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Autore: Martichan97    18/12/2014    1 recensioni
Elizabeth Midford aveva sempre amato cadere.
Era come un desiderio intrinseco del suo subconscio: desiderava andare giù, sempre più giù, fino all'annullamento di qualsiasi fine da raggiungere. Cadere la faceva sentire bene, in pace con se stessa. Poi, con l'arrivo di quell'angelo dagli occhi blu, semplicemente non era più stato abbastanza.
[Storia partecipante al contest "Brace yourselves: angst is coming [Multifandom & Originali]" indetto da Starhunter]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciel Phantomhive, Elizabeth Middleford
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore (su EFP e sul forum): Martichan97 // martapix3697
Titolo storia: « Falling »
Fandom: Kuroshitsuji/Black Butler
Rating: Verde
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico
Avvertimenti: Modern AU dove i due non sono cugini: lei è una malata di qualche malattia mentre lui è un angelo custode. Giusto perché non avevo la più pallida idea di cosa inventarmi.
Note autore: No, niente, vorrei scusarmi se ho maltrattato eccessivamente i personaggi. Non penso di essere stata OOC ma boh, con me non si sa mai. Per quanto riguarda Elizabeth, si sa poco sulla sua introspezione e quindi mi sono presa alcune libertà. U.U Comunque, io e il “come” abbiamo una relazione bellissima, btw.
Premetto che non so cosa mi sia passato per la mente pensando di ricomparire pubblicando una storia abnorme proprio su questo fandom, per giunta su una ship in ombra come la mia OTP di turno. Mi fa strano dirlo, ma per una volta non shippo slash e questo è un problema. (?) Anyway, vi chiedo perdono se in qualche modo ho offeso qualcuno e niente, vi ringrazio se avrete avuto del tempo per passare a dare un'occhiata. :3 Bao, lovely people.~
Disclaimer: “Falling” appartiene a Florence + The Machine.

 

 

Falling

 

« Sometimes I wish for falling, wish for the release »

 

 

Elizabeth Midford aveva sempre amato cadere.
Era come un desiderio intrinseco del suo subconscio: desiderava andare giù, sempre più giù, fino all'annullamento di qualsiasi fine da raggiungere. Cadere la faceva sentire bene, in pace con se stessa.
Aveva iniziato ad avere questa passione all'incirca all'età di sei anni, quando le era stata diagnosticata la malattia incurabile che le avrebbe impedito di vivere fino alla fine dei suoi giorni: era montata su uno scivolo ed aveva saltato; sbattendo contro la plastica usurata dalle intemperie e procurandosi lividi dovunque sul suo piccolo corpicino. Ma non ne aveva particolarmente sofferto: pur essendo durata solo pochi istanti di secondo, la caduta era stata bellissima. Le aveva donato una sensazione di libertà incredibile: aveva visto il mondo, la mamma, il papà, Edward, la balia Paula e perfino le sue maestre d'asilo.
Si era sentita talmente in pace, talmente bene, che se i suoi genitori non fossero venuti a prenderla per riportarla a casa probabilmente avrebbe fatto un altro tentativo.
Il secondo episodio si era verificato in ospedale, qualche mese dopo aver compiuto nove anni: la sua stanza era collocata al primo piano, non molto in alto, e il davanzale della finestra era tanto spazioso da consentire ad un adulto di sedervisi comodamente. E Lizzie si era seduta lì, per osservare il sole che tramontava. A dir la verità era stato più il vento a spingerla che lei stessa a lasciarsi andare, però la sensazione provata non era cambiata di una sola virgola: aveva assaporato il dolce sapore della realtà e ne era stata brutalmente strappata quando era arrivato l'impatto con il suolo duro nonostante il soffice manto erboso che lo rivestiva. Se l'era cavata solo con una gamba rotta ma ormai il suo spirito si era già irrimediabilmente corrotto.
Da allora aveva cercato quello che tutti chiamavano comunemente “suicidio” almeno altre tre volte: ancora non era riuscita; ma non avrebbe demorso. Se era riuscita a frequentare dei corsi di scherma nonostante la debolezza fisica; avrebbe potuto portare a termine qualsiasi obiettivo si fosse prefissata.
Qualsiasi.
Anche cadere.

