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Autore: _Shee    19/12/2014    4 recensioni
Un laboratorio sperimentale nascosto tra i ghiacci. Una sola sopravvissuta.
Per portare l'umanità a un passo dalla devastazione non serve altro.
[Iª classificata al contest "ART TALK - un contest olio su tela" indetto da ellie158]
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Non mi muovo da troppo tempo. Immobile come una statua fatta dello stesso ghiaccio che mi fa da scenario. Non c'è un sussurro, non c'è un alito di vento, speravo di sentire in lontananza il leggero sciabordio dell'acqua contro la banchisa e invece nulla, nell'aria fine si espande solo un ritmico battito proveniente dall'alto, il cui suono è coperto semplicemente dal fremente vibrare dei miei respiri spenti, aliti che si gelano a contatto con l'aria quasi volessero precipitare a terra come fossero pioggia. Ci sono solo io, rigidissima nella mia posizione, inginocchiata da quelli che mi sembrano secoli sul freddo ghiaccio, a guardare quelli che nel buio della notte sembravano i resti della nave che avrebbe dovuto riportarci a casa, a fissare senza più rabbia né risentimento, ma indifferenza e un ignorato senso di sconfitta quelli che, sul nero più fitto, erano stralci frammentati e creature dagli spezzati contorni in contrasto con il cielo mentre alla luce di un'aurora attesa da settimane e settimane, davanti agli occhi dell'ultima persona rimasta ad aspettare un sole agognato per mesi, si sono mostrate essere soltanto giganti masse, scurite da chissà quale sozzura, di autentico e immancabile ghiaccio.

Giorni e giorni a camminare nel buio più totale, aggrappandoci a una speranza invisibile a occhio nudo nella tenebra, a saziarci unicamente gli uni degli altri, avanzando passo dopo passo, caduta dopo caduta, scivolata dopo scivolata; infreddoliti, affamati e assetati.

Una fuga precipitosa la nostra, impreparati a sopravvivere in un luogo glaciale e privo di altre forme di vita al di fuori della costruzione che finora ci aveva sempre protetti. Una fuga necessaria, perché dopo essere stati scoperti eravamo assolutamente certi che anni e anni di sudore e fatica non meritavano di venir distrutti prima che compissero il loro scopo e senza aver almeno provato a scamparla.

Uomini ambiziosi e ardite donne che avevano scelto di giocarsi il tutto per tutto, raccogliendo poche derrate e pesanti vestiti, accalcandosi e correndo nella notte più oscura, trascinandomi di peso e proteggendomi giorno dopo giorno da ogni impervia pur di permettermi di raggiungere il mondo che avrei dovuto conoscere ma che ormai mai mi conoscerà.

Avevamo abbandonato in fretta e furia il calore del laboratorio, che per quanto fosse una struttura bianca e asettica era casa nostra. Avevamo cercato di distruggere ogni traccia dei nostri studi, cancellato la nostra presenza e le nostre tracce, perdendo qualsiasi prova esplicita di ciò che sapevamo avrebbe cambiato il mondo. Ricordo di essermi girata solo un attimo a osservare la pira vermiglia che aveva avvolto rabbiosa l'edificio divorando anche il terreno sottostante. Avremmo rimpianto in ogni suo senso l'ardente bollore e la lugubre luminescenza di quell'incendio per molto tempo.

Lo sforzo di troppe persone stava per cadere nelle mani di chi non avrebbe mai saputo come gestire un tale potere facendolo deperire, e la nostra unica possibilità era imbarcarci sulla scialuppa che da anni rimaneva ancorata sulle rive dell'isola in attesa che il progetto fosse finalmente perfezionato e poter poi raggiungere la nave ormeggiata e nascosta a distanza dalla costa. Così vicini al raggiungimento del nostro scopo siamo stati improvvisamente costretti ad allontanarcene.
Fingere di essere morti in quel rogo e sperare di poter raggiungere la nave senza essere scoperti era diventata la nostra ultima salvezza...

E abbiamo fallito. Siamo iniziati a crollare, l'uno dopo l'altro, non sul ghiaccio stavolta, ma dentro il baratro di nulla più desolato di questo posto, il regno dove l'unica divinità veste di nero e brandisce una lucida falce. Ogni passo era diventato una tortura, era troppo. Eravamo già malati, divorati dall'interno dai nostri morti.

Potrei ricordare all'infinito i sorrisi stanchi ma fiduciosi dei miei compagni di sventura, le mani che aiutano a rialzarti da terra, i sussurri di incitamento, tutti imbottiti in pesanti pellicce biancastre calcate fin sopra gli occhi, ma più di tutto non avrei mai dimenticato il battere furioso dei denti, gli acuti lamenti, il dolore lancinante di ogni arto trafitto dagli aculei aguzzi e appuntiti del gelo polare, la fame, i pochi bivacchi arrangiati al chiuso di qualche grotta, e quella carne semicruda così maledettamente amara...

