amo”? Come avevo potuto non abbracciarlo prima di lasciarlo andare ad affrontare quel duello?
Avrei dovuto corrergli incontro, fermarlo e guardarlo negli occhi. Avrei dovuto dirgli che lo amavo anch’io e avrei dovuto stringerlo a me. Avrei dovuto poggiare le mie labbra sulle sue. Avrei dovuto farlo mio, almeno in quell’istante.
E invece no, non l’avevo fatto. Perché, adesso, il dolore della sua perdita sarebbe stato più forte. Più distruttivo. E perchè, già da qualche mese, non ero più sua. E lui non era più mio. Anche se mi amava.. anche se lo amavo. Aveva scelto Arrow e proprio l’eroe, quella parte di lui che avevo contribuito a far brillare dentro e fuori di lui, me l’aveva portato via. Strappato prepotentemente. Lasciandomi solo il ricordo di quello che era stato, seppur breve, e lasciandomi il pensiero di quello che avrebbe potuto essere.
Ero ancora lì, seduta per terra, quando dei passi lontani e delle voci raggiunsero le mie orecchie. Uomini. Una voce la conoscevo benissimo, era il mio nuovo capo. E non era proprio il caso che mi vedesse in quello stato con, tra le mani, la giacca di una divisa ormai troppo nota alla città.
Mi alzai, nascondendo ancora una volta la giacca sotto il mio soprabito, e raggiunsi a grandi passi gli ascensori. Feci appena in tempo a fermarne uno al volo al mio piano che Ray e il capo delle guardie, si affrettavano nella mia direzione. Inchiodai il mio sguardo in quello del mio capo e scossi la testa. Non ci fu bisogno di vedere la sua mano che fermava il capo delle guardie e la sua bocca che pronunciava parole di “spiegazioni varie”.
Ritornai alla mia auto, altro oggetto intriso di uno dei ricordi più vividi che avessi: Arrow ferito nella mia auto che mi chiedeva aiuto. Che si rivelava a me. Perché si era fidato di me.
Altre lacrime calde scesero lungo le mie guance, costringendomi a fermarmi. Non potevo più guidare così, in questo stato.
Non andai mai a casa, lì non avevo nessun ricordo di lui e il desiderio di averne sarebbe stato troppo forte. Mi nascosi in una stradina secondaria e buia, a qualche isolato da Verdant, e restai lì.
Non so per quanto. Ma ricordo solo che quando mi ridestai, il mio soprabito giaceva sul sedile del passeggero e indossavo la sua giacca. Era l’unica cosa che mi restava di lui e nessuno avrebbe potuto togliermela. Piansi tutte le mie lacrime, gridai il suo nome e poi sfinita, ma piena di sentimenti, lasciai che il mio cuore si calmasse. Che i miei occhi si asiugassero e che la mente tornasse lucida.
Un pensiero folgorò la mia mente. “Non può essere morto.” Non so spiegare questa strana sensazione, ma era come se lui fosse vivo e se la giacca cercasse di comunicarmi qualcosa.
Certo! Non mi ero arresa l’anno prima, non lo avrei fatto adesso.
Potevo essere distrutta, rotta, ma nulla avrebbe potuto convincermi che lui fosse morto realmente. Non potevo crederci. Non volevo crederci.
Misi in moto, parcheggiai qualche strada poco più avanti e tornai al covo. Tre paia di occhi si girarono verso di me: Diggle, Roy e Laurel. Immagino avesse appreso da poco la notizia, i suoi occhi erano pieni di dolore e chiedevano anche vendetta.
Diggle mi si avvicinò e riconobbe la scintilla di vita nei miei occhi, perché mi strinse a sé e mi sussurrò all’orecchio: - Bentornata! -.
Mi staccai e lo guardai negli occhi. Poi dissi: - John, non è morto. Non può esserlo. Costi quel che costi lo troveremo e lo porteremo indietro. Qui. A casa. -.
Da me.

 
   
 
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