Elizabeth sospirò, tirando su le coperte fino al mento: solo un mese mancava al suo compleanno e, quasi per scherzo, sempre tra un mese il suo cuore si sarebbe fermato per sempre. Non riusciva a essere triste, stranamente: si sentiva piuttosto sollevata nel sapere che la sua tortura avrebbe avuto termine in trentun giorni. Come per cogliere un ultimo miraggio della luna prima di abbassare le palpebre e volteggiare finalmente tra le braccia di Morfeo; voltò la testa da un lato e rivolse lo sguardo fuori dalla finestra: il primo particolare che le saltò all'occhio fu una figura scura appollaiata sopra il ramo della quercia secolare cresciuta di fronte all'edificio. Due enormi protuberanze la circondavano aggraziatamente mentre quella si alzava in piedi. Ma ciò che la colpì di più non fu tanto l'ombra vagamente umana, quanto gli occhi color zaffiro – che parevano volerle scrutare nell'anima per poi divorarla.
La tredicenne ne fu affascinata. Scattò dunque a sedere per osservarla meglio in maniera decisamente repentina e si provocò, involontariamente, un battito accelerato del cuore. Nel tempo necessario per farlo calmare, quell'ombra era già scomparsa.
Stanca, ma non del tutto disposta a lasciar perdere l'argomento, si ridistese supina e continuò ad osservare il ramo vuoto finché il sonno non venne a reclamarla; qualche ora più tardi.

La vera sorpresa la mattina dopo fu trovare qualcuno seduto di fianco al suo letto: una creatura minuta, perfettamente eretta e scura come la morte. La sua prima reazione fu lanciare uno strillo isterico, spaventata, poi successivamente si accorse di quegli enormi occhi blu che la stavano fissando e se ne sentì in qualche modo rincuorata. Per la prima volta dopo tanto, si sentì al sicuro come mai era stata entro quelle quattro asettiche mura.
Riuscì a blandire l'infermiera preoccupata che tanto celermente si era presentata nella sua stanza con poche parole nervose (« Non si preoccupi, ho solo avuto un incubo! ») e guardò svanire la schiena dietro la porta verde, credendo anche di intravedere un ombra di compatimento sui suoi tratti abbronzati. Non vi badò, scuotendo la testa bionda.
Fu libera, a quel punto, di rivolgere la sua più totale attenzione al possessore di quelle iridi così belle: era un ragazzo, dai morbidi e corti capelli neri, con indosso uno scuro completo vittoriano in netto contrasto con le morbide ali piumate che lambivano le mattonelle color limone pregne di disinfettante. Più curiosa era senz’altro la benda che nascondeva alla sua vista l'occhio destro: per quanto insolita; sulla sua carnagione pallida spiccava particolarmente bene e gli conferiva un'aria altera e superiore che Lizzie non poté fare a meno di trovare irresistibile. Inconsciamente fece per accarezzarlo – era così bello! – quando quest’ultimo parve riscuotersi dalla trance mistica nella quale era sprofondato e si scostò manco fosse stata un'appestata.
« Non toccarmi. » le ordinò freddamente, senza minimamente scomporsi.

Subito lucide lacrime si raccolsero alla base dei suoi occhi ma decise di sostituirle con un sorriso triste, malinconico: dopotutto non era forse così che tutti la trattavano? Non si voleva mai essere vicino ad un morto, per paura di un eventuale contagio. Memore della reazione di poco prima gli si avvicinò lentamente, inginocchiandosi sul materasso e gattonando fino ad essere alla sua stessa altezza. La creatura le regalò l'ennesima smorfia disgustata.
« Sei il mio angelo custode, per caso? » domandò, speranzosa. Abituata a vivere tra casa e ospedale, una dei suoi pochi intrattenimenti oltre alla scherma erano stati i libri di favole: Lizzie credeva a qualsiasi creatura magica ma più di tutto agli angeli custodi. Era convinta che chiunque ne possedesse uno, invisibile ad occhio nudo, che lo guidava e lo proteggeva giorno per giorno fino a quando il sonno eterno non fosse sopraggiunto: a quel punto l'angelo sarebbe intervenuto per trarre l'anima con sé al cospetto di Dio dove essa sarebbe stata giudicata. Le piaceva pensarlo, in più, come una sorta di avvocato, imparziale e al tempo stesso attaccato al proprio cliente. Era un pensiero carino e lei, come ogni cosa carina, lo adorava.
Il ragazzo – pareva avere la sua stessa età – storse le labbra irritato a quell'affermazione. « Dio sarebbe stato indubbiamente crudele ad affidarmi ad un'umana sciocca e frivola come te. Io sono qui solo per recuperare la tua anima una volta morta. »
Gli occhi della tredicenne si illuminarono, nonostante la voglia pressante di piangere si facesse pressante ogni secondo di più: allora aveva ragione! Era davvero il suo angelo custode, anche lei che era imperfetta ne aveva uno! « E non è forse questo che fa un angelo custode? Piacere, mi chiamo Elizabeth Midford ma se vuoi tu puoi chiamarmi “Lizzie”! »