A portare il vessillo della sconfitta ormai sono rimasta da sola, l'unica che potrebbe raccontare al mondo ciò che è successo, ciò che volevamo fare, delle vite troncate lungo il cammino, degli esseri umani che mi hanno salvato la vita; eccola, l'unica che potrebbe ancora fare qualcosa, caduta di peso e immobile da ore.

È finita, non faccio che ripetermi, è maledettamente finita. Io so bene da cosa proviene questo ritmico battito proveniente dall'alto che si fa sempre più assordante, è un elicottero e benché lo sappia me ne rimango ferma in bella vista, sotto le prime luci dell'alba, coperta solo di una pelliccia d'orso non più bianca ormai, e che puzza terribilmente della carcassa dell'animale che ci è morto dentro, ad aspettare che qualcuno arrivi a piantarmi una pallottola in piena fronte.

Nessuna nave all'orizzonte. Neanche una misera bagnarola. Nessuna speranza di rivoluzionare il mondo. L'immolazione di tanta gente che credeva in qualcosa che ben presto avrebbe cambiato il mondo, gente che credeva in me... Tutto in fumo.

Al mio senso di disfatta si aggiunge pian piano il senso di nausea di ciò che mi gonfia il ventre. Si dibatte come dovrei fare io in questo momento, pressando contro la bocca dello stomaco e comprimendo il fegato infiammato.

Mentre stringo i pugni affondando le unghie nei palmi mi chiedo, quasi con ironia, quante probabilità ci siano che queste fitte non stiano cercando di esortarmi a tentare almeno un altro passo, che forse basterebbe veramente poco per scorgere la nostra nave in attesa solo del mio arrivo...

Come se non bastasse il rumore ritmato e assordante dell'elicottero si avvicina istante dopo istante, riecheggiando a ogni battito del mio cuore. Devo allontanarmi da qui.

Che cosa sto facendo ancora ferma? Non ho il diritto di desistere. Seppur inutilmente perché non corro alla ricerca della scialuppa? Non dovrei farmi bloccare da nulla. Niente è perduto finché c'è ancora qualcuno a crederci...
E io ci credo? Ci ho mai creduto?

Sì. Cazzo. Ed è stato proprio durante questo viaggio che ho imparato a farlo. Sebbene il mio destino fosse stato segnato fin dall'inizio, ero sempre stata scettica, ma le insidie a cui solo io ero purtroppo sopravvissuta, ogni più immorale gesto a cui mi sarei voluta ribellare ma che mi aveva portato fin qui, l'essere stata costretta ad ascoltare a un passo dalla morte le disperate suppliche dei miei compagni di vivere di loro e per loro almeno un giorno ancora senza poter lasciare che fosse la fame a fermarmi, il sacrificio di ogni vita per una sola occasione, la voglia di vomitare a tanta consapevolezza, erano servite a farmi credere nel loro sogno.
Io ci credo. Ho deciso di crederci. Perché ciò in cui riponevano la speranza non era qualcosa di astratto, un dio, un idolo, un'ideale... no, loro credevano in me. E anch'io avevo deciso di farlo.

Inizio a staccare un ginocchio da terra, precario dopo tante ore di immobilità. Il sangue torna a scorrere nei polpacci infreddoliti e i nervi tremano a una scarica di calore così improvvisa e impetuosa. Correrò, devo recuperare tutto il tempo sprecato, non posso arrend...

«Altolà!» grida qualcuno alle mie spalle e io mi irrigidisco nuovamente. Troppo impegnata nei miei pensieri e con le orecchie piene del frastuono di elicottero non mi sono assolutamente accorta di qualcuno dietro di me. Sono ancora in posizione di partenza mentre i passi granulosi sul ghiaccio si fanno più prossimi.

È giunta la mia ora, se il nostro obiettivo è e rimarrà per sempre un'utopia quello di questi luridi mentecatti è a meno di un colpo di fiocina di distanza. Ho perso tutto quel tempo a fissare il paesaggio desolato invece di correre fino a stramazzare al suolo per la fatica o crivellata dai colpi di un'arma da fuoco.

Respiro a forza dalle narici, non posso fermarmi qui, anche un passo soltanto ma devo farlo, non ho nessuna intenzione di continuare ad aspettare la mia fine come se fossi solo una chiatta in mezzo a una tempesta. Anche io sono rimasta nascosta per anni in attesa del giorno che avrebbe cambiato la storia del genere umano, anche io sono stata lambita dalle acque artiche dell'oceano aspettando finalmente di poter partire verso il continente... Non sono una barchetta, io sono una nave.