« Lo so. » constatò piatto l'angelo, palesemente scocciato, ponendo fine a quell'inutile conversazione. Fu voltandosi che spiccò un balzo e scomparve nel vuoto oltre la finestra.
Senza cadere.

 

Nei giorni che seguirono, la creatura continuò però a tornare mestamente al suo cospetto, come un cane fedele con il proprio padrone: si era presentata con il nome di “Ciel Phantomhive”, appartenente ad una delle famiglie angeliche più nobili e vicine al Signore – e dire che lei aveva sempre pensato che gli angeli fossero tutti uguali.
Non era stata poi particolarmente sorpresa: un angelo così delicato e regale non avrebbe potuto appartenere a niente più che un ambiente consono al suo sfarzoso rango. Si sentiva così inadeguata in sua presenza: apparteneva sì ad una famiglia modestamente ricca, però al suo contrario era tutto l'opposto della perfezione e tantomeno le era garantita l'immortalità. Nonostante questo, l'adolescente si sentiva fortunata ad essere stata destinata proprio a lui, fra tanti.
La maggior parte delle ore l'avevano dedicata a passeggiare nel giardino del complesso ospedaliero: a lei era affidato il ruolo dell’interlocutrice tediosa e logorroica – ruolo che le calzava a pennello, a detta di tutti – mentre lui si dedicava semplicemente a seguirla, sospirando e di tanto in tanto rispondendo a monosillabi quando Lizzie minacciava di scoppiare in lacrime. Oggi però non sarebbe stata una di quelle giornate leggere, dove pretendere che tutto andasse bene non era poi così complicato: non si sentiva bene, le gambe le tremavano come gelatina e l'intensità del battito cardiaco pareva volerle spaccare in due la cassa toracica. In aggiunta, come se non bastasse, le risultava difficile respirare in maniera corretta: era parimenti ad avere un macigno sui polmoni e per quanta forza impiegasse per spostarlo, quello non si muoveva di un singolo millimetro. Stava male, Elizabeth Midford, soffriva terribilmente eppure nei lampi di lucidità tra un malessere e l'altro non riusciva a non pensare che se il suo fedele Ciel non fosse stato presente probabilmente sarebbe stata anche peggio. Sostava lì, perennemente al suo capezzale, un amalgama equilibrato tra bianco e nero. E blu, naturalmente. Come dimenticarlo.
« Sei venuto – esalò con un sospiro tremulo, cercando di espellere l'ossigeno dal corpo in maniera regolare – Sei venuto. »
Ciel si limitò ad avvicinare la sedia e a sedervisi sopra accavallando le gambe flessuose e infantili, un libro aperto dalla copertina rosso sangue poggiato in grembo. Le lanciò dunque un'occhiata a metà tra il compatimento e una ben repressa curiosità. « Fino alla fine, sarò sempre qui. »
Probabilmente fu il modo in cui lo pronunziò o lei che, in cerca di conforto, cercava un'ancora alla quale aggrapparsi per non affondare – non ancora – ma il suo cervello parve prendere un po' troppo sul serio quelle parole tanto da indurla a sorridere più di quanto già non stesse facendo. Improvvisamente la familiare eppure lontana sensazione libertà l'avvolse come un mantello, facendola sentire insolitamente leggera: fu come cadere, senza però muovere il corpo. Come sempre provò gioia e calore al contatto con quelle nostalgiche emozioni e si stupì di come tutto fosse nato da così poco, nonostante il suo stato di salute.
Ci si poteva innamorare per davvero a tredici anni? Non lo sapeva, nessuno si era mai preso la briga di spiegarglielo, eppure in quel momento fu sicura di averlo appena fatto e non lo rimpiangeva: in che modo si poteva rimpiangere qualcosa di tanto bello e rassicurante? « È consolante sapere che sei tu il mio angelo custode. »
Il diretto interessato si limitò a massaggiarsi il naso, composto ed esasperato al tempo stesso: con ogni probabilità, avrebbe voluto leggere il libro a qualsiasi costo pur di distrarsi dalla sua scomoda situazione ma lei continuava ad assillarlo; impedendoglielo. Immaginava dovesse essere snervante. « Non sono il tuo angelo custode; Lizzie. Io devo solo prendere in consegna la tua anima. Mettendola in termini umani, sono solamente un “postino”. Un tramite. Capito? Gli angeli custodi non esistono. »
A Lizzie non importò, in quel momento, se la convinzione di una vita relativamente breve era stata educatamente distrutta. Solo una cosa era rilevante; solo una andava fatta notare. « Mi hai chiamata “Lizzie”! Non lo avevi mai fatto- cioè- Oh mio Dio, sono così felice! »
Si sarebbe messa a piangere dalla contentezza se solo un attacco di tosse non l'avesse inchiodata nuovamente al letto, rattrappita e malconcia. A quel punto avvenne, di nuovo, l'inaspettato: il giovane si alzò – povero libro, caduto maleducatamente a terra –, le sorresse il busto quel tanto che bastava per darle qualche pacca sulla schiena al fine di farla smettere di tossire, quindi la lasciò libera di rilassare il corpo sulla superficie morbida del materasso.

« Non vederci nulla di speciale in questo gesto. – la avvertì, ritornando nella posizione precedente e raccattando il povero libro, al fine di ricominciare la lettura – Preferisco solo che la tua anima sia il meno danneggiata possibile quando la raccoglierò. Questione di tempistiche. »
La diretta interessata non riuscì a comprendere il sottile collegamento tra un'anima danneggiata e un innocuo attacco di tosse però tutto ciò su cui riusciva a focalizzare la mente era sul fatto che il suo angelo l'aveva chiamata per soprannome: alla luce di ciò, sarebbe anche potuta morire in quel momento e non lo avrebbe rimpianto per nessuna ragione al mondo. Una domanda le sfuggì dalle labbra, ormai quasi del tutto provate dalla stanchezza: « Quindi vuol dire che mi proteggerai sempre? »
Non aspettò una risposta, non aspettò niente: spossata, si lasciò scivolare nell'oblio, beandosi di come rilassarsi fosse meraviglioso dopo tanta fatica.
Fu solo quando si sentì sicuro che ella si fosse completamente addormentata che le concesse una risposta sincera, masticata fra i denti per paura che potesse costituire una prova contro di lui in futuro.
« Sempre. » e voltò pagina.

Qualche settimana dopo la quasi quattordicenne era di nuovo in piedi, fresca come una rosa e sorridente al pari di mille soli. Seduta sulla fresca erba del giardino, alternava frequentemente racconti di frivolezze e risatine sciocche ascoltata da un angelo insolitamente tranquillo.
Ultimamente, oltre al vizio di leggere senza sosta, aveva preso il vizio di non fissarla molto così da celarle perennemente lo sguardo color zaffiro. Elizabeth pensava che forse si comportava in quel modo perché non la sopportava più: non sarebbe stata la prima né l'ultima volta – … d'accordo, magari l'ultima forse sì – che qualcuno arrivava a stancarsi della sua parlantina e della sua stupidità. Non le pesava, non più di tanto.
Però quel giorno era ancora più pensieroso del solito.
« Ti senti bene? » non poté astenersi dal chiedere, la voce accorata e sinceramente preoccupata. Purtroppo non era mai stata troppo brava a farsi gli affari propri, pur avendo vissuto la maggior parte della sua solitaria vita in un ospedale. Forse aveva solo bisogno di conoscere un mondo non limitato da pareti. Forse.
« Prego? » fu la sua risposta, dopo qualche altro istante di silenzio totalmente innaturale. Si affrettò a mettere un segno alla pagina del libro e lo posò di fianco a sé, controllando qualcosa nella sua giacca ottocentesca per poi infine rivolgerle la sua totale attenzione.