Scatto talmente veloce da non dare ai miei piedi il tempo di scivolare ma non faccio neanche qualche metro che una pallottola arroventata mi trapassa da parte a parte il polpaccio sinistro. Cado rovinosamente sul ghiaccio sbattendo faccia a terra.

Grido come un'ossessa trattenendomi la gamba con le mani. Gli stivali grondano di nuovo sangue, di un rosso più vivo e corposo di quello con cui erano già imbrattati.

Vorrei correre via nonostante tutto, ritornare a credere un'ultima volta, ma il mio spirito combattivo si è spento prima ancora di averne potuto saggiare la potenza.

L'uomo ora mi raggiunge correndo e mi preme con forza l'arma contro la nuca. Ho la faccia premuta contro il suolo e la pelle sembra corrodersi al contatto.

«Ti consiglio di evitare qualsiasi altro movimento brusco a meno che tu non voglia la prossima pallottola all'interno del tuo cranio.»

Io mi mordo le labbra, trattenendo lacrime e insulti. La gamba sembra in preda alle fiamme.

«Uccidimi, che cosa aspetti?» non chiedo altro, ho fallito, lasciami scontare la mia pena all'inferno.

«Identificati.» mi richiama lui a voce greve, ignorando quella che era palesemente una supplica.

Alzo lo sguardo verso di lui, e gli avrei sputato volentieri contro quella faccia da cazzo se non avessi saputo che quello sputo prima di raggiungerlo mi sarebbe tornato addosso.

«Fottiti!» grido rabbiosa.

Lui ora preme l'arma contro la mia guancia, chiudendomi con violenza la bocca.

«Come ti chiami, ho detto.» soffia lui spingendo il piede contro la mia gamba sinistra.

Io la ritiro con uno strillo acuto. Qual è il senso di questa pantomima? Sei a un passo dal successo! Vuoi divertirti con me, brutta merda?

«Heidelinde Heikkinen.» quasi ringhio. Cerco di alzarmi, facendomi forza contro la canna della sua arma ma lui con un movimento lesto la rivolta e mi rimanda faccia avanti colpendomi sulla nuca con il calcio del fucile.

Sono talmente abituata al sapore del sangue che quasi mi lecco le labbra a sentirne fuoriuscire altro dal mio corpo.

«Mi hai preso per scemo? La carne sarà commestibile ma non certo le targhette identificative. E l'identità della Heikkinen ci è ben nota.»

Io guardo la macchia rossa che si espande sul terreno sotto il mio naso e si unisce al lago di sangue sui cui giace la mia gamba. Avevo usato il nome dell'ultima persona che aveva continuato la fuga con me. Una ragazza di un coraggio e una forza senza pari, tanto che si dibatteva dentro di me pure in questo momento.

Le avevo spaccato io personalmente la testa contro il terreno ghiacciato, a quella traditrice. Tutta coccole e sorrisi, ma dopo settimane e settimane a vagare sotto il cielo limpido avevo imparato a orientarmi grazie alle stelle e mi ero accorta che, rimaste solo noi due, aveva cambiato bruscamente direzione. Non solo voleva allontanarmi dalla nostra meta ma credeva di potermi far raggiungere senza intoppi il punto d'incontro con i suoi schifosi amichetti.

Eh no, bella mia. Non le ho neppure dato il tempo di giustificarsi e non contenta del fregio che avevo creato scoperchiandole la scatole cranica sulla candida superficie le avevo piantato un pezzo di ghiaccio in piena gola, più volte. Per certo non avrebbe più parlato.

Mi sono chiesta spesso come fossero riusciti a scoprirci, segregati e mimetizzati com'eravamo. E il motivo era palese. Qualcuno aveva parlato. Non certo uno qualsiasi ma la più insospettabile tra le scienziate del laboratorio. La Heikkinen ci aveva venduti tutti. Aveva rivenduto per chissà quale compenso ogni nostra speranza e le vite di tutti quelle che fino all'ultimo ci hanno sfamate.

Scappare si era comunque dimostrato inutile visto che mi avevano raggiunta. Come una fessa mi ero fatta raggiungere...

L'uomo torna a puntarmi l'arma contro il viso, assottigliando lo sguardo verso la mia espressione risentita.
Sembra provarci davvero gusto.

«Hai intenzione di rispondermi?»

Il mio sguardo rimane perso nel rosso che impregna sempre più i miei abiti.

«Kylikki Hreinsadottir...» sussurro più a me stessa che a lui.