« Sei taciturno. Ormai non ti limiti nemmeno più a rimproverarmi. Sta succedendo qualcosa di cui dovrei essere informata, per caso? » il suo stesso tono serio la sorprese: era da tanto che non lo usava e certo non si sarebbe mai aspettata di trovarlo utile in una situazione simile. Si abbracciò quindi le gambe con le braccia, le impeccabili code bionde ondeggianti ai lati del suo viso delicato, in attesa: chissà se si sarebbe aperto, almeno un po', mostrandole uno scorcio di paradiso. Di lei, dopotutto, lui sapeva già tutto senza bisogno di essere informato.
« A volte mi domando perché io ne stia parlando proprio con te, che non dovresti essere informata di nulla. – infilò la mano nella tasca precedentemente menzionata, mostrandole un orologio da taschino di quello che sembrava essere argento – Ebbene sì, c'è un problema: stai morendo troppo velocemente. »
Elizabeth tutto si sarebbe aspettata men che quell'affermazione: stava morendo troppo velocemente; il che voleva dire che non avrebbe mai compiuto quattordici anni o soffiato le candeline sopra la sua torta. E, tanto per rigirare il coltello nella piaga, le sarebbe stato precluso anche un regalo. Non avrebbe ottenuto nulla, se non una fredda bara sottoterra imbottita di cuscini. Come se fosse destinata ad avere ancora la facoltà di percepirne la morbidezza; certo.
Presa dallo sconforto, concentrò gli occhi sull'unica cosa in grado di distrarla: l'orologio. Lo strappò di mano a Ciel e lo tenne tra le mani, accarezzandone le rifiniture pregiate e subito dopo aprendolo, sospinta da un'irrefrenabile curiosità: all'interno non c'era niente di strano, solo un paio di lancette che pigramente ruotavano. Alla stessa maniera di un qualsiasi orologio costruito da un umano. Stava quasi per renderglielo quando notò, in basso, proprio sotto il punto dove erano tenute insieme le due lancette, il suo nome: “Elizabeth Ethel Cordelia Midford”; scritto in ordinati caratteri neri. Una scritta di classe, proprio come la persona alla quale l'oggetto apparteneva.
« Rappresenta la tua vita. Quando anche l'ultimo secondo sarà scoccato, spirerai in pace. – si sentì in dovere di puntualizzare l'angelo – Non è uno scorrere costante: a volte accelera, altre rallenta. Probabilmente sei solamente difettosa; capita. »
Eccola lì, la frase che da sempre l'aveva bollata come differente. La odiava, con tutta se stessa. Aveva passato tredici anni a combattervi contro, così come aveva dato battaglia a coloro che la davano per morta già anni or sono. E adesso era ritornata, di nuovo, a farle visita attraverso labbra amate. Sorrise amaramente, abbassando le iridi verde smeraldo: non avrebbe pianto, non davanti a lui. Gli si sarebbe mostrata carina, fino alla fine. « Già, hai ragione tu. Come sempre. – si alzò, barcollando ma riuscendo comunque a sostenersi sulle due gambe – Vedi il lato positivo, presto potrai fare ciò che fin dall'inizio hai sempre desiderato: liberarti di me. Ci metterò poco, te lo assicuro. »
Ciel non fece nulla per contraddirla.