L'uomo grugnisce e non so se ha sentito o no. Francamente neppure mi interessa.
Chiudo gli occhi pigramente, sperando di poter pregustare il nulla assoluto una volta che si sarebbe finalmente deciso ad ammazzarmi.

Dopo quel che ho fatto non ho alcuna possibilità di essere risparmiata.

«Non solo, viste le recenti vicissitudini, sarai accusata di omicidio colposo plurimo, omicidio doloso ai danni di Heikkinen Heidelinde e cannibalismo; come unica sopravvissuta del laboratorio di ricerca sperimentale tenuto segreto alle autorità, dovrai rispondere di complottismo mondiale e specificatamente della minaccia di una devastante arma di distruzione di massa di origine batteriologica denominata Progetto Killing - K1. Verrai portata alla base dove sarai interrogata e ogni cosa che dirai da questo momento in poi sarà usata contro di te. Non hai alcun diritto a rimanere in silenzio, a meno che non voglia farti strappare la verità sotto tortura, né a essere difesa da chicchessia.
La vostra malsana idea di poter conquistare il mondo sterminando milioni di persone finisce qui.»

Sento le braccia dell'uomo sotto le ascelle a tirarmi su di peso, rimango poggiata precariamente su una gamba sola, costretta con sgarbatezza a tenere le braccia dietro la schiena per essere ammanettata, e a quelle parole spalanco gli occhi ritrovando il desolato paesaggio invariato da quel che avevo osservato per così tante ore.

Eppure non mi era mai sembrato così bello, così travolgente, così angoscioso eppure emozionante. Lastre di ghiaccio tanto dense da sembrare relitti di una nave di pietra ancora tesi verso l'alto in perenne attesa del vento propizio.

Mi lascio spingere dentro l'elicottero, ormai alla nostra altezza, e sibilo di dolore quando vengo scaraventata contro un angolo.

E non posso fare a meno di sorridere.

Mi stringo nel mio angolo e cerco di nascondere nella pelliccia ciò che involontariamente si è andato a formare sulle mie labbra. Le braccia mi dolgono tese come sono, le manette mi sfregano dolorosamente i polsi, la pelliccia rimanda a tratti un ficcante odore di morte, Heidi si dimena e mi costringe a trattenere i conati di vomito, la gamba sembra dilaniata da fiammeggianti lingue di fuoco tanto che rimpiango quasi il terreno gelido su cui ero buttata fino a poco fa... eppure non posso fare a meno quasi di ghignare, anche pensando ai miei compagni e a ciò che mi hanno concesso di fare con il loro corpo. Sorrido, perché proprio chi voleva distruggere la nostra missione mi stava portando sul luogo predestinato a darne l'inizio: la terraferma.

Mentre l'elicottero si alza, l'uomo seduto accanto a me, mantiene la canna del fucile dritta verso la mia testa. Poveri stolti. Basterebbe loro un semplice colpo per abbattermi come si fa con un animale da macello, un colpo per mandare in malora anni di ricerca; un solo colpo per salvare a modo loro l'intera umanità; un unico colpo per risparmiarsi la visione di donne, uomini, vecchi e bambini sgolanti e lacrimanti in preda a un male fisico virale senza cura; un singolo colpo per non rendere la soffiata di Heidi completamente vana...

Proprio questo pensiero mi sorprende, non ci ero certo andata giù leggera con lei, avevo sfogato sul suo corpo la frustrazione che fermentava in me a vedere ognuno dei miei compagni morire lentamente e supplicare i sopravvissuti di poter far parte ancora di un sogno lasciandoci nutrire dei loro resti mortali, e forse solo ora sto cominciando a pentirmi di come l'ho trattata. Quando avevo visto il cambiamento nel suo comportamento non avevo ragionato assolutamente sul fatto che fosse tutto calcolato, che forse in questo modo aveva solo accelerato i tempi...

L'uomo tiene gli occhi fissi su di me e io ricambio con piacere. Per loro è già troppo tardi.
Chiudo gli occhi e ascolto il mio stomaco brontolare. Nascondo il mio sorriso inverecondo con sempre più difficoltà mentre so che lo sguardo dell'uomo indugia disgustato sul mio viso.

Come ho potuto dubitare di Heidi? Era stata dannatamente brava. Non solo aveva tolto di mezzo sul serio qualsiasi prova , sterminando ognuno dei possibili testimoni e portandomi a fare lo stesso con lei, ma lasciandosi scappare le informazioni, aveva omesso il dettaglio più importante di tutti, e be', ormai è ora che il mondo lo sappia... che tutti voi lo sappiate.
Il Progetto Killing - K1 sono proprio io.

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Hreinsadottir: figlia dell'epurazione.
  
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