Settantadue ore dopo, suo fratello Edward venne a farle visita: Lizzie non credette di poter ricevere regalo migliore di quello. Si tennero stretti l'una all'altra per quelli che parvero anni, poi scoppiarono a ridere sinceramente divertiti.
Così, dal nulla.
In tutto questo, il giovane angelo se ne stava tranquillo seduto sulla sua solita sedia e la osserva vivere – per quel che contava – senza la sua presenza. Udì le loro discussioni futili su argomenti altrettanto futili – la scuola, la famiglia, la scherma – e si sorprese a prestare più attenzione del dovuto alle parole di lei: sembrava così diversa, così viva, mentre si accompagnava al proprio familiare. Irradiava una luce calda, pura, quasi la sua anima si stesse rinvigorendo attraverso la gioia che la compagnia di altri simili le donava. Un fenomeno curioso e nuovo, per lui che era sempre stato abituato a dover accudire moribondi con un tempo di attesa di massimo quattro giorni.
Ne accarezzò il profilo precario con lo sguardo algido e si riscoprì inaspettatamente a protendersi istintivamente verso di lei quando la vide stringersi una mano sul petto per una frazione di secondo, prima che tutto tornasse alla normalità. Si accorse anche di aver trattenuto il respiro e di essere impallidito – ammesso e non concesso che fosse realmente possibile impallidire quando si era essere candidi come l'innocenza ed eterni come il mondo. Scosse il capo snervato, riprendendo a leggere la stessa riga per la terza volta.
Che perdita di tempo; gli umani. Constatò, cercando un pretesto che giustificasse il suo accarezzarsi le piume che non fosse quello di controllare con la coda dell'occhio qualsiasi movimento della sua protetta. Non poté impedirsi di voltarsi completamente quando Lizzie affermò, con un'allegria non indifferente, che tra qualche giorno l'avrebbero dimessa e sarebbe finalmente potuta tornare a casa, pronta a riprendere la propria vita da dove l'aveva interrotta.
Mente spudoratamente. Perché? Si chiese perplesso, osservando come il giovane dai capelli color del grano all'apprendere quella notizia si fosse buttato sulla sorella, afferrandola per i fianchi e facendola volteggiare in aria pieno di contentezza.
Per un attimo le loro iridi si incontrarono: verde contro zaffiro, cielo contro terra. Il dolore in quelle di lei era tanto palpabile da impregnare come veleno l'aria attorno al suo corpo e lui provò, solo per un istante, il desiderio di consolarla.
Solo per un istante, prima di morire di nuovo.

Elizabeth giaceva sul letto stancamente, respirando a malapena, le palpebre tenute aperte a fatica fisse sul soffitto bianco. Era ormai notte fonda, quattordici ore trascorse dal primo mancamento avvertito e con una consapevolezza allarmante sentiva che, se avesse chiuso gli occhi anche per un attimo, non li avrebbe riaperti mai più.
E se un mese prima il pensiero di porre fine alle proprie sofferenze l'aveva rasserenata; adesso era nello stato contrario: aveva paura. Non voleva morire. Perché proprio lei, poi? Cosa aveva fatto di male? Si era comportata inadeguatamente in un'altra vita e concederle di non vivere questa fino alla giusta fine era la punizione per il male compiuto? Queste e tante altre domande le ronzavano da un angolo all'altro della testa come zanzare alla ricerca di sangue; tuttavia, man mano che i secondi trascorrevano, perfino lo stesso pensarle si faceva più faticoso.
Percepiva vagamente i genitori al suo capezzale incitarla di vivere, di tenere duro perché lei era forte e ce l'avrebbe per forza fatta; percepiva le lacrime calde di suo fratello sulla mano sinistra e se ne rattristava immensamente, eppure l'unica figura sulla quale i suoi smeraldi erano fissi era quella minuta di Ciel, il quale la fissava in rispettoso silenzio ad ali spiegate, stringendo saldamente l'orologio per cronometrare l'esatto istante in cui sarebbe scivolata via da quel mondo. Sapeva che lui attendeva che fosse pronta, abbastanza carina da potersi presentare al cospetto dell'Altissimo senza sfigurare. Il problema era che non lo sarebbe mai stata ed entrambi ne erano perfettamente consapevoli.
Alzò di poco il braccio destro cercando di afferrare per un'ultima volta i contorni del suo viso altezzoso, la morbidezza dei suoi capelli scuri deliziosamente ordinati, l'impeccabilità dei suoi vestiti eleganti nonostante l'epoca ma soprattutto il colore intenso della sua iride blu, lucente come mai colore umano sarebbe potuto essere. Per un istante infinitesimale le parve anche di avere il privilegio di vedere l'occhio da sempre tenuto coperto, marchiato da un sigillo viola a forma di stella: la benda era scivolata via con un fruscio umile e niente era stato fatto per raccoglierla. Non poté però affermarlo con sicurezza poiché la sua vista si stava facendo sempre più confusa e ben presto non fu neanche in grado di distinguere le sagome.
Per un singolo istante, Elizabeth fu consapevole di stare cadendo (precipitando) dopo un'attesa protesasi fin troppo a lungo: nessuna finestra, nessuna emozione a far da tramite. Semplicemente lei, nient'altro. Era così facile. Attraversò, a quel punto, un momento nel quale qualsiasi suono, colore od odore venne dal suo organismo decadente percepito amplificato di molto rispetto alla normale percezione delle cose: da ultimo, una frase – a chi apparteneva? – rimbombò nella sua testa con il fragore di un'onda schiantata contro uno scoglio; quindi tutto sfumò via dalle sue dita e si dissolse in quel nero che era l'infinito.
Buon compleanno, Elizabeth!

 

« I'm not scared to fall
If there was nowhere to land
I wouldn't be scared
At all »

 

Il tempo, come qualsiasi altra cosa nel mondo, passò avanti con una facilità disarmante. Non si fermò a dare l'estremo saluto all'anima di una giovane fanciulla intrappolata in una realtà più grande di lei; la quale sperava solamente di poter vivere qualche in giorno in più. No, il tempo implacabile non si arrestava davanti a nulla; restava insensibile al dolore delle persone che speravano in vano di poterlo riavvolgere e cambiare.
Così avrebbe dovuto essere anche lui: imparziale ed insensibile.
Eppure ultimamente Ciel si trovava a fare qualcosa alla quale da sempre si era negato: pensare. Pensava al ruolo che le creature come lui giocavano sulle vite insignificanti dei mortali. Pensava proprio a questi ultimi, ignoranti della loro presenza, che si affrettavano per essere in tutti i posti contemporaneamente. Pensava, infine, a Lizzie e alla sua anima che nel momento prefissato si era alzata immemore della vita dal proprio corpo e lo aveva seguito fino al cospetto di Dio. Per la prima volta, in forse troppi secoli, aveva cercato di interagire, di stabilire un contatto che gli provasse che si stava sbagliando, ma a niente erano valsi i suoi sforzi: come tutte le essenze, non rispondeva più a nessun richiamo. Non era più una volontà; non era niente.
Elizabeth Midford era morta.
Anche per quel giorno aveva compiuto il proprio dovere: quattro persone erano morte e lui quattro ne aveva consegnate; staccando per la notte. Lavorava non stop da tanti giorni, avrebbe potuto permettersi una pausa. Si sarebbe dedicato al relax più puro per almeno una decina di ore. Ne aveva bisogno. Pur essendo esseri del tutto privi di emozioni, avvertivano la fatica, in quanto facente parte della loro natura per metà umana. Il Creatore ne era perfettamente consapevole e come tale donava loro tempo per rilassarsi e godere delle bellezze del Paradiso Terrestre. Ad un certo punto, però, non era abbastanza. Di colpo, non sarebbe mai più stato abbastanza.
Elizabeth era morta.
Non sapeva dove sarebbe andato. Con ogni probabilità si sarebbe limitato a sedere su qualche albero – nessuna quercia secolare, no, nessuna quercia secolare – e chiudere gli occhi; cercando riposo tra le fronde accoglienti, al riparo da qualsiasi sguardo. Si sarebbe rannicchiato lì, in attesa. Avrebbe aspettato un miracolo, l'alba, qualsiasi cosa potesse distrarlo e risucchiare la sua mente in perenne lavoro dal fissarsi sempre su un unico pensiero ricorrente. Sì, avrebbe fatto quello. Non aveva altra scelta. Lo sguardo gli cadde sull'orologio, immobile.
Lizzie era morta.

Sebastian fu il primo ad accorgersene: Ciel non era ritornato per riprendere servizio dopo la notte libera. Un comportamento insolito, per qualcuno sempre puntuale e meticoloso come il suo padrone. Cosa lo aveva spinto alla negligenza, dopo tanti secoli di fedele servizio?
Fu più per pura curiosità personale che per dovere che si avventurò alla sua ricerca, abbandonando la sua postazione giusto per qualche ora. Il mondo degli umani era vasto, se non infinito, eppure lui seppe esattamente dove avrebbe dovuto cercare. Credeva di aver capito quale problema affliggesse il suo povero padrone: era un sentimento del tutto mortale. “Amore”, lo chiamavano: il male che più di frequente induceva quella razza volubile all'autodistruzione e della quale loro, esseri superiori, dovevano tristemente occuparsi. Ah, quale ingratitudine!
Non si stupì, dunque, di trovarlo alla tomba della ragazzetta stupida e ciarlatana la cui anima era volata in paradiso all'incirca qualche anno fa. Si era liberato di qualsiasi manufatto angelico avesse addosso e sedeva a gambe incrociate di fronte alla lapide, leggendo un libro. Sfogliava le pagine con tutta la calma del mondo, la schiena perfettamente eretta e lo sguardo sempre serio e imperioso. Non pareva essere afflitto dalla propria condizione. Non pareva essere afflitto da nulla.
L'impeccabile Ciel Phantomhive ha trasgredito una regola. Pensò con un sorrisetto appena accennato, atterrando al suo fianco. Quest’ultimo non alzò neanche lo sguardo per salutarlo. Non fece nulla, se non quello che stava facendo prima del suo arrivo.
« Non vi facevo tipo da suicidio; signorino. » commentò l'angelo Sebastian, le mani saldamente dietro la schiena alla maniera di un qualsiasi altro maggiordomo.
« Sta' zitto e rassegna le mie dimissioni; invece di fare l'uccello del malaugurio. » si limitò a dire Ciel; il freddo sguardo color abissi marini accarezzante le parole volatili impresse sulla carta.
« A Dio dubito piacerà la vostra disubbidienza. » aggiunse a quel punto il più grande, allargando il proprio sorriso cattivo. Non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di prenderlo in giro, nell'educata e raffinata maniera caratteristica di un maggiordomo.
« Non mi interessa. – l'interlocutore di più bassa statura gli lanciò un'occhiataccia, come se rispondere a quell'ovvietà lo avesse infastidito – Io obbedisco solo a me stesso. Farai meglio a ricordartelo. »
Sebastian non aveva bisogno di sentirselo dire per tenerlo a mente: conosceva alla perfezione la testardaggine del signorino Phantomhive e con il tempo aveva imparato a detestarla caldamente. Anzi, fin dall'inizio. Però se c'era una cosa che apprezzava, quella era certo la sua propensione ad essere un angelo divertente: pensava di testa sua, agiva di mano sua e nonostante questo riusciva ad essere pienamente in regola, almeno di facciata. Sospettava che al Creatore questa sua ambivalenza non sfuggisse, eppure la ignorava, quasi fosse una cosa da nulla. Probabilmente già era a conoscenza di quanto sarebbe successo e lo lasciava scorrere, poiché i fatti non si sarebbero potuti concludere in maniera diversa: Ciel Phantomhive aveva trasgredito una delle tre sacre regole degli angeli, cioè abbandonare i propri manufatti magici, e per quella mancanza avrebbe dovuto essere punito con la cancellazione dall'universo intero, senza la possibilità di rinascere a nuova vita. Una pena dura, ma necessaria.

« Ovviamente, my lord. Provvederò affinché Lui ne sia informato. »
L'angelo evanescente sorrise soddisfatto, quindi si dedicò al silenzio. I due indugiarono in quell'attimo a lungo, prima che il minore si decidesse a parlare ancora una volta: « Avevo promesso di proteggerla e non sono stato in grado di adempiere a questo compito. Questo non è un suicidio, quanto un semplice regolamento di conti. »
« Come più vi piace pensarla, non cambia il fatto che subirete un destino peggiore della morte. E siete disposto a pagarlo per un semplice “regolamento di conti”? Avete coraggio, signorino, ve lo concedo. – le sue iridi rosse, affilate, si posarono sulla figura in basso; riscoprendola di poco differente dall'aria – Con il vostro permesso, mi congedo. »
Senza alcun ripensamento, il maggiordomo spiccò quindi il volo in direzione opposta. Non si prese la briga di osservare il suo vecchio padrone cadere: il tonfo di un libro sul marmo lucido fu tutto ciò che quella volontà altezzosa si lasciò dietro.

 